In ricordo di una bellissima salita sulla Croda de r'Ancona, 15/10/2006.
È la notte dei tempi quando l'uomo incontra le Alpi: il termine esatto è Paleolitico, l'antica età della pietra. Si tratta solo di primi contatti, di escursioni occasionali, sulle tracce degli animali, alla ricerca di piante e erbe salutari. Per una vera umanizzazione dell'immensa regione montuosa bisogna attendere altre decine di migliaia di anni ma, a ben vedere, ne vale la pena. Nel Mesolitico dunque, 10.000 anni fa, i ghiacciai, inquieti, dopo essersi estesi e poi arrestati a ondate alterne, si ritirano, sciogliendosi verso valle e alluvionando la pianura. Allora l'uomo si addentra nel territorio alpino, pressoché sconosciuto, lui nomade, affamato e curioso. Comincia a familiarizzare con l'ambiente, con i secoli lo abita, poi fa suoi i cicli della montagna, alleva capre e mucche, fila la lana, entrando così nel secondo millennio prima di Cristo. Trascorrono altri millenni e con l'avvento dell'alpeggio come pratica territoriale diffusa, nell'Alto Medioevo, il vincolo con la montagna si fa più intenso, trasformandosi in una consuetudine stagionale.
È stato osservato che nessun ambiente naturale esercita sui suoi abitanti una pressione così forte come quello montano: pressione fisica dovuta al clima, fissata nell'espressione "sopportare nove mesi di gelo per averne tre di freddo" -, alle catastrofi e alla povertà. Ma anche pressione mentale dovuta all'isolamento, alla lontananza dal paese più vicino, all'orizzonte sempre chiuso dalla stessa sagoma di montagne. L'oggettiva asprezza dei luoghi ha richiesto un adattamento pratico, ma altrettanto importante è stata la capacità di capire, di possedere dentro di sé lo spazio montano verticale per poterlo affrontare e vivere nel modo migliore. Solo l'invenzione di una "cultura" adeguata alle terre alte ha permesso agli uomini di abitarle, trasformando le primissime escursioni di pastori nomadi in una convivenza permanente. Per secoli la sola montagna interessante è stata la monte, cioè l'alpeggio cui, nella buona stagione, gli uomini salivano con le loro greggi per restarci fino all'autunno. Animali e uomini. Uomini e animali. Animali e uomini. Ma monti niente. Non erano oggetto del loro interesse. Quasi non li vedevano. Nessun divieto, è ovvio, proibiva ai montanari - pastori di un tempo di guardare le pareti, almeno nessun divieto esterno. Forse un impedimento interno. Vale la pena di ricordare che il Monte Bianco, la massima vetta delle Alpi, è stata avvistata solo intorno alla metà del Settecento e conquistata trent'anni più tardi. Cercando di spiegarsi le ragioni di una scoperta così tardiva e tanto più sorprendente quanto imponente e visibile era, per esempio dalla valle di Chamonix, il colosso di ghiaccio e di neve, Charles Durier, storico-alpinista e autore della prima monografia su questa cima, nelle prime pagine scrive: "Come mai alla fine è stata notata? cos'è accaduto? Se sicuramente non è stata la montagna a muoversi, allora sarà lo spirito umano che si è messo in movimento per andare verso di essa". Il caso del Monte Bianco è eccezionale ma lo stesso discorso, con un lieve anticipo - inizio del secolo XVIII, vale per le altre montagne, alte o basse, in ogni modo incombenti: il piccolo uomo davanti all'immensa catena ha avuto bisogno di tempi lunghi per appropriarsene con lo sguardo e con il pensiero, per sentirla come spazio familiare. Quando ha potuto farlo, l'uomo alpino si è appropriato delle Alpi con i nomi: riflesso e risultato della percezione e della comprensione dell'ambiente, creati e scelti per distinguere le cime, oggi riflettono ancora un mondo di idee, l'esperienza quotidiana delle vette ignote, l'immagine che giorno dopo giorno si erano fatti di quelle rocce amiche - nemiche, di quella presenza sovrastante e costante. Questi nomi sono l'espressione più intima del processo di antropizzazione. Se ogni insediamento dà luogo ad un'interiorizzazione del territorio e la casa alpina è una proiezione della persona, non diversamente, credo, scegliere di dare il nome ad una cima implica un rapporto di intimo possesso con questa. I montanari hanno dato un nome alle "loro" montagne solo quando hanno sentito di possederle (1) e lo hanno fatto in un modo particolare, proiettando in esse, attraverso la mediazione simbolica dei nomi, sé stessi e il proprio mondo, le forme del proprio corpo - quante teste, dita, gole, colli... -, ma soprattutto gli animali con cui trascorrevano gran parte della giornata, le mucche, le capre, i galli...
La vita dell'uomo alpino, regolata dai ritmi dell'alpeggio, alterna lunghi mesi in fondovalle all'estate sui pascoli alti: intorno alla solita cerchia di montagne disegna una linea tormentata ai confini del cielo. Ormai l'uomo quelle montagne le conosce, le vede ogni giorno, ma una sera al tramonto, con il sole alle spalle, i contorni dell'orizzonte sono più nitidi e il profilo della roccia si staglia sull'azzurro limpido e scuro: il profilo, sì, come fosse una persona o un animale. Quasi per gioco prova a sostituire, con lo sguardo, porzioni di roccia con parti del corpo animale o con parti del suo corpo: ecco, che, allora quello spunzone diventa un dente o un becco, quella montagna a punta gli ricorda il corno di una delle sue mucche, quella dorsale frastagliata al confine con l'aria è una cresta, non troppo diversa da quella del gallo che gli fa iniziare le giornate. Il gioco funziona. E non solo perché le somiglianze si trovano facilmente, basta un po' di fantasia, ma perché lo aiuta a vedere le montagne in modo diverso. La metafora, animale o umana, agisce in due sensi: innanzitutto trasforma una cosa in un’altra, una montagna che fa paura, cui si deve guardare con rispetto, nelle forme di un corpo vivente, note e rassicuranti. Ma stabilendo un rapporto di somiglianza tra i suoi animali e le montagne, l'uomo alpino ottiene anche un secondo risultato: annulla la differenza, indiscutibile, di dimensioni. Di fronte alle pareti immense non è che un piccolo punto, ma se le vede in una prospettiva diversa, riconoscendoci figure corporee, allora le cime gli sembrano più basse, meno imponenti, meno opprimenti. La sua visione si trasforma in linguaggio e alle montagne vien dato un nome. Questi nomi ci raccontano un pensiero. Chissà per quanto tempo gli uomini hanno osservato le montagne prima di trovare una chiave di lettura, prima di vederci i loro galli, le mucche, i cavalli, prima di poterci "giocare": gli Sherpa dicono che il primo gioco da praticare in montagna è quello di stare al gioco della montagna, luogo metaforico per eccellenza. Gli uomini delle Alpi sono riusciti a farlo. Vedere figure animali nelle montagne quotidiane, ma pur sempre ostili, ha risposto alla loro esigenza inconscia di renderle benevole per non subirne la smisurata grandezza e per poterci convivere serenamente. In epoca medievale la cultura alpina aveva popolato le Alpi di esseri soprannaturali e fantastici, di mostri alati nascosti nelle caverne o sul fondo dei laghi. Queste creature, materializzazione di angosce ancestrali, "vivevano" ancora nel Settecento se il medico, naturalista e gran viaggiatore alpino, Johann Jacob Scheuchzer nel suo Itinera per Helvetiae alpinas regiones del 1723 poté censire e illustrare con belle incisioni tutti i draghi della Svizzera. Un bestiario favoloso, basilischi che pietrificano con lo sguardo, serpenti alati o con due paia di piedi e altri mostri. Da sempre sede degli dei, luogo sacro, spazio negato all'uomo, sfera ignota e lontana, irraggiungibile e intoccabile, la montagna era carica di insidie, era lei stessa un grande mostro pronto a dare una zampata. Ma i nomi delle montagne nascono ancora più tardi, nell'Ottocento, quando forse questi animali fantastici non ci sono più o fanno meno paura: gli animali che allora i montanari vedranno nelle cime rocciose sono ben diversi, non hanno nulla di mostruoso. Galli, cavalli, capre, mucche. Sono assolutamente innocui, anzi sono utili e giorno dopo giorno, nei secoli, sono diventati una grande compagnia, la sola compagnia. L'attenzione e la cura per gli animali, il desiderio di proteggerli da malattie (l'afta epizootica, soprattutto), dal morso di vipera o da attacchi demoniaci è confermata anche dalle pratiche magiche pagane, poi fuse con quelle del Cristianesimo, tuttora vive in alpeggi della Svizzera centrale. Tra offerte e altre invocazioni si ricordano preghiere intonate al tramonto e urlate dentro gli imbuti per il latte - megafoni rudimentali - perché le disgrazie venissero allontanate fin dove arrivava la voce; oppure l'usanza di aspergere il bestiame con acqua benedetta il giorno dell'Epifania. Ma processioni religiose all'inizio e alla fine della stagione dell'alpeggio sono diffuse pure negli altri settori della catena. E la benedizione dei pascoli e delle bestie da parte del prete, salito apposta dal paese di fondovalle, è una pratica solo da poco dimenticata. La consuetudine con gli animali al pascolo iniziava per gli uomini fin dalla giovinezza: tra i pochissimi giocattoli dei bambini sono stati trovati pezzetti cilindrici di legno, ancora ricoperti di corteccia, e intagliati ad un'estremità a raffigurare una mucca o una capra con le corna. I ragazzini radunavano queste modeste statuine in recinti in miniatura, come avveniva all'alpeggio con le mucche vere. Proprio a questi animali, il loro bene più prezioso, i montanari hanno pensato quando hanno scelto di dare i nomi alle montagne, quando con le montagne hanno potuto "giocare". Forse le hanno guardate con gli occhi disincantati dei bambini, per i quali avevano intagliato quei giocattoli, e ci hanno rivisto le forme che per loro avevano riprodotto nel legno.
Oltre a pecore, capre, mucche e vitelli venivano e vengono alpeggiati i cavalli, usati anche come bestie da tiro. Quanti "Monte Cavallo", soprattutto nelle più morbide Alpi orientali, dove le rocce levigate assumono le forme più varie e più variamente interpretabili? Dalle metafore equine a quelle bovine e caprine: le corna di capre e mucche ritornano in tante cime affusolate e appuntite. Due esempi per tutti - e sono tanti-: il Monte Corno che dà il nome a tutto il Parco Naturale nei pressi di Cavalese in Trentino e la denominazione svizzera del Cervino, il Matterhorn cioè il "corno sul prato". Queste corna sono ben note ai montanari- pastori che se sono sempre serviti per fabbricare rudimentali strumenti a fiato: la musica delle Alpi è sempre stata soprattutto la musica all'aria aperta dei pastori. Serviva a chiamarsi da lontano, a calmare gli animali, ad allontanare gli spiriti maligni e ad attirare quelli buoni; allietava i momenti di riposo e faceva dimenticare la fatica e la durezza della vita di ogni giorno. Quindi tutti questi corni di roccia nei nomi delle Alpi hanno, per così dire, una duplice motivazione: sono parti del corpo degli animali con cui i pastori hanno a che fare ogni giorno, ma sono pure degli oggetti con una valenza molto positiva. A sentire parlare di corna di animali in montagna verrebbe subito da pensare a quelle piccole e appuntite dei camosci, a quelle tornite e pesanti degli stambecchi o al palco maestoso del cervo maschio: invece i montanari hanno inteso quelle delle mucche. Se le popolazioni alpine preistoriche per procurarsi il cibo dovevano ricorrere alla caccia, già nel Medioevo questo non era più necessario in quanto l'allevamento procurava carne a sufficienza. Fatta eccezione per i periodi di grave carestia, la caccia sarebbe rimasta espressione di abilità, mezzo di affermazione e di prestigio sociale: la figura di Guglielmo Tell, leggendario eroe svizzero, con l'immancabile balestra, sarebbe diventata uno stereotipo alpino. Ma se i montanari hanno pensato agli animali che facevano pascolare piuttosto che a quelli che stanavano nelle gole rocciose o nei boschi fitti, questo è accaduto non solo perché la caccia, nell'epoca in cui hanno scelto i nomi, era diventata meno importante, ma perché avevano bisogno di rivedere nelle montagne forme consuete e rassicuranti, di animali preziosi e familiari, insomma di animali non montani.
Tra gli animali presenti fuori dell’abitazione di fondovalle del montanaro il gallo ha avuto e ha un posto di rilievo. E con il gallo le galline. La carne di pollo è sempre stata tenuta in grande considerazione perché veniva riservata ai malati, essendo più leggera e digeribile di quella di manzo. Caratteristica del gallo - animale spesso presente anche sulle cime dei campanili delle chiese di montagna - è la sua cresta, rossa e seghettata. Quante volte i montanari l'hanno rivista sul bordo estremo delle montagne, sulle frange di roccia ai limiti del cielo? Così tante che è la parola è entrata nell'uso comune a indicare la linea di congiungimento di due opposti versanti: la cresta del Monte Bianco, della Tofana e così via.
E del gallo i montanari "usano" anche il becco, per definire certe cime appuntite: se per gli abitanti di Zermatt è il "corno sul prato", per la gente di Valtournenche il Cervino è la Gran Becca, il rostro immenso di un fantastico volatile giurassico, ma gli esempi davvero non si contano, dal dolomitico Becco di Mezzodì alla Becca di Nona della Val d'Aosta, al Bec a l'oiseau sul Monte Bianco molti altri becchi sono rivolti verso il cielo. Ecco che le montagne diventano enormi volatili, sembrano meno inaccessibili, o almeno non vengono più percepite in tal modo, come luoghi sacri negati all'uomo: paragonando porzioni di monte a parti del corpo animale la gente perde quella soggezