giovedì 18 novembre 2010

Un giorno di febbraio d’alcuni anni fa ...

Nel febbraio d’alcuni anni fa, con un paio d’amici salii in vetta al Beco de ra Marogna, piccolo cono roccioso del gruppo del Nuvolau, che balza evidente dalla strada del Passo Giau. Più che per l’arrampicata, il Beco ha lasciato un segno nella storia d'Ampezzo, poiché per circa 400 anni segnò un confine nazionale, e oggi marca il limite fra la sanvitese Monte de Giou e il territorio regoliero ampezzano. Fino alla Grande Guerra il cono, la cui somità è quotata 2271 m, non aveva un nome. L'oronimo Becco Muraglia (Beco de ra Marogna), quindi, gli fu assegnato meno di un secolo fa, traendolo dalla Marogna, la Muraglia di Giau che alla sua base trova uno dei due capisaldi. Non è noto chi abbia salito per primo quella punta, dove nel '72 Franz Dallago tracciò una breve via di III e IV, ed un quarto di secolo dopo è tornato ad apportarvi una variante. L'accesso usuale al Beco si sostanzia in una parete inclinata di roccia ghiaiosa, con difficoltà di I per una cinquantina di metri di lunghezza. Un amico che vi è salito nel settembre 2009, mi ha riferito che sulla parete sommitale si è depositato ulteriore detrito, per cui sono più che mai necessarie prudenza e piede fermo, soprattutto per la discesa. Qualche mezzo di sicurezza forse tornerebbe utile, ma il terreno non ne favorisce certamente l´utilizzo. Sul Beco sono salito quattro o cinque volte, sempre per coronare un breve vagabondaggio nel sottostante, accidentato bosco del Forame, uno dei più suggestivi della nostra zona. Una delle mie salite è stata una vera e propria invernale: non sarò stato certamente il primo, ma l’inverno asciutto di quell’anno e la voglia di respirare aria sottile ci aveva spinto ad avventurarci su quella cima anche in una breve giornata d'inverno. Sono tornato ancora lassù, sempre volentieri: il silenzio ovattato del luogo e l'ampia visuale che si gode dagli sconnessi blocchi della cima li conservo dentro di me come un bene prezioso.

Una chiesetta ad alta quota, che merita più attenzione

Sul Passo Tre Croci (localmente Son Śuogo, 1805 m), valico che collega la valle del Boite con quella dell’Ansiei, all’inizio dell’ex strada militare diretta verso Forcella del Ciadìn sorge una chiesetta, che non è dedicata ad alcun santo particolare.
Vicino ad essa, tre croci di legno allineate ricordano la storia della povera madre morta assiderata lassù oltre due secoli fa con i due figlioletti, mentre tentava di scendere da Auronzo a Cortina in cerca di cibo.
La chiesa ha poco più di cent'anni: volle costruirla, infatti, nel 1906 Giuseppe Menardi “Tre Crójes” (1854-1938), proprietario del grande albergo sul valico. Il millesimo MCMV, collocato sopra la porta d’entrata, la farebbe però retrodatare al 1905.
L’edificio è chiaro, semplice e disadorno, e si articola in un vano unico con il presbiterio rialzato. Non offre particolari degni di nota, né sotto l'aspetto costruttivo né delle opere d'arte. L’altare ligneo, prodotto di buona fattura risalente al XIX secolo, fu tolto dalla chiesa della B.V. della Salute di Cadin per essere posto lassù in occasione dell’Anno Santo 1950.
Seconda in Ampezzo per quota dopo quella sul Passo Falzarego, la chiesetta di Tre Croci rientra nel perimetro del vicino Hotel, prima multiproprietà di Cortina e in ristrutturazione da lunghi anni: è aperta e non è granché curata. Di sicuro meriterebbe qualche attenzione, magari arricchendola col ricordo degli alpinisti ed escursionisti caduti dalle prospicienti vette del Cristallo fin dalla nascita dell'alpinismo, da Michl Innerkofler (+ 1888) ad oggi.

martedì 16 novembre 2010

Uno scampolo d'autunno

14/11/2010. Un po' di sole c'invita a partire, e così alle dieci del mattino lasciamo la macchina poco oltre Dogana Vecchia, alla base della pista forestale che ci porterà all'Albergo dei Peniés, meta di un'escursione alla quale siamo ormai affezionati.  In alto, sopra la rumorosa Statale d’Alemagna fra Cortina e San Vito, in una radura imboschita ai piedi della Croda Marcora, sorge quello che un tempo era un "cason" pastorale, al centro di un pascolo degli ovini sanvitesi. Arrivai lassù per la prima volta nel 1991: pur essendo citata sulle carte topografiche come "Baita Pinies", dell'antica costruzione però trovammo solo tronchi accatastati. Nel 1994 i tronchi, ormai marciti, furono sostituiti da una mangiatoia per gli ungulati, con annesso uno stanzino per una precaria sosta d'emergenza. Dall’ex Ponte del Venco, oggi cancellato dalle rettifiche alla SS51, la pista risale ripida il costone che fiancheggia un grande invaso detritico, inoltrandosi nella magra pineta che caratterizza le balze meridionali del Sorapis. Dall'Albergo dei Peniés, poi, si può salire ancora un po' lungo una pala erbosa costellata di massi, probabile resto di una grande frana. Essa termina sessanta metri più in alto, a 1427 m di quota. In quel punto, dove usualmente ci fermiamo presso un grande masso piatto, uno dei colatoi che scendono dal Marcora si divide in due rami minori, convogliando altrove ghiaie e detriti e tenendo pulita la pala, luogo verde e solitario. L'Albergo dei Peniés, dove siamo passati sette volte in cinque anni,  è un angolo rilassante che offre una visuale a 180°, dalla Ponta dei Ros al Péna, Pelmo, Rochétes, Becolòngo, Beco de Mesodì, Cinque Torri e Tofana de Rozes. Luogo quasi sconosciuto, è il clou di una distensiva passeggiata, nella quale credo che molto raramente troveremo qualcuno a contenderci il passo.

lunedì 15 novembre 2010

Non sarà famosa, ma è una gran bella montagna davvero!

Diciannove anni fa, l’11 agosto, giunsi con un amico su una sommità del tutto “fuori del coro”: la Cima Scotèr, nella porzione sanvitese del gruppo delle Marmarole, ben visibile dalla piazza centrale di San Vito ma incredibilmente ignorata. Buon pretesto per salirla fu la relazione pubblicata da Luca Visentini in “Antelao Sorapiss Marmarole” del 1986, dove comparivano queste allettanti note: “È cima tra le più belle di questa regione. Irragionevolmente dimenticata e trascurata. Notata, indicata sulle carte, ma sprofondata nel segreto di quei pochi – 10 salite dal 1940 al 1985!- che hanno potuto ammirare, calcando la sua vetta, l’immagine più diretta ed ideale dell’Antelao …” Nell’anno in cui salii in vetta, consultando il libretto apprendemmo di essere i secondi: dopo di noi non so, ma penso che ben poche persone tocchino ogni estate la solitaria vetta di questa grande montagna, superando i circa 100 m di dislivello che la staccano dal temuto Passo del Camoscio, con difficoltà di I-I+ su roccette non troppo difficili, ma piuttosto friabili ed esposte. La prima ascensione della Cima Scoter si deve ad Ernestine e Otto Lecher e C. Reissig con quattro guide ampezzane della seconda generazione, Giovanni Barbaria, Arcangelo Dibona, Pietro Dimai e Arcangelo Siorpaes, il 25/8/1900. Una curiosità: qualche anno fa, nei libretti di Giovanni Battista Del Favero "Tita Valier" (1878-1952), guida alpina di San Vito in esercizio dal 1910 al 1937, trovai le note di quattro salite con clienti sulla prospiciente, e più impegnativa Cima Bel Pra, ma in 27 anni nessuna su quest’altra montagna, che pure impone sul paese cadorino una sagoma massiccia e altissima. Con alcuni altri amici, partimmo per rifare la Scotèr intorno al 1997. Un incidente ad una del gruppo interruppe la salita, e oggi mi piace sempre guardare la Cima da San Vito, specie nella luce del tramonto, dopo un temporale o d'inverno. Non sarà famosa né ambita, ma è una gran bella montagna, davvero!

sabato 13 novembre 2010

Ricordando la posa del nuovo libro di vetta sulla Punta Nera, luglio 2008

Sono passati poco più di due anni da sabato 26/7/2008. Quel giorno partecipai, con gli amici Adriano, Mario, Mirco e Paola, alla sostituzione (proposta da Mario) del libro di vetta sulla Punta Nera, magnifica cima del Sorapis che si vede bene dal centro di Cortina, guardando verso S. Il nuovo libretto rimpiazzò il precedente, collocato lassù su mio suggerimento il 9/9/2000 da Giulio Lancedelli di Cortina (classe 1921), e distrutto dalle intemperie o - più facilmente -dall'incuria di qualche firmatario dopo otto stagioni di onorato servizio. La nostra salita della Punta Nera (che forse fu la prima cima "minore" in Ampezzo ad essere salita, per merito di Alessandro Lacedelli "da Meleres" nel 1876), seguendo le tracce che dalla Sella di Punta Nera risalgono una parete inclinata, purtroppo friabile e sporca di detriti, fu frustrata dal maltempo. Durante la discesa, infatti, si scatenò uno dei tanti rovesci di quell’estate balorda, che comunque ci permise di raggiungere la funivia di Faloria senza problemi. La Punta Nera, sulla quale personalmente mettevo piede per la settima volta in una ventina d'anni, mi ha dato di nuovo una bella soddisfazione, e soprattutto il piacere di condividere l'itinerario con alcuni cari amici, che in gran parte non la conoscevano. Ed oggi la rievoco con un po' di mestizia, dato che Mario è “andato avanti”.

giovedì 11 novembre 2010

Ciao, Mario

Stamattina se n'é andato Mario Crespan. Ci eravamo conosciuti poco tempo fa, tramite Mirco e Adriano. Era l'estate 2007: da allora abbiamo passato molte ore insieme, conversando di montagna e non solo; abbiamo scritto a quattro mani un pezzo sull'enigmatica Croda del Valico per "Le Dolomiti Bellunesi", io ho scritto per la sua "creatura", "46° Parallelo". Ci siamo trovati al Rifugio Biella per ricordare i cent'anni del CAI Treviso; nel 2008 siamo saliti insieme sul Corno d'Angolo e sulla Punta Nera, collocando su quest'ultima un  nuovo libro di vetta; ci siamo incontrati a tavola a Braies e poi a Treviso, per la mostra con i suoi manifesti di montagna dello scorso autunno. Meno di un anno fa ... 
Penso di poter dire che io e mia moglie gli siamo diventati amici, di quell'amicizia che soltanto la Montagna e i suoi ideali sanno cementare.
Ormai temevamo la notizia, ed essa ci rattrista molto. Siamo vicini a tutti, dai familiari ai conoscenti, certi che d'ora in avanti Mario salirà senza più fatica né dolore tutte le crode che ha amato.
Credo che la Montagna abbia perso un grande amico.
Un abbraccio forte a Paola, con l'auspicio che possa farsi forza.
Ciao, Mario.

mercoledì 10 novembre 2010

Il mio eremo

Nei momenti di maggior tensione che pervadono sempre di più la nostra epoca, ognuno di noi aspirerebbe a scovare un luogo nel quale rifugiarsi e isolarsi, sfuggendo alle storture e ai pericoli per la salute del corpo e dello spirito, che riempiono ormai la vita. Con un pizzico d'ironia, già qualche anno fa andavo dicendo che, qualsiasi cosa accadesse, se dovessi scegliere un luogo nella valle d’Ampezzo in cui rifugiarmi, l’avrei già individuato. Si tratta delle tre piccole caverne affiancate, distinguibili dalla Strada d’Alemagna nei pressi del ponte sul Ru de r’Ancona ma al tempo stesso remote, che bucano l’accidentata e misteriosa dorsale alberata e baranciosa che scende dal crinale Croda de r'Ancona - Ra Ciadenes sulla strada, sul versante sinistro orografico del Ru de r’Ancona. Le caverne, allineate su una cengia e scavate dagli Austriaci nella Grande Guerra per alloggiarvi un presidio dal quale esercitare un controllo infallibile sulla prima linea italiana, si avvicinano con un sentiero sempre più evanescente, anche se segnato con radi bolli rossi, ripassati forse dal samaritano (pare che oggi si sia redento) il quale, qualche anno fa, si divertiva a spennellare gli angoli più segreti della Croda Rossa. La traccia parte dalla strada poco dopo il ponte, e s’inerpica per la costa baranciosa, fino ad incrociare le tracce che dai Zuoghe raggiungono il Busc e la Croda de r’Ancona. L’ho percorsa alcune volte, sempre fuori stagione perché il versante è abbastanza ben esposto al sole, e in primavera ed autunno fa meno caldo. L’isolamento del luogo è alto, l’atmosfera che lo pervade è quanto di più selvaggio si potrebbe sperare, e per questo - nella fantasia - penso che rifugiarsi là in alto vorrebbe dire uscire veramente dal mondo. Certo, ci vorrebbero acqua, magari qualcosa per difendersi (dall'orso ...), coperte, abiti, viveri e tutto quello che la vita moderna ci ha ormai abituato a possedere, ma le caverne di Ra Ciadenes potrebbero costituire il mio eremo ideale!

sabato 6 novembre 2010

Strudelkopf, forse l'ultima gita prima di un lungo inverno

Dopo otto anni, l'altro giorno sono tornato con Isy su una bella cima, che conobbi per la prima volta nell'autunno 1989: lo Strudelkopf o Monte Specie. Rialzo quasi piatto della lunga cresta che dal Picco di Vallandro si protende verso la Val di Landro, lo Strudelkopf, fondamentalmente, è una cima "per pigri". Per toccare la grande croce di vetta, dedicata ai reduci di tutte le guerre, infatti, dal Rifugio Vallandro o dal Pratopiazza occorre rispettivamente da un’ora a un'ora e mezzo di cammino, seguendo una carrareccia militare sassosa ma poco ripida, praticata anche in MTB, che risale a curve i vasti pascoli dell'Alpe di Specie. Il 6 novembre scorso sulla vetta, che offre un panorama quasi ad angolo giro sui monti ampezzani, cadorini, pusteresi e su quelli della Valle Aurina, ci siamo ritrovati in dodici. Lungo la salita, coperta nella parte alta da 15 centimetri di neve dura e ben pistata, il sole scottava come in piena estate, tanto da ustionare il viso ad entrambi, e il cielo era luminoso e terso: siamo incappati, insomma, in una breve estate di San Martino. Attorno alla croce c'erano i soliti gracchi affamati a farci compagnia, il silenzio s'imponeva sovrano, ed abbiamo sperato che non fosse quella l'ultima camminata prima dell'arrivo del lungo inverno, ma ho qualche dubbio ... Oltre che per il panorama, il Monte Specie è conosciuto per l'accesso facile e abbastanza breve. Ma c’è anche un modo molto più “alpinistico” di giungere in vetta: dal versante di Landro, lungo la Helltal (Val Chiara), percorrendo la via di arroccamento degli Austriaci. Dal Ristorante Tre Cime, il sentiero segnalato risale la sfiancante costa alberata e baranciosa che sovrasta la strada, poi cambia versante ed entra nella valle vera e propria. Superato un tratto accidentato con una scalinata di legno, una breve galleria e una cengia munita di corde fisse, il sentiero prosegue sulla destra orografica della valle sbucando su una sella del crinale, dove si trovano i ruderi di un fortino. In questo punto arriva anche la carrareccia da Pratopiazza, che in una ventina di minuti porta in cima. Mentre il dislivello da Pratopiazza è di 300 m, quello da Landro è il triplo: per la risalita della Val Chiara occorrono poco meno di tre ore, abbastanza faticose ma interessanti per l'ambiente silvestre e solitario e le numerose testimonianze belliche. Mentre il percorso da Pratopiazza mi era totalmente nuovo, personalmente ho percorso la Val Chiara in salita e in discesa in cinque occasioni, e devo dire che tutto sommato non la rimpiango.

giovedì 4 novembre 2010

Un ricordo al giorno: 4 novembre, Bepi Degregorio

Il 4/11/1978 moriva a 89 anni, nella sua casa di Cortina, Giuseppe Degregorio, noto come "Bepi", alpinista e scrittore. Originario di Predazzo, si diplomò maestro elementare e fu amico delle guide fassane Tita Piaz e Francesco Iori. Perseguitato politico dall'Austria per le idee irredentiste, nel 1920 giunse in Ampezzo per dirigere l'Ufficio Postale, dove rimase fino alle Olimpiadi Invernali del 1956, e per arrampicare. Presidente del CAI Cortina dal 1924 al 1970, presiedette anche il Corpo Guide Alpine Ampezzane, il Soccorso Alpino, i cronometristi, e fu un buon arrampicatore. Ebbe all'attivo diverse vie nuove, realizzate con Federico Terschak e Erwin Merlet, sull'Averau (1925), Croda da Lago (1924, 1926, 1932), Pomagagnon (1927), Piz Popena (1925), Sorapis (1931) e sulle crode fassane. Sue anche la probabile prima invernale solitaria del Becco di Mezzodì (1925) e le prime sciistiche del Picco di Vallandro e della Cresta di Costabella (1934). Spesso in compagnia di noti alpinisti, ripeté le vie classiche della conca ampezzana, fino agli ultimi anni '40. Giornalista e scrittore dalla penna facile ed efficace, illustrò in numerosi articoli Cortina e le sue montagne, pubblicando nel 1952 da Cappelli un suggestivo volume con lo stesso titolo, rielaborato e ristampato con il titolo di "Andar per Dolomiti" poco prima della morte. S'interessò di impianti sciistici e di turismo, fu socio del Gruppo Italiano degli Scrittori di Montagna e fino a tarda età ricevette amici e alpinisti nella sua "Villa Soreghina" presso l'ex stazione ferroviaria di Cortina, dove la cornice del poggiolo d'ingresso era attrezzata con una corda di canapa e un cartello, che avvertiva "Solo per sestogradisti".

mercoledì 3 novembre 2010

Ra Ciadenes: da aprile a novembre, e anche oltre


Ra Ciadenes (le catene) è il nome della cresta che scende dalla Croda d’Ancona verso E terminando all´altezza del deposito militare di Rufiedo. Durante la Grande Guerra Ra Ciadenes, il cui punto culminante è noto come I Zuoghe (i gioghi), fu un passaggio obbligato per l'assalto a Son Pouses, e contro la dorsale s’infransero i tentativi di sfondamento dell’Esercito Italiano. La quota più alta, dove sorge un punto trigonometrico, e quella poco più bassa dove il sentiero che sale da S, segnalato ma abbandonato, scollina per scendere in Val di Gotres, offrono un magnifico scenario e consentono di osservare molte opere belliche. Da Ospitale, per ripida forestale e superando una cabina elettrica, si sale a una radura. La si traversa sino a un sentiero che s'inoltra nel bosco. Per esso, rimontando a tornanti l'erto costone di alberi e mughi, si giunge ad un inconfondibile canale di terra e detriti. Lo si supera prima a destra e poi portandosi a sinistra, e si continua tra i mughi. Proseguendo si esce su terreno aperto, e per zolle erbose si giunge a due casematte di cemento: quella superiore, utilizzabile come precario riparo dal maltempo, costituisce il termine della salita. Verso E, tra alberi e mughi, si può salire anche sui Zuoghe, dove s´incontrano altri resti di guerra. Presentando quest'ascensione, non banale perché poco segnata e in ambiente inselvatichito, che ho ripetuto 25-30 volte in ogni stagione, sempre con il piacere del ragazzo guidato lassù dai genitori per la prima volta nel 1972, mi auguro una cosa. Di non incontrarvi mai i “valorizzatori” turistici - istituzionali o non -, quei samaritani che girano per crode muniti di roncola e spray multicolori. Con il loro operato, spesso superfluo e pericoloso, infrangerebbero l’incanto di quei dirupi di scarso valore alpinistico, tanto strategici in guerra quanto disertati in pace. Ra Ciadenes sono belle così, e l'escursione appagherà soprattutto chi ama la Montagna minore, fuori dalle mode e dalla confusione.

martedì 2 novembre 2010

Un ricordo al giorno: 2 novembre, Popena Basso

Riannodando il filo dei ricordi di montagna, ho notato che riesco ad associarne uno quasi a ogni giorno dell’anno. Il 2/11/79, ad esempio, sotto una precoce nevicata, ero presente alla salita della Via Scoiattoli sulla parete E del Popena Basso, la cupola coperta di mughi che cade verso Misurina con strapiombi grigi e giallastri, solcati da vie di ogni difficoltà. Leggo nel "Berti" che la via, realizzata da Albino Alverà e Romano Apollonio il 29/6/1942, presenta un dislivello di 90 m con difficoltà di VI, e per superarla occorsero 22 chiodi: l’itinerario, breve ma secco, fu la prima via di sesto grado aperta dagli Scoiattoli. La seconda ascensione spettò a Francesco Corte Colò e Valerio Quinz il 13/9/1949, mentre la prima solitaria, nel 1952, fu opera di un Molin (Alziro o Attilio). I protagonisti dell'ascensione a cui assistei erano Enrico e Stefano, quest'ultimo non ancora  sedicenne: per me la via era improponibile, e così mi accontentai di salire un pezzo dell’adiacente Mazzorana-Adler, tracciata dalla guida Piero Mazzorana con un cliente il 17/8/36 e divenuta poi una classica. Ritiratomi sotto la neve, tornai a completare la Adler con Carlo cinque anni dopo, esattamente il 3/11/84. Vista la piacevolezza dell’itinerario, lo salii ancora in alcune occasioni. Nel 2008 sono salito ancora una volta sul Popena Basso, per la facile via normale. Ho potuto così riguardare le rocce alle quali sono legate diverse giornate della mia carriera di scalatore, che si espresse bene fino ad un certo punto e oltre, saggiamente, si arrestò. Mi piace tornare su quella mansueta cupola che guarda il lago di Misurina, lungo il sentiero, non segnalato e per questo noto solo a chi arrampica, che s’inerpica fra alberi, sassi e baranci fino in vetta: intanto la valigia dei ricordi non si chiude mai.

lunedì 1 novembre 2010

Le montagne e lo zodiaco


Volendo andare per il sottile, i toponimi legati alla montagna si potrebbero raggruppare nelle più diverse classificazioni: da quelli legati agli animali a quelli legati al lavoro, da quelli connessi alla religione a quelli derivanti da nomi di persone e compagnia cantando. Una raffinata operazione di questo genere l’ha già compiuta una quindicina di anni fa l’amica Lorenza, utilizzando i toponimi di Cortina e dintorni. Una piccola curiosità, che mi è venuta in mente maneggiando un sottopiatto ispirato al segno dello Scorpione, è che, almeno sui monti del Triveneto, ci sono anche toponimi legati allo zodiaco. Non li ho trovati tutti e 12, ma magari esistono, anche in zone un po’ più lontane da quelle che conosco meglio e frequento. In ogni modo, qui intorno ci sono toponimi che hanno nella loro radice i Gemelli, il Leone, il Toro, la Vergine; almeno un terzo dell’arco zodiacale l’abbiamo. Per non dire poi dei toponimi, a torto o a ragione, legati ai colori: le varie Cresta, Croda, Punta e Sasso Bianco; Forcella e Torre Gialla; Punta Grigia; Croda, Monte, Punta e Sasso Nero; Monte Rosa (non quello della Val d'Aosta, quello del Popera); Croda, Forcella, Monte, Sasso e Valle Rossa; Cima, Colle, Forcella e Promontorio Verde e chi più ne ha più ne metta. Quando non saprò più che cosa scrivere sulle montagne, potrei iniziare anche la raccolta di crode astrologiche, crode colorate, crode diaboliche, crode personificate, crode sante. Potrebbe essere il mio “alpinismo di carta” degli anni che verranno.

domenica 31 ottobre 2010

Un ricordo al giorno: 31 ottobre, Punta della Croce

La Punta della Croce, mediana delle tre cime che costituiscono il segmento W della catena del Pomagagnon, fino agli anni '80 del XIX secolo non si chiamava così. Il nome, infatti, le venne da una croce lignea, posta sulla sommità prima del 1883 da Giuseppe Ghedina Tomasc, la guida che sarebbe tragicamente caduta dal Nuvolau il giorno dell'inaugurazione del rifugio omonimo, 11/8/1883. Non è noto esattamente quando e per quale motivo il Ghedina abbia portato la croce su questo rialzo di cresta, poco rilevante a guardarlo da N, dove scivola con una pala detritica sparsa di zolle erbose sui magnifici Prati del Pomagagnon. Sul lato opposto però, verso Cortina, la Punta cade con una parete incisa a metà da una grande fessura, che – per quanto non tutta verticale né strapiombante – raggiunge la considerevole altezza di 650 m. Pur contando su tre vie di roccia, di cui una classica (Pott, guide Siorpaes e Verzi, 1900), la Punta della Croce non ha la fama delle sue compagne, Punta Fiames a sinistra e Campanile Dimai a destra. Anche la via normale, un itinerario che richiede mezz'ora da Forcella Pomagagnon e non presenta grandi problemi, non riscuote eccessivo entusiasmo nella folla degli alpinisti. L'ho salita tre o quattro volte, di cui ricordo quella con Claudia e Sandro di undici anni fa, il 31/10/1999, giornata clou di un autunno che sembrava non voler finire. Perché mi piace? Anche perché, una volta in cima, avvolti dal silenzio, basta guardare la prospiciente Punta Fiames, in genere popolata di ferratisti dalla primavera all'autunno, per rendersi conto del fatto che la Punta della Croce è una montagna abbandonata, ma tranquilla e ristoratrice.

sabato 30 ottobre 2010

Autunno sul Col Rosà

Domenica 23/10/83. L'altro ieri ho "passato" Diritto Amministrativo, e sono tornato subito a casa per onorare il successo come piace a me. Domenica scorsa, per fugare la tensione dell’esame ormai vicino, avevo salito da solo la ferrata “Strobel” della Fiames: oggi resto in zona e voglio salire la “Bovero” sul Col Rosà. Sempre da solo, per necessità ma anche perché voglio essere libero. Zainetto e tuta, in autobus a La Vera, a Fiames a piedi: m'immergo subito nel bosco e in breve - per il comodo, ombroso sentiero di Val Fiorenza – esco in Posporcora. L’aria è quella limpida e frizzante di un mattino d'autunno: non fa freddo, c'è un silenzio magico. Supero l’erto pendio che porta alla ferrata, e all'attacco trovo tre veneti, tra cui una bella ragazza. Scambio due parole con loro, ma ho quasi fretta, mi attende la cima. Un tratto in libera, e sulla traversata aggancio i moschettoni: assaporo la grande esposizione di quei 5 metri ben attrezzati, in breve sono fuori e rapidamente raggiungo la terrazza di mughi sotto la cima. Passo le ghiaie, salgo veloce il camino con gli scalini di guerra e sono in vetta: il campanile di Cortina batte il mezzodì. Non c’è nessuno: una fresca brezza, un pallido sole, un gracchio che pregusta la colazione ed io. Sto apprezzando l’isolamento di questa cima, così calpestata d'estate: metabolizzo più che posso il panorama, la soddisfazione di essere quassù, alto sulla valle, e di stare bene, in equilibrio e in pace con me stesso e con la natura. Sul terrazzo di vetta, esposto sulla parete verticale, riesco persino a fare un sonnellino. Quasi mi dispiace dover scendere, e rifletto sull'utopia di restare quassù, vivendo di alberi, animali, sole e vento. D’improvviso, però, un refolo rabbioso mi desta dal torpore: mi è venuto in mente che a casa mi aspetta il “Liebman”, il manuale di Procedura Civile!

venerdì 29 ottobre 2010

Piero Mazzorana, a 100 anni dalla nascita


Il 4/9/1977 avevo finito da poco il liceo, quando con Enrico, già lanciato verso l'arrampicata di alto livello, salii la via aperta nel 1934 da Comici e del Torso sulla parete S della Punta Col de Varda, sopra Misurina. La via è nota agli alpinisti classici per un mix di fattori, che ne fanno un percorso frequentato: infatti, anch'io l'ho salita altre tre volte. In uno degli ultimi tiri di corda c'è un tratto aereo e impegnativo, che superai provando forse la prima grande emozione dolomitica. Usciti dalla via, fra i massi della vetta trovai un barattolo con un biglietto, e lo lessi con la passione, già in incubazione, dello storico. Seppi così che il giorno prima era passato di là Piero Mazzorana (1910-80), guida alpina degli anni Trenta-Quaranta, "patron" dal '49 al '75 del Rifugio Auronzo e autore di una sessantina di vie nuove soprattutto nei Cadini di Misurina, qualcuna delle quali l'avrei apprezzata anch'io. Mazzorana era salito da solo per la “Via Obliqua” sulla parete S, continuando il percorso che per mezzo secolo lo aveva visto calpestare innumerevoli cime principalmente nei Brentoni, Cadini, Cristallo e Popena, Croda dei Toni, Popera, Sella, Tre Cime. Leggere quel piccolo biglietto sgualcito mi commosse, pensando che Mazzorana era già anziano, ma la passione della roccia non lo aveva ancora abbandonato. Quando, nella primavera dell'80, mio padre - che lo conosceva e me lo aveva presentato su in Rifugio - me ne comunicò la scomparsa, mi dispiacque di non avere fotografato quella firma tremolante nascosta in mezzo ai sassi di una piccola cima dolomitica. Forse era una delle ultime testimonianze della lunga vita di roccia della guida alpina Piero Mazzorana.

Sulla Wundt, d'inverno

La prima ripetizione invernale della rinomata fessura SE della Torre Wundt, nei Cadini di Misurina, salita per la prima volta l’8/9/1938 da Mazzorana e del Torso , fu compiuta diciotto anni dopo. Il 13/3/1956, infatti, Bruno Baldi e Fabio Pacherini, appartenenti a quel gruppo di triestini che gestiva la capanna al Passo dei Tocci intitolata a Dina Dordei, e da alcune stagioni perlustrava il gruppo aprendo dovunque nuovi itinerari, superavano per primi la fessura nella cattiva stagione. All’amico Alessandro, appassionato della Torre e della via, che abbiamo percorso insieme diverse volte (ad una di queste si riferisce l'immagine che accompagna l'intestazione di questo blog, scattata nel 1984), è venuto in mente  in più occasioni di ripetere la Wundt d'inverno, e naturalmente ha tentato di coinvolgermi nell’operazione. Forse, in condizioni meteorologiche ottimali, la cosa non sarebbe drammatica, anche perché la fessura Mazzorana è posta a S e non dovrebbe essere mai troppo gelata. Ma l’idea di salire al Passo dei Tocci con neve più o meno alta (io non scio), magari dormire nel locale invernale del Rifugio Fonda Savio, che non è propriamente una reggia, e soprattutto il pensiero di dover magari scendere per la via normale a N, mi hanno sempre fatto desistere dal progetto. Neppure Alessandro ha più pensato (forse) alla Wundt d’inverno, lasciando così a Baldi e Pacherini il primato della salita, di cui ho trovato di recente notizia in una Rivista del CAI di oltre mezzo secolo fa. Chi legge, se ne avesse intenzione, sappia che l’invernale della fessura, oggi piuttosto frequentata, non sarebbe più la prima: forse manca ancora l’invernale di un solitario, che potrebbe essere un'idea ...

giovedì 28 ottobre 2010

E il Corno d'Angolo sta a guardare ...

L'Unesco ha elevato le Dolomiti a patrimonio dell’umanità, a bene da tutelare a livello mondiale. A parte le questioni nate per ospitare la sede della Fondazione, che la Provincia propone di localizzare a Sedico; considerato poi che tutelare le montagne vuol dire tutelarne gli abitanti, perché le Dolomiti non restino solo cumuli di pietre senza vita, chissà quanti (anche fra i più attenti) sanno spiegare compiutamente il significato di “patrimonio mondiale dell’umanità”. Se cioè sia solo un’etichetta cultural-naturalistica o abbia anche una portata economico-turistica; se produrrà l’ennesima fabbrica di sovrastrutture e carrozzoni o aiuterà invece la rinascita della nostra terra, suggestiva ma viziata da vari problemi: spopolamento, captazione delle acque, chiusura di fabbriche, declino culturale … In quest'ambito, sottolineo un mio dubbio. Pensavo che “Unesco” evocasse solo paesaggi da favola, ambiente sostenibile, colori dei Monti Pallidi, natura, cultura, architettura dolomitica da rispettare, ma di recente ho potuto ammirare il costruendo ponte sul Rudavoi, nel cuore del bene-Dolomiti. È vero che il Rudavoi soffre di un grave dissesto idrogeologico, che la sua esondazione ha causato una vittima, che la via di comunicazione che ci passa, necessaria a lavoratori e turisti, merita la massima sicurezza, ma in che modo? Con un serpentone di calcestruzzo a due campate, alto 14 m e lungo 240, che scavalca un “ruscellone” non certo tumultuoso e largo forse un quinto? Con un “ricciolo” spaziale di cemento e ferro, sul quale si correrà a 90 km/h, mentre sulla strada prima e dopo il ponte, dove ogni primavera si ripetono i dissesti,si riuscirà forse a mantenere i 50? Il progettista difende il suo lavoro dicendo che (le correzioni fra parentesi sono mie)“… il ponte si concreta a livello percettivo, come una lama sottile, quasi invisibile nella luce della penombra; un uso efficiente dei materiali si traduce in trasparenza e snellezza della struttura, con armonia e unità delle parti determinate da una corretta proporzione. Il luogo acquista valore dal ponte, (con quello) antecedente il significato dell’ambiente è (era) nascosto; la costruzione del ponte lo ha messo in luce trasformando un sito in un luogo, scoprendo i significati potenziali presenti nell’ambiente …”. Nonostante tutto però, siamo di fronte a una bruttura di dimensioni … dolomitiche, e mi chiedo quanto verde servirà per attenuare almeno in parte l’impatto della struttura sui boschi al cospetto del Cristallo e del Sorapis. Nel 2011 mi toglierò la soddisfazione di salire di nuovo sul Corno d’Angolo, che domina il ponte: da lassù vorrei rivolgere lo sguardo al Rudavoi, 800 m più in basso, e ammirare “l’effetto che fa”. E meno male che le Regole ampezzane, proprietarie e gestrici del territorio, riavranno in dono i “relitti”, il tratto di strada solcato da 13 anni da un Bailey "provvisorio"! I due tronconi del viadotto sono stati congiunti da poco, ma per la chiusura del megacantiere dovremo attendere il 2012. Da allora, in barba ai principi dell'Unesco, potremo apprezzare un cavalcavia stile Val Lapisina (ma in quella valle c’è un’autostrada a 4 corsie, che collega la nostra Provincia con la pianura). In basso, sul ciglio sconvolto del Rudavoi, resterà un piccolo, malinconico cartello di legno che indirizza gli alpinisti verso la perla ambientale della Val Popena Alta e le montagne che le fanno corona, “patrimonio mondiale dell’umanità”.




mercoledì 27 ottobre 2010

Un ricordo al giorno: 27 ottobre, Cresta di Val d'inferno

Cresta di Val d’Inferno: una serie di guglie e spuntoni dal nome poco gentile, che divide Carnia e Cadore e s’inserisce nell’isolata giogaia dei Brentoni-Castellati. Cime fuori mano, spesso friabili, angoli romiti dove c’è sempre qualcosa da scoprire: questo è la Cresta, un ambiente romantico. Dalla cresta emerge il secondo Torrione, piccolo ma elegante, che guarda Forcella Camporosso e i boschi della Val Frison. Lungo lo spigolo S sale una via, fra le più consigliate del gruppo, che percorsi per la prima volta un quarto di secolo fa, il 27/10/1985. Era stata aperta nel 1938 da due fuoriclasse, Castiglioni e Detassis, che stavano girando le Alpi Carniche in vista dell’edizione dell’omonima guida. La via offre poco di succulento dal punto di vista dell’arrampicata, ma presenta alcuni pregi che la rendono molto apprezzabile da chi ama un certo alpinismo. Mi piacque salire nel fresco del mattino verso lo spigolo, dalla strada di Razzo per Forcella Losco, Camporosso e i pendii di erba e ghiaia sotto il Torrione. Il panorama che godevamo era insolito e originale: Carniche, Giulie e Dolomiti si proponevano in un avvicendarsi di piani diversi, che avrebbe colpito anche l’osservatore più distratto. Tutto era silenzio; in autunno, il periodo migliore per conoscere i Brentoni, nella zona regna indisturbata la quiete. Mi piacque salire la via godendo ogni passaggio, né duro né banale: una rampa, paretine sullo spigolo, un diedro liscio, una cresta finale esposta. Mi piacque riposare al sole in vetta, guardando le crode intorno a noi, nitidissime in una giornata di sogno. Scendemmo per la via normale soddisfatti, fra ripidi salti e cenge solcate dai camosci, avvicinandoci alla valle che si preparava al riposo e lasciando la solitudine dell’altopiano. Valeva una visita, il secondo Torrione della Cresta di Val d’Inferno. Spero che chi ripete quella via lo faccia quasi sottovoce, per mantenere l’incanto che resiste tra quelle montagne. Ne sarà ampiamente ricompensato.

martedì 26 ottobre 2010

L'uomo di legno

Ricordo esattamente il giorno: era il 16/2/1981, e con Enrico stavamo completando le corde doppie nella discesa verso la “terrazza” della Torre Grande d'Averau, dopo aver superato in invernale la Via delle Guide sulla Cima W, che all'epoca ripetevamo abbastanza spesso. Non pensavamo certamente che, in quella bella domenica d'inverno, sulle rocce della Torre Grande si aggirassero altri arrampicatori; e invece, poco prima di affrontare l'ultima parte della discesa, ci passarono accanto quasi furtivi due uomini, usciti dalla Via Miriam prima della lunghezza della “schena de musc”, che parlavano un idioma allora per me incomprensibile. Quello che scendeva davanti salutò, si fermò un attimo e, indicandomi il suo compagno, che non sembrava un rocciatore, indossava pantaloni grigi di lana e un berretto di lana blu alla Lucio Dalla calato sulla faccia barbuta, mi disse sottovoce: “Vedi quello lì? È giovane, e farà grandi cose.” L'uomo che si era fermato era Italo Filippin, poi responsabile del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane, mentre l'altro era Mauro Corona, scultore, alpinista e oggi anche rinomato scrittore.

Pala de ra Fedes

Di che cosa posso scrivere, stavolta? Riprendo una delle più belle scoperte che ho realizzato negli anni Novanta, la salita e traversata della Pala de ra Fedes. Come cima a sè stante la Pala non vale molto: è un fazzoletto di erba e detriti, individuato (penso ci siano ancora) da due ometti, sul culmine del primo risalto dello sperone W della Croda Rossa d’Ampezzo. Per la Pala, le carte riportano la quota altimetrica 2733: la guida Berti le riserva un inciso nella relazione della Via Nieberl alla Croda Rossa, secondo la quale si sale facilmente per erbe e ghiaie. Pur non essendo molto impegnativa, allora non mi parve proprio di aver toccato il vertice della Pala “facilmente”, né tantomeno di aver traversato sul lato opposto (peraltro non descritto in alcuna pubblicazione) passeggiando! La nostra ascensione iniziò sulla selletta caratteristica per i mughi bruciati, fra il Castel de ra Valbones e i Tremonti. Non fu banale: friabile soprattutto all’inizio, con qualche bel passo di I su paretine e canalini in un ambiente superbo. La discesa la intuimmo lungo un esposto e friabile pendio, sfruttando una serie di orme di camosci, che ci parve più sicura la seconda volta, trovando il terreno innevato. Fu una bella e faticosa salita, e la via del ritorno ci si parò davanti, logica e lineare, soltanto grazie alle peste degli ungulati! Un conoscente, che dalla Pala aveva tentato di scendere quasi a perpendicolo verso la Montejèla, si trovò a mal partito, poiché la scarpata opposta a quella di salita scivola nella valle con placche lisce, difficilmente superabili "senza avere le ali"! Avendola percorsa due volte e ricavatane una buona impressione, affermo che la traversata da Ra Valbones in Val Montejèla attraverso la Pala de ra Fedes è stata un’esperienza insolita e saporita, di quelle che restano impresse.

martedì 19 ottobre 2010

Cianpolòngo e/o Salvaniéra: una croce fra Cortina e San Vito (200° post pubblicato quest'anno!!!)

Sono passati già undici anni da quel sabato 16/10/1999, quando Mara e Ivano, appassionati escursionisti di Cortina che escono spesso dalle piste battute, fecero una scoperta, tanto più interessante poiché totalmente casuale, in una remota plaga del territorio di Cortina.
Salendo verso la Rochéta de Cianpolòngo, una cima posta sul crinale fra Cortina e San Vito, dopo aver visitato il cippo “numero 1” del confine fra le due comunità, a pochi passi dalla vetta gli escursionisti s’imbatterono in un altro cippo “numero 1”.
Su un lastrone roccioso apparve, infatti, ai loro sguardi stupiti una croce incisa, con la data 1779 e il numero 1, che fa esattamente il paio con quella presente circa 250 m più in basso, ai piedi del Zìgar, piramide visibile anche da Cortina che ebbe un peso di rilievo per definire i confini del territorio, al tempo anche confini fra l’Impero d’Austria e la Repubblica Serenissima.
Di questa duplice pietra di confine è probabile che fino allora nessuno sapesse alcunché. Non fu citata nei suoi pregevoli studi da Giuseppe Richebuono, storico d’Ampezzo; non la trovò né ne fece menzione Illuminato de Zanna, il ricercatore che negli anni ’60 aveva scandagliato per primo i 75 km del perimetro confinario ampezzano; non lo conoscevano i cultori di storia e d’alpinismo che chi scrive volle interpellare.
Il secondo confine “numero 1”, ripassato in vernice e copiosamente fotografato dagli “scopritori” (e poi visitato da chi scrive in più riprese, nel 2000, 2003 e 2004), è andato ad inserirsi come elemento prezioso dell’esplorazione del territorio d’Ampezzo, del quale sovente anche i residenti sanno poco o nulla.
Pur essendo raggiungibile con fatica ma senza difficoltà di roccia, giacché si mimetizza bene sulla dolomia, evidentemente l’iscrizione sfuggì a coloro che toccarono la vetta dopo il 1779. Non lo notarono, o non ne fecero parola, i cacciatori, i contrabbandieri, i pastori, i rari rocciatori che salirono la cima, e gli alpinisti che trovano sulla Rochéta la meta di una gratificante escursione da quando, nel 1986, alcuni amici hanno segnato l’accesso a minio e collocato in cima una croce e un quaderno per le firme.
Resta ancora da decifrare, e non pare del tutto intuitivo, il motivo di una duplice confinazione. Ad onore del vero, in ogni modo, una citazione illuminante sull’argomento c’è.
Leggendo il “Protocollo” del 20/8/1779, che descriveva l’andamento dei confini, i cippi e le distanze intermedie fra di loro espresse in Pertiche viennesi (m 1,896), il primo termine del confine Ampezzo - San Vito, quindi Tirolo – Cadore, avrebbe dovuto trovarsi in vetta ad una montagna, la cosiddetta “Rocchetta di Selvaniera”. Il testo originale recita così: “… la linea prosegue per la sommità delle più alte crode fino alla Rocchetta di Selvaniera rupe di grande estensione in continuazione delle crode di Ambrizzola.Ora a fianco detta cima, non potendo arrivare alla sommità, guardando verso Ampezzo fu scolpito il primo termine principale n. 1 ed una croce col millesimo 1779, in distanza dal Sasso di Mezzodì pertiche 1000.” Non è la stessa cosa, ma giacché nella fascia boschiva ai piedi delle Rochetes, sul lato di San Vito, oltre al toponimo “Ciampolongo” si rinviene anche un “Taulà Salvaniera”, il parallelo Salvaniéra – Cianpolòngo pare facile e remunerativo.
Azzardo l’ipotesi che, in prima battuta, i topografi del 1779 avessero iniziato a demarcare i confini sul terreno dal visibile “Zìgar”, dopo aver giudicato la Rochéta inaccessibile. Analogo sistema fu poi seguito al termine dei lavori sulla sponda opposta della Valle del Boite. Non riuscendo a salire il fianco S della Croda Marcora (dove qualcuno si avventurerà solo nel 1927), gli agrimensori incisero, accanto al cippo numero 10, la celebre mano, che traccia una linea di confine immaginaria verso i 3154 m della soprastante Croda.
Verificata in seguito la facilità, in senso alpinistico, della cresta che dalla Rochéta scende verso il Boite, probabilmente già nel medesimo anno i mappatori ritornarono in vetta, dove incisero la “nuova” croce con il numero 1.
L’ipotesi, più che logica, sembra probabile. La pietra di confine della vetta poi, a differenza di quella alla base del “Zìgar”, non fu fatta oggetto di ricognizione nel 1852, data della “seconda mappatura”, e nemmeno nel 1964, da parte di Illuminato de Zanna e amici. I topografi la dimenticarono, o non la conoscevano per niente?
Non essendo citato nel “Protocollo” né in altri documenti, il cippo “ritrovato” nel 1999 pare sia rimasto ignoto e invisibile per oltre 200 anni. Altra soluzione possibile non so fornire a questo piccolo dubbio storico, al quale sarebbe bello dare una risposta inequivocabile.

lunedì 18 ottobre 2010

Gironzolando intorno al Col Druscié

Alpinisticamente parlando il Col Druscié (1778 m), ai piedi delle Tofane, non è un monte. E’ un vasto dosso boscoso, apprezzato da tempi remoti per il panorama che offre su Cortina, poi in guerra per la posizione strategica, e sfruttato turisticamente da una settantina d’anni. Nel 1937, infatti, la sommità venne raggiunta da una delle prime slittovie. Nei primi anni '50 la slittovia fu demolita e al suo posto nacque una seggiovia in due tronchi, che partiva dalle case di Ronco e serviva le due celebri piste di sci “A” e “B”. Poco sotto l’arrivo fu costruita anche una casetta per l’alloggio degli operai. In seguito l’impianto passò di mano, il primo tronco di seggiovia venne chiuso e il secondo cedette il posto ad un impianto più adeguato ai tempi. Sulla sommità del Col, unita a Pietofana da una ripida strada sterrata oggi trasformata anch'esso in pista di sci, negli anni '30 era sorto un grazioso rifugio, nel quale dal 1947 al 1982 imperò mio zio "Ijuco" Majoni Coléto e fino al 1993 continuarono i suoi familiari, divenuto pochi anni fa una nuova struttura moderna in legno e vetro. Nel 1971, vicino al rifugio, sorse la mastodontica stazione a monte del primo tratto della funivia “Freccia nel Cielo”. Nell'aprile 1975, infine, fu inaugurato l’osservatorio dell’Associazione Astronomica Cortina, poi ingrandito e oggi sempre attivo. Nel 21° secolo, sul Col Druscié non è facile poter godere di un ambiente primigenio, anche se frequentandolo in una giornata di calma assoluta, si riesce persino ad incontrarvi qualche camoscio e il gallo forcello. Il versante che guarda Cortina, sulla destra orografica della linea seggioviaria, infatti, è abbastanza intricato d’alberi, mughi e massi rimasti come secoli orsono, e costituisce un piccolo serbatoio di natura selvaggia. Alla base del Col, in località Colfiére, c’è anche il "Sasso", piccola storica falesia di roccia ancora frequentata. Che dire di più? Anche i luoghi dove gli interventi umani sono stati piuttosto pesanti, potrebbero riservare qualche sorpresa!

domenica 17 ottobre 2010

Un ricordo al giorno: 17 ottobre

17/10/1910, un secolo fa. Le guide alpine Angelo Dibona Pilato e Celestino de Zanna de Bepe de Poulo scalano per prime con i clienti Amedeo Girardi e Leopoldo Paolazzi il Campanile Rosà, robusto pinnacolo che si appoggia alla parete E del Col Rosà. la via, 100 m circa di buon IV, avrà un certo favore negli anni '20 e '30 del secolo scorso, per subire via via il destino degli itinerari troppo lontani dal fondovalle, con roccia spesso incerta, pochi chiodi di assicurazione e il biglietto da visita di alcuni incidenti, anche mortali.
17/10/1965: gli Scoiattoli Ivano Dibona Pilato e Diego Valleferro Sfero salgono con Renato De Pol la breve parete S della Torre Romana delle Cinque Torri d'Averau, inerpicandosi più o meno dove si scende in doppia sia dalla Torre Romana sia da quella del Barancio. La via, 50 m circa di VI superati in tre ore con diversi chiodi, non è passata alla storia, se non come ricordo di Ivano e René, entrambi scomparsi in montagna.
17/10/1999: siamo in sei, e quel giorno saliamo un'interessante e poco nota sommità delle Dolomiti di Sesto in Pusteria: il Morgenkofel - Monte Mattina (2493 m), che fa da classico sfondo alla  testata della Innerfeldtal - Val Campodidentro. Qua e là dove non batte il sole è già comparsa la neve: la salita della cima e la traversata al Passo Grande dei Rondoi si svolge in condizioni tardo-estive e si rivela più lunga del previsto, ma molto interessante. Purtroppo da allora non abbiamo più avuto occasione di rifarla.
17/10/2010: un annunciato peggioramento del tempo dopo una serie di belle giornate tardo-estive, porta il primo assaggio d'inverno. Nel pomeriggio, i prati sono coperti di bianco da Alverà (1300 m) in su, e da Rio Gere (1690 m) anche la strada è tutta bianca. A Misurina si sono già accumulati 5-10 cm di neve, e nessuno ha ancora messo le gomme invernali ...

Confidando in uno scampolo d'autunno ...

Quando sopra una certa quota ormai c'è ben poco da fare, una meta adatta per un'escursione può essere il Rifugio Casera Ditta, costruito negli anni '800 unificando due antichi fabbricati costruiti a servizio della povera pastorizia della zona sull'unico slargo prativo dell'impervia Val Mesath, a 966 m d'altezza e a poca distanza dalla diga del Vajont. Da alcune stagioni il rustico rifugio è gestito, in maniera simpatica e anticonvenzionale, da Guido e Adriano; quest'ultimo vive lassù praticamente tutto l'anno e sulla valle e i suoi "orsi" ha scritto anche un libro, edito un paio di anni fa a Pordenone. Per salire a Casera Ditta, dove si possono trascorrere alcune ore in un ambiente dolomitico/prealpino selvaggio ed estraneo alle solite rotte, mangiando abbastanza bene e perdendosi con lo sguardo fra i boschi, i dirupi e le cime dell'incontaminato gruppo del Col Nudo, bisogna portarsi a Pineda. Sono quattro case fuori dal mondo, a cui si giunge per una comoda strada asfaltata che parte dal culmine della frana del Vajont. Da Pineda alla Casera Ditta occorre circa un'ora e un quarto di cammino: il sentiero segnalato, in parte rovinato dal penultimo duro inverno, nella primavera 2009 è stato ridisegnato lungo un erto canalone boscoso. Per chi non lo conosce, il Rifugio Casera Ditta, i suoi abitanti e frequentatori, le cime che gli fanno corona, potranno essere una piacevole scoperta. Noi l'abbiamo già fatta quattro volte, indirizzandovi anche alcuni amici.

sabato 16 ottobre 2010

Ipotesi storico-toponomastiche sulla Punta Fraio della Croda da Lago

Tra le arcinote Dolomiti ampezzane svetta una cima con una certa possanza, che la guida Berti indica con un oronimo proprio e una quota altimetrica, 2611 m. Salvo smentite, non mi pare però che la cima possieda vie di salita: potrebbe essere ancora inviolata o non meritare rilevanza alpinistica. E' la Punta Fraio, appuntito pinnacolo sulla cresta che dalla Croda da Lago si allunga verso NW. Il toponimo è di origine ampezzana e allude al "soragnon de ciasa" di un ramo dei Ghedina, oggi rimasto in valle soltanto nel nome di un'azienda commerciale. “Fraio” dovrebbe riferirsi a due fratelli, guide del periodo pionieristico, di cui non circolano moltissime notizie: Eugenio (1857-1885), che svolse la professione per poco, scomparendo appena ventottenne, e Simone "Scimonuco" (1859-1931), guida dal 1882 al 1903. Propongo un'ipotesi personale ramificata in tre possibilità: che Eugenio e/o Simone abbiano individuato (magari anche salito) la punta durante un'ascensione alla Croda da Lago, dedicandola al loro casato? Che l'abbia individuata (e magari anche salita) Simone, dedicandola con un pensiero degno di onore, al fratello scomparso giovanissimo? Che l'abbia individuata o magari anche salita qualcun altro, dedicandola ad Eugenio Ghedina? Non saprei rispondere a questo quiz: non ho testimonianze documentali o verbali, i testi che ho verificato (esclusa la guida delle Dolomiti Orientali, la quale non cita la Punta, limitandosi ad segnarla sulla cartina topografica del gruppo della Croda da Lago) non ne parlano, e sarei lieto di poter asseverare una delle mie proposte, aggiungendo ancora un'altra tessera al mosaico della storia dell'alpinismo ampezzano. La Punta Fraio, campanile della cresta turriforme che fa da cornice a tante immagini e cartoline di Cortina, costituisce un piccolo mistero storico, vecchio di un secolo e più e ancora insoluto.

venerdì 15 ottobre 2010

Lo Zoo di pietra: i nomi delle Alpi, di Lorenza Russo

In ricordo di una bellissima salita sulla Croda de r'Ancona, 15/10/2006.

È la notte dei tempi quando l'uomo incontra le Alpi: il termine esatto è Paleolitico, l'antica età della pietra. Si tratta solo di primi contatti, di escursioni occasionali, sulle tracce degli animali, alla ricerca di piante e erbe salutari. Per una vera umanizzazione dell'immensa regione montuosa bisogna attendere altre decine di migliaia di anni ma, a ben vedere, ne vale la pena. Nel Mesolitico dunque, 10.000 anni fa, i ghiacciai, inquieti, dopo essersi estesi e poi arrestati a ondate alterne, si ritirano, sciogliendosi verso valle e alluvionando la pianura. Allora l'uomo si addentra nel territorio alpino, pressoché sconosciuto, lui nomade, affamato e curioso. Comincia a familiarizzare con l'ambiente, con i secoli lo abita, poi fa suoi i cicli della montagna, alleva capre e mucche, fila la lana, entrando così nel secondo millennio prima di Cristo. Trascorrono altri millenni e con l'avvento dell'alpeggio come pratica territoriale diffusa, nell'Alto Medioevo, il vincolo con la montagna si fa più intenso, trasformandosi in una consuetudine stagionale.
È stato osservato che nessun ambiente naturale esercita sui suoi abitanti una pressione così forte come quello montano: pressione fisica dovuta al clima, fissata nell'espressione "sopportare nove mesi di gelo per averne tre di freddo" -, alle catastrofi e alla povertà. Ma anche pressione mentale dovuta all'isolamento, alla lontananza dal paese più vicino, all'orizzonte sempre chiuso dalla stessa sagoma di montagne. L'oggettiva asprezza dei luoghi ha richiesto un adattamento pratico, ma altrettanto importante è stata la capacità di capire, di possedere dentro di sé lo spazio montano verticale per poterlo affrontare e vivere nel modo migliore. Solo l'invenzione di una "cultura" adeguata alle terre alte ha permesso agli uomini di abitarle, trasformando le primissime escursioni di pastori nomadi in una convivenza permanente. Per secoli la sola montagna interessante è stata la monte, cioè l'alpeggio cui, nella buona stagione, gli uomini salivano con le loro greggi per restarci fino all'autunno. Animali e uomini. Uomini e animali. Animali e uomini. Ma monti niente. Non erano oggetto del loro interesse. Quasi non li vedevano. Nessun divieto, è ovvio, proibiva ai montanari - pastori di un tempo di guardare le pareti, almeno nessun divieto esterno. Forse un impedimento interno. Vale la pena di ricordare che il Monte Bianco, la massima vetta delle Alpi, è stata avvistata solo intorno alla metà del Settecento e conquistata trent'anni più tardi. Cercando di spiegarsi le ragioni di una scoperta così tardiva e tanto più sorprendente quanto imponente e visibile era, per esempio dalla valle di Chamonix, il colosso di ghiaccio e di neve, Charles Durier, storico-alpinista e autore della prima monografia su questa cima, nelle prime pagine scrive: "Come mai alla fine è stata notata? cos'è accaduto? Se sicuramente non è stata la montagna a muoversi, allora sarà lo spirito umano che si è messo in movimento per andare verso di essa". Il caso del Monte Bianco è eccezionale ma lo stesso discorso, con un lieve anticipo - inizio del secolo XVIII, vale per le altre montagne, alte o basse, in ogni modo incombenti: il piccolo uomo davanti all'immensa catena ha avuto bisogno di tempi lunghi per appropriarsene con lo sguardo e con il pensiero, per sentirla come spazio familiare. Quando ha potuto farlo, l'uomo alpino si è appropriato delle Alpi con i nomi: riflesso e risultato della percezione e della comprensione dell'ambiente, creati e scelti per distinguere le cime, oggi riflettono ancora un mondo di idee, l'esperienza quotidiana delle vette ignote, l'immagine che giorno dopo giorno si erano fatti di quelle rocce amiche - nemiche, di quella presenza sovrastante e costante. Questi nomi sono l'espressione più intima del processo di antropizzazione. Se ogni insediamento dà luogo ad un'interiorizzazione del territorio e la casa alpina è una proiezione della persona, non diversamente, credo, scegliere di dare il nome ad una cima implica un rapporto di intimo possesso con questa. I montanari hanno dato un nome alle "loro" montagne solo quando hanno sentito di possederle (1) e lo hanno fatto in un modo particolare, proiettando in esse, attraverso la mediazione simbolica dei nomi, sé stessi e il proprio mondo, le forme del proprio corpo - quante teste, dita, gole, colli... -, ma soprattutto gli animali con cui trascorrevano gran parte della giornata, le mucche, le capre, i galli...
La vita dell'uomo alpino, regolata dai ritmi dell'alpeggio, alterna lunghi mesi in fondovalle all'estate sui pascoli alti: intorno alla solita cerchia di montagne disegna una linea tormentata ai confini del cielo. Ormai l'uomo quelle montagne le conosce, le vede ogni giorno, ma una sera al tramonto, con il sole alle spalle, i contorni dell'orizzonte sono più nitidi e il profilo della roccia si staglia sull'azzurro limpido e scuro: il profilo, sì, come fosse una persona o un animale. Quasi per gioco prova a sostituire, con lo sguardo, porzioni di roccia con parti del corpo animale o con parti del suo corpo: ecco, che, allora quello spunzone diventa un dente o un becco, quella montagna a punta gli ricorda il corno di una delle sue mucche, quella dorsale frastagliata al confine con l'aria è una cresta, non troppo diversa da quella del gallo che gli fa iniziare le giornate. Il gioco funziona. E non solo perché le somiglianze si trovano facilmente, basta un po' di fantasia, ma perché lo aiuta a vedere le montagne in modo diverso. La metafora, animale o umana, agisce in due sensi: innanzitutto trasforma una cosa in un’altra, una montagna che fa paura, cui si deve guardare con rispetto, nelle forme di un corpo vivente, note e rassicuranti. Ma stabilendo un rapporto di somiglianza tra i suoi animali e le montagne, l'uomo alpino ottiene anche un secondo risultato: annulla la differenza, indiscutibile, di dimensioni. Di fronte alle pareti immense non è che un piccolo punto, ma se le vede in una prospettiva diversa, riconoscendoci figure corporee, allora le cime gli sembrano più basse, meno imponenti, meno opprimenti. La sua visione si trasforma in linguaggio e alle montagne vien dato un nome. Questi nomi ci raccontano un pensiero. Chissà per quanto tempo gli uomini hanno osservato le montagne prima di trovare una chiave di lettura, prima di vederci i loro galli, le mucche, i cavalli, prima di poterci "giocare": gli Sherpa dicono che il primo gioco da praticare in montagna è quello di stare al gioco della montagna, luogo metaforico per eccellenza. Gli uomini delle Alpi sono riusciti a farlo. Vedere figure animali nelle montagne quotidiane, ma pur sempre ostili, ha risposto alla loro esigenza inconscia di renderle benevole per non subirne la smisurata grandezza e per poterci convivere serenamente. In epoca medievale la cultura alpina aveva popolato le Alpi di esseri soprannaturali e fantastici, di mostri alati nascosti nelle caverne o sul fondo dei laghi. Queste creature, materializzazione di angosce ancestrali, "vivevano" ancora nel Settecento se il medico, naturalista e gran viaggiatore alpino, Johann Jacob Scheuchzer nel suo Itinera per Helvetiae alpinas regiones del 1723 poté censire e illustrare con belle incisioni tutti i draghi della Svizzera. Un bestiario favoloso, basilischi che pietrificano con lo sguardo, serpenti alati o con due paia di piedi e altri mostri. Da sempre sede degli dei, luogo sacro, spazio negato all'uomo, sfera ignota e lontana, irraggiungibile e intoccabile, la montagna era carica di insidie, era lei stessa un grande mostro pronto a dare una zampata. Ma i nomi delle montagne nascono ancora più tardi, nell'Ottocento, quando forse questi animali fantastici non ci sono più o fanno meno paura: gli animali che allora i montanari vedranno nelle cime rocciose sono ben diversi, non hanno nulla di mostruoso. Galli, cavalli, capre, mucche. Sono assolutamente innocui, anzi sono utili e giorno dopo giorno, nei secoli, sono diventati una grande compagnia, la sola compagnia. L'attenzione e la cura per gli animali, il desiderio di proteggerli da malattie (l'afta epizootica, soprattutto), dal morso di vipera o da attacchi demoniaci è confermata anche dalle pratiche magiche pagane, poi fuse con quelle del Cristianesimo, tuttora vive in alpeggi della Svizzera centrale. Tra offerte e altre invocazioni si ricordano preghiere intonate al tramonto e urlate dentro gli imbuti per il latte - megafoni rudimentali - perché le disgrazie venissero allontanate fin dove arrivava la voce; oppure l'usanza di aspergere il bestiame con acqua benedetta il giorno dell'Epifania. Ma processioni religiose all'inizio e alla fine della stagione dell'alpeggio sono diffuse pure negli altri settori della catena. E la benedizione dei pascoli e delle bestie da parte del prete, salito apposta dal paese di fondovalle, è una pratica solo da poco dimenticata. La consuetudine con gli animali al pascolo iniziava per gli uomini fin dalla giovinezza: tra i pochissimi giocattoli dei bambini sono stati trovati pezzetti cilindrici di legno, ancora ricoperti di corteccia, e intagliati ad un'estremità a raffigurare una mucca o una capra con le corna. I ragazzini radunavano queste modeste statuine in recinti in miniatura, come avveniva all'alpeggio con le mucche vere. Proprio a questi animali, il loro bene più prezioso, i montanari hanno pensato quando hanno scelto di dare i nomi alle montagne, quando con le montagne hanno potuto "giocare". Forse le hanno guardate con gli occhi disincantati dei bambini, per i quali avevano intagliato quei giocattoli, e ci hanno rivisto le forme che per loro avevano riprodotto nel legno.
Oltre a pecore, capre, mucche e vitelli venivano e vengono alpeggiati i cavalli, usati anche come bestie da tiro. Quanti "Monte Cavallo", soprattutto nelle più morbide Alpi orientali, dove le rocce levigate assumono le forme più varie e più variamente interpretabili? Dalle metafore equine a quelle bovine e caprine: le corna di capre e mucche ritornano in tante cime affusolate e appuntite. Due esempi per tutti - e sono tanti-: il Monte Corno che dà il nome a tutto il Parco Naturale nei pressi di Cavalese in Trentino e la denominazione svizzera del Cervino, il Matterhorn cioè il "corno sul prato". Queste corna sono ben note ai montanari- pastori che se sono sempre serviti per fabbricare rudimentali strumenti a fiato: la musica delle Alpi è sempre stata soprattutto la musica all'aria aperta dei pastori. Serviva a chiamarsi da lontano, a calmare gli animali, ad allontanare gli spiriti maligni e ad attirare quelli buoni; allietava i momenti di riposo e faceva dimenticare la fatica e la durezza della vita di ogni giorno. Quindi tutti questi corni di roccia nei nomi delle Alpi hanno, per così dire, una duplice motivazione: sono parti del corpo degli animali con cui i pastori hanno a che fare ogni giorno, ma sono pure degli oggetti con una valenza molto positiva. A sentire parlare di corna di animali in montagna verrebbe subito da pensare a quelle piccole e appuntite dei camosci, a quelle tornite e pesanti degli stambecchi o al palco maestoso del cervo maschio: invece i montanari hanno inteso quelle delle mucche. Se le popolazioni alpine preistoriche per procurarsi il cibo dovevano ricorrere alla caccia, già nel Medioevo questo non era più necessario in quanto l'allevamento procurava carne a sufficienza. Fatta eccezione per i periodi di grave carestia, la caccia sarebbe rimasta espressione di abilità, mezzo di affermazione e di prestigio sociale: la figura di Guglielmo Tell, leggendario eroe svizzero, con l'immancabile balestra, sarebbe diventata uno stereotipo alpino. Ma se i montanari hanno pensato agli animali che facevano pascolare piuttosto che a quelli che stanavano nelle gole rocciose o nei boschi fitti, questo è accaduto non solo perché la caccia, nell'epoca in cui hanno scelto i nomi, era diventata meno importante, ma perché avevano bisogno di rivedere nelle montagne forme consuete e rassicuranti, di animali preziosi e familiari, insomma di animali non montani.
Tra gli animali presenti fuori dell’abitazione di fondovalle del montanaro il gallo ha avuto e ha un posto di rilievo. E con il gallo le galline. La carne di pollo è sempre stata tenuta in grande considerazione perché veniva riservata ai malati, essendo più leggera e digeribile di quella di manzo. Caratteristica del gallo - animale spesso presente anche sulle cime dei campanili delle chiese di montagna - è la sua cresta, rossa e seghettata. Quante volte i montanari l'hanno rivista sul bordo estremo delle montagne, sulle frange di roccia ai limiti del cielo? Così tante che è la parola è entrata nell'uso comune a indicare la linea di congiungimento di due opposti versanti: la cresta del Monte Bianco, della Tofana e così via.
E del gallo i montanari "usano" anche il becco, per definire certe cime appuntite: se per gli abitanti di Zermatt è il "corno sul prato", per la gente di Valtournenche il Cervino è la Gran Becca, il rostro immenso di un fantastico volatile giurassico, ma gli esempi davvero non si contano, dal dolomitico Becco di Mezzodì alla Becca di Nona della Val d'Aosta, al Bec a l'oiseau sul Monte Bianco molti altri becchi sono rivolti verso il cielo. Ecco che le montagne diventano enormi volatili, sembrano meno inaccessibili, o almeno non vengono più percepite in tal modo, come luoghi sacri negati all'uomo: paragonando porzioni di monte a parti del corpo animale la gente perde quella soggezione ancestrale e quasi le addomestica, familiarizza con esse, muovendo un primissimo passo verso l'alpinismo. Le Alpi offrono molti esempi di uccelli di roccia, sono un’enorme voliera pietrificata, ma la trasfigurazione assoluta, forse la più perfetta, è nelle Dolomiti orientali: sopra il Lago di Alleghe dispiega le sue ali immense dal piumaggio screziato la bellissima Civetta. La metafora è ancora più notevole se si pensa che questo rapace, nella realtà, è poco più grande di una mano, insomma non è l'aquila reale: in queste metafore davvero la differenza di dimensioni non conta più: scegliendo termini di paragone di esigue dimensioni gli uomini rimpiccioliscono le montagne. L'enorme muraglia striata che chiude a sud l'orizzonte di Caprile è sempre maestosa, ma diventa più piccola, più umana.
Rispetto alle Alpi occidentali, più massicce e meno frastagliate, le Dolomiti si sono prestate meglio a questo gioco di trasformazioni, con le loro forme diverse, le torri, i pinnacoli, le gobbe e i seni, vera e propria plastilina per la fantasia dei montanari. L'abitante dell'Oberland, comunque, ha pensato, ha visto le stesse cose del montanaro delle Dolomiti e pur senza essersi mai incontrati, ai due estremi del "continente Alpi" hanno scelto di usare nomi concettualmente uguali. Perché la montagna che avevano davanti era, ed è, una sola, una montagna che ha fatto paura e preteso rispetto per secoli. La scelta di certi nomi "animali" (e antropomorfi) è arrivata quando la coltre di paura si era dissolta, ma forse è stata proprio la causa di questo rasserenamento. Ha allentato la tensione, lasciando il posto ad una visione più positiva e distesa di quelle montagne enormi.
Riuscire a guardare un problema con occhi diversi a volte può voler dire risolverlo.

NOTE

(1) I nomi delle Alpi compaiono tardi e lo spazio alpino resta pressoché anonimo fino in epoca altomedievale quando vengono denominate le zone fertili, e quindi utili, e i corsi d'acqua, elemento indispensabile. Bisogna aspettare l'Ottocento, e volte non basta neppure, per una maggiore ricchezza e precisione toponomastica.

(2) Nel caso di nomi di montagna che ripetono nomi di animali al pascolo si deve tener presente, però, che spesso certe denominazioni possono ricordare la presenza, nella zona, di questi stessi animali, senza avere alcun valore metaforico: per esempio l'Agnèr, una cima dolomitica tra Agordo e Belluno, non ha la forma di un agnello o di una sua parte, ma sulle sue pendici per secoli la gente ha fatto pascolare gli ovini.



giovedì 14 ottobre 2010

14 ottobre 1995: si va sul Becco!

Sabato 14 ottobre 1995. Approfittando di un'incredibile serie di fine settimana di bel tempo, cominciata il 2 settembre e che durerà ancora fino al 29 ottobre (lo ricavo dai miei diari), ho preso accordi con tre amici per una salita: la via normale del Becco di Mezzodì. La conosco bene: vent’anni fa fu il mio esordio nell’arrampicata, e dopo di allora l’ho salita altre volte, traendone sempre sensazioni ed emozioni d'altri tempi. Anche stavolta l’approccio al Becco, notoriamente non breve se fatto tutto a piedi, lo iniziamo dalla strada del Giau, all’altezza di Capanna Ravà. Ci vorrà un paio d'ore per giungere ai piedi della parete SW della “Ziéta”, dove si svolge la normale. Sarà una splendida camminata, dapprima ombreggiata e molto fresca, poi ingentilita dal caldo sole di una memorabile giornata d’autunno. La salita della via ha poca storia. Sono in testa alle cordate e salgo con calma, godendo i singoli passaggi e piazzando qualche rinvio in più dove penso che occorra: in poco meno di un’ora siamo in vetta. Il cielo è di un blu tanto intenso che pare dipinto, il sole scalda parecchio, siamo un po' stanchi e sostiamo sulla sommità per almeno un’altra ora, mangiando e riposando. Dall’alto si sente il generatore del Rifugio in funzione, il che fa pensare che il “Croda da Lago” sia ancora aperto. Scendiamo veloci con due provvidenziali doppie, paghi di aver salito (per i tre amici è la prima volta) la simpatica normale del Becco, con la quale nel 1872 Siorpaes e Utterson Kelso rivelarono al mondo il romantico gruppo della Croda da Lago. Ci portiamo in fretta da Modesto al Rifugio, dove è d’obbligo la birra, e qui trovo l’amica Lorenza, in zona per ricerche sui suoi prediletti toponimi. Quando arriviamo al Ponte di Rocurto è già quasi buio, ed è giocoforza risalire lungo la strada fino a Capanna Ravà per recuperare le macchine. Possiamo dire di aver trascorso un'altra giornata piena, e non immagino di certo che mi ci vorranno altri dieci anni per risalire sul Becco di Mezzodì, la mia prima montagna, il mio primo contatto con l’arrampicata nelle Dolomiti.

mercoledì 13 ottobre 2010

Ahi ahi ahi, caro Viktor ...

In diverse occasioni mi è occorso di intraprendere con entusiasmo la visita a cime poco note nei dintorni di casa, confidando su relazioni il più delle volte terribilmente obsolete, e di tornare a casa con le pive nel sacco per non aver trovato l’attacco, aver frainteso lo sviluppo degli itinerari, aver riscontrato difficoltà inaspettate dovute a modifiche morfologiche che al relatore della via erano ovviamente ignote. Ricordo bene il tentativo di ripetere l’itinerario, aperto dalla nota “Squadra della Scarpa Grossa” di Viktor Wolf von Glanvell nell'estate 1899, per la prima salita della Cima Campestrin N, che insieme all’adiacente Cima Campestrin S rappresenta l'angolo forse più remoto del Gruppo di Fanes. Seguendo la descrizione del “Berti” (forse compilata ancora da Glanvell), quel giorno prendemmo una solenne cantonata. Secondo la descrizione pareva che, tra l’Armentarola e l’Alpe di Fanes, all’altezza del Plan de Ciaulunch, dovessimo risalire il potente e friabilissimo ghiaione che sostiene il castello della cima. Da qui, per una serie di camini e cenge valutati di I o poco più, si sarebbe potuto raggiungere la vetta, che - secondo il caro amico Claudio Cima, alpinista e scrittore scomparso nel 2005 – un secolo dopo la conquista era stata salita sì e no 2-3 volte. Eravamo i soliti quattro, era un giorno caldissimo di agosto: giunti spossati alla sommità del bestiale pendio detritico che dalla Cima scende verso la Val Badia, due rinunciarono alla vetta accomodandosi in un anfratto sotto alcuni massi, e gli altri due, con il fido “Berti” in mano, cercarono la via degli austriaci. Ansimando e ponendosi mille dubbi, gli intrepidi superarono senza alcun'attrezzatura un lungo camino con difficoltà forse superiori a quelle previste, che scaricava senza posa. Quando l’ennesima frana sfuggì loro sotto i piedi puntando diritta ai due rinunciatari, pensammo che forse il caro Viktor non era passato proprio di là, che forse il camino era un altro, che forse una via così infida non poteva essere solo di I e deliberammo all'unanimità che era meglio lasciar correre.

martedì 12 ottobre 2010

5 x Cridola

Una via normale gradevole, che ha il pregio di tenersi un po’ al margine del circuito dolomitico, ritengo sia quella del Cridola, castello roccioso che domina l’Oltrepiave, a cavallo fra Lorenzago e Forni di Sopra. La via, segnata con bolli rossi che si palesano indispensabili in caso di maltempo, sale dall’angusta Tacca del Cridola, faticosamente raggiungibile dal Rifugio Padova o dal Rifugio Giaf attraverso Forcella Scodavacca. Salire dal Cadore all’attacco è già una bella galoppata, se non altro per i 1000 m di dislivello che si devono coprire, di cui un quarto lungo un canale di detriti instabili e faticosi. Fatto questo, restano 300 m di I e II, con alcuni passaggi per nulla banali (ricordo lo spigolo iniziale e il camino in alto, largo e liscio) e con una meraviglia naturale, l’”uovo del Cridola”. Ad un certo punto, salendo, si para davanti un macigno ovoidale, che non si capisce come rimanga da secoli in bilico su una cresta così sottile: bello da fotografare, un po’ meno da avvicinare, calamita in ogni caso lo sguardo. Terminata la salita, svoltasi per la maggior parte su roccia insicura, si è su una cima panoramica e ricca di storia. Primi a salirla, con invidiabile intuito dato l’andamento arzigogolato della via, furono il triestino Julius Kugy e Pacifico Zandegiacomo Orsolina, guida di Auronzo (“l’uomo dei 600 camosci”), il 4/8/1884. Il giorno prima i due avevano scalato il Cimon del Froppa per l’odierna via normale, che presenta un tratto di III! Nelle cinque occasioni in cui sono salito sul Cridola, lasciammo sempre la corda a casa, perche su quella normale non avremmo saputo dove ancorarla e avrebbe rischiato di esserci più di danno che di utilità. Per scendere occorre quindi un supplemento di prudenza, soprattutto se si fosse in comitiva, ma la gioia di aver scalato una vetta così particolare, isolata e solitaria, compensa qualsiasi disagio.

lunedì 11 ottobre 2010

Asfalto sì, asfalto no, asfalto forse ...

Correggendo le bozze del penultimo notiziario delle Regole d'Ampezzo, del quale sono direttore responsabile, mi ha colpito l'immagine della recente asfaltatura della strada Fedarola - Rifugio Angelo Dibona. Da profano senza cognizioni ingegneristiche ma amante del camminare, non mi sfugge che le strade montane bianche, sterrate, in terra battuta o come dir si voglia, col movimento odierno dei veicoli e i costi della mano d'opera, per l'ordinaria manutenzione richiedono spese e impegni non più convenienti. Diventa quindi risolutivo ammantarle di bitume e asfaltarle, ponendosi al riparo da interventi più costosi finché la neve, il ghiaccio, l'esondazione di torrenti, le frane non le danneggino e vi si debba rimetter mano. Ma l'idea che le ultime strade alpestri del territorio d'Ampezzo, da bianche siano diventate dapprima nere e poi grigie, restando comunque faticose per il camminatore, soprattutto al ritorno da lunghe escursioni, urta un po' i miei sentimenti romantici e forse sorpassati. Ricordo qualche decennio fa, quando a Malga Ra Stua salivamo ancora su sterrato, e l'amico Giorgio ci superò con la sua Lambretta mentre con mio padre arrivavamo al crocifisso, facendoci mangiare un bel po' di polvere. Rivedo strade fatte rigorosamente a piedi: San Vito di Braies - Pratopiazza, San Vigilio di Marebbe - Pederù e altre del circondario, ghiaiose e assolate, prive di deiezioni equine e solchi di carri e carrozze del tempo andato, ma inserite più armonicamente in contesti alpini ineguagliabili. E poi, all'Assemblea dei regolieri di qualche anno fa, riferendosi alla strada Campo - Malga Federa (oggi asfaltata) l'ex Presidente Ugo Pompanin non ammonì forse, con voce ferma: “Tendéi, a ašfaltà i bošche!” ("Attenzione, nell'asfaltare i boschi")? Una notizia interessante su questo fronte viene da Alano di Piave, nel Feltrino. Quel comune prealpino sta portando avanti con l'aiuto dell'Unione Europea un progetto che prevede una forma innovativa di asfaltatura. Una ditta di Fonzaso sistemerà la strada silvopastorale Bivio Malga Camparona - Malga Domador (2 km) con un conglomerato ecologico e “biologico” speciale,  certificato e brevettato, di produzione germanica. Finiti i lavori la strada trattata col conglomerato d'oltralpe apparirà sì asfaltata e compatta, ma bianca e somigliante ad una strada sterrata. Mi chiedo se sia soltanto un'illusione ottica o non piuttosto una soluzione futuribile, economica e rispettosa dell'ambiente, e se sarebbe utile prenderla in considerazione in futuro per altre nostre strade o piazzali, dove oggi serpeggia l'asfalto fra i larici e i rododendri.

domenica 10 ottobre 2010

Incontri ravvicinati con gli stambecchi

Non è (o perlomeno, fino a qualche annetto fa, non era) poi così raro incontrare gli stambecchi a Cortina, per chi frequentava determinate plaghe un po' fuori mano, soprattutto nel gruppo della Croda Rossa. Ovviamente, il sottoscritto si è aggirato spesso in molte di queste plaghe, e ricorda un incontro di qualche stagione fa con due "locomotive con le corna", che ebbe davvero del singolare. Una mattina d'agosto salivamo, l'amica Lorenza e io, lungo i dossi d'erba e rocce che dalla pozza, ahimè quasi asciutta, del lago de Remeda Rosses adducono alla cima omonima, antiporta della "grande" Piccola Croda Rossa. Ero in testa sul ripido pendio e cogitavo, quando sentii un fischio possente e prolungato, tipo treno-che-arriva-in-stazione, a brevissima distanza. Alzai la testa e me lo vidi ad un metro. Era un bell'esemplare, con un palco degno di un fotoservizio. Mi stava di fronte e mi osservava tranquillo, con l'aria tra il sornione e il beota che è tipica di quegli ungulati. Lo guardai: mi guardò: ci guardammo, e per un paio di minuti rimasi imbambolato, quasi estraniato, a considerare uno degli animali selvatici più alteri e misteriosi delle nostre montagne. Poi se ne andò, lasciando il posto a un altro. Per fissare anche quello (non avevo la digitale ...) mi sedetti, e rimasi altri due minuti, immobile, ad ammirare quel congegno naturale così possente e potente. Per me e Lorenza, in quel giorno d'agosto, uscire in vetta alla Piccola Croda Rossa fu più piacevole, sapendoci in compagnia.

giovedì 7 ottobre 2010

"Ra paré"

Il 7/7/1901 è una bella giornata di sole. Dopo alcune ricognizioni e la minuziosa preparazione del percorso, Antonio Dimai, trentacinquenne, e Agostino Verzi, di tre anni più giovane, guide affiatate, sono pronti. Col cliente londinese J. L. Heath scalano una parete che, oltre un secolo dopo, figura ancora a buon diritto fra le più amate delle Dolomiti: la S della Punta Fiames, nota in Ampezzo come ra paré (de ra Fiames). Il comodo accesso, l’alto valore della scalata che – pur non rientrando nemmeno all’epoca fra le più difficili – per quei tempi fu un traguardo notevole, e, non ultima, la possibilità di scrutare col binocolo le cordate fin da Cortina, innalzano di colpo la Fiames al primo posto fra le crode della valle ampezzana. Poco dopo la prima salita, alcune guide di cui ci mancano i nomi rettificano il tratto più difficile della Via Dimai (valutato di IV+), con la nota “Variante”. Quest’ultima serpeggia per circa 70 m di dislivello lungo una serie di camini, e sarà utilizzata spesso per scendere all’attacco, tenendosi sempre sul versante soleggiato della parete. Mancano purtroppo i dati sulla prima ripetizione e sulla prima senza guide della Via Dimai, della quale ben presto si perderà il conto delle ascensioni. Il 3/1/1913 Angelo Dibona e l’ungherese Anton von Csaky si aggiudicano una delle prime invernali documentate, mentre il 26/7/1945 Anna Caldart supera la parete da sola, compiendone forse la prima salita solitaria femminile. Venerdì 27/5/1976, chi scrive marina le lezioni della quarta liceo e, legato alla corda del coetaneo Ivo Zardini, supera timidamente ra paré. Ci tornerà quasi una ventina di volte, tre delle quali in pieno inverno, e ce l'ha sempre negli occhi e nel cuore.

mercoledì 6 ottobre 2010

Il "Ré del marzo"

Un’avventura nella quale ho sperimentato sensazioni di vera solitudine alpina, risale a quindici anni fa, quando si stava svolgendo una delle fasi più appassionate del mio vagare per crode. All’epoca, alcuni amici mi avevano assegnato l’iperbolica qualifica di “Ré del marzo” (della roccia friabile). Non so perché, in molte uscite tendevo a proporre obiettivi di difficoltà limitate, ma con roccia spesso infida e con qualche rischio oggettivo che, peraltro, la buona sorte ci permise sempre di evitare. Ero in ferie: non trovando alcuno per andare in montagna, il 26 luglio progettai di godermi una traversata “màrza”, che avevo già effettuato tre anni prima con tre compagni. Partito dal Passo Tre Croci, salii la Zesta del Sorapis per la via solita e discesi per la Via Casara da SW al Rifugio Vandelli, tornando da ultimo al Passo Tre Croci. Non si trattò, invero, di una prestazione di livello tecnico esorbitante. La via comune della Zesta da N è valutata di I, anche se - a mio parere - aggirare il gendarme nel primo tratto di cresta, data l’esposizione e l’instabilità del terreno, oppone difficoltà di II. La Via Casara sul versante opposto è anch’essa giudicata di I, e questo può anche coincidere, perché il camino sotto la cima (unico passaggio delicato) lo aggirai, e il resto è un erto pendio di rocce sgretolate. L’ambiente impervio e isolato in cui si svolge la salita e ancor più la discesa, nonché la natura della roccia (palesemente scadente), rendono la traversata un po’ scabrosa anche per un amante della solitudine, per quanto preparato, attrezzato e veloce possa essere. Quel giorno mi sentivo in forma, ma fui veramente solo, soprattutto scendendo a SW, dove indovinai il varco giusto per riguadagnare il sentiero soltanto grazie alle peste dei camosci. Dopo d’allora salii su quella cima ancora una sola volta, il il 6/9/1997. Ero in dolce compagnia, e ritenni più prudente tornare a Forcella del Ciadin per la via comune, eludendo la placca iniziale della cresta con una variante, che fino a quel giorno mi era sconosciuta. Ripensandoci, la traversata del 1995 si dimostrò un’escursione assai appagante: la ripeterei volentieri, magari però non più in solitaria!

Esplorando le crode agordine: il Monte Cernera

Il Cernera domina la Val Fiorentina con la parete meridionale di una delle tre vette, vinta nel 1953 da quattro Scoiattoli con una via di VI. E' una cima imponente, che si sale dal Passo Giau, portandosi per Forcella Zonia e i Piani di Possoliva fin quasi a Forcella Ciazza. Deviando poi a sinistra per la via normale, che presenta qualche passo di I, in un paio d’ore dalla partenza si guadagna un grande balcone sull’Agordino e sulle Dolomiti. Nel 1979, quando giunsi in vetta per la prima volta, lungo la salita non c'erano le odierne funi metalliche, e noi seguimmo la storica relazione di Berti, che a mio parere scoraggiava più di qualcuno dal salire lassù! Per iniziativa di Cesare Masarei di Colle, il tracciato fu poi segnalato e arricchito con due tratti di corda fissa, uno breve su una lastra umida ed esposta prima di Forcella Ciazza e l’altro, più lungo, in un canale quasi verticale della via vera e propria, praticata assiduamente, ma talvolta sottovalutata. Non è di tantissimi anni fa, infatti, l'incidente occorso ad un’alpinista, che perse la vita proprio sul breve, un po' friabile salto ferrato sopra Forcella Ciazza. Delle poche elevazioni della catena, che appartiene al nodo della Croda da Lago, il Cernera è la più conosciuta, e in stagione è frequente trovarvi numerosi appassionati. Vi sono salito, credo, cinque volte, apprezzando l’avvenuta facilitazione di un percorso che forse non aveva bisogno di corde ma così è stato reso più appetibile, e godendo sempre la salita, l'ambiente e il panorama. Consiglio senz’altro la via normale del Cernera, magari abbinandola col rientro per la romita Val di Zonia, per la quale si esce sulla SP638 6,5 km prima del Passo Giau in versante Val Fiorentina. L’escursione è molto valida, non è impegnativa ma neppure banale e consente di scalare una cima scenografica e degna d’attenzione.

lunedì 4 ottobre 2010

A tip for autumn: il Col Rotondo dei Canopi

Nell'autunno '83 ebbi modo di scoprire una cima piacevole, di notevole interesse storico e panoramico e sulla quale sono tornato diverse volte: il Col Rotondo dei Canopi, in tedesco Knollkopf. Quotato 2204 m, è poco più di una collina coperta di vegetazione, di accesso non difficile né eccessivamente lungo, che offre un'ampia vista sui lati N ed E della Croda Rossa e su quello N del Cristallo. Il Col Rotondo viene generalmente salito dal Rifugio Vallandro, sorto quarant'anni fa di fronte al forte austriaco di Pratopiazza. Chi sale sull’altopiano lungo la Val dei Canopi (accesso tradizionale da Cortina, che s'imbocca al Passo Cimabanche), non deve traversare fino al rifugio, ma può volgere verso il Col Rotondo direttamente dal sentiero, non appena questa sbuca sui piani erbosi, e salire poi per tracce nel bosco a prendere la mulattiera militare austriaca. Dal Rifugio, passato il torrente, si trova la mulattiera, non segnata né numerata ma evidente, che risale il costone N fino al punto più alto. Continuando per la cresta, si può raggiungere anche la sommità S del Col, che si sporge verso la Val di Landro. Dal rifugio occorre circa un'ora e un quarto di cammino, lungo una dorsale dove sono ancora presenti testimonianze belliche. Con un po’ di disinvoltura, dalla cresta si può calare direttamente per tracce in Val dei Canopi, seguendo una staccionata di legno e raggiungendo il sentiero al ponticello che varca il torrente prima dell’imbocco della valle. La meta comporta 675 m di dislivello da Cimabanche: per esperienza, la quota modesta rende il Col assai gradevole in autunno, quando in alto c'è già neve e si vuole godere di un luogo tranquillo e non molto frequentato. Consiglio il Col Rotondo dei Canopi a chi cerchi una cima senza difficoltà, dove ci si può attardare a riposare, godere d’ampie visuali e, perché no, studiare da vicino altri cimenti anche più impegnativi.

sabato 2 ottobre 2010

Il mistero dei Tonde de Cianderou

Allo spunto proposto in queste righe, potrebbe seguire più di una risposta: aldilà di un’interpretazione scientifica, che certamente è a portata di mano, anche spiegazioni più fantasiose, come quelle di coloro cui ho chiesto lumi sul fenomeno che andrò ad illustrare. Sulla quota 2273, la più elevata dei Tonde de Cianderou, cupola tondeggiante evidente anche dal centro di Cortina, lungo i dossi che da Tofana III si abbassano verso Fiames, costellata da opere militari giacché lassù si combatté aspramente durante la guerra del '15-'18, c’è una cosa interessante. Si tratta di una grotta dalla volta piuttosto alta: quando la visitammo (mi dicono però lo sia costantemente) era riempita da una profonda pozza d’acqua assolutamente trasparente e calma, un autentico, cristallino laghetto d’alta quota. Sulla volta della cavità, lo scomparso Renato Schiavon aveva fissato anche una Madonnina, a protezione dei passanti. La pozza d’acqua non dovrebbe essere stata un pozzo, e pare non abbia immissari, emissari, fattori che la intorbidano. D’inverno ovviamente gela, creando uno specchio ghiacciato dai bellissimi colori, e tanti non hanno capito come si possa trovare là, se ci sia sempre stata, sia un fenomeno naturale o frutto di manomissioni umane. Oltretutto, il fondo di una grotta scavata per ricavarne una postazione, un deposito di munizioni o un ricovero, se non impermeabile, doveva essere almeno asciutto a sufficienza per sistemarvi uomini e materiali, altrimenti sarebbe stata inutile. A parte l’interesse paesaggistico e naturalistico del luogo, che molti scoprono comodamente dall’alto (da Ra Vales), ma sembra più bello, seppure più faticoso, conquistare dal basso (dal Lago Ghedina), i Tonde de Cianderou riservano un interrogativo: quale sarà l’origine di quel fascinoso, trasparente, immobile laghetto che occupa la “Grotta della Madonna”? Lascio a chi lo vorrà, chiarire il quesito, che mi ha prospettato per primo nel 2007 l’amico Ennio, ed al quale non ho saputo fornire risposta sicura.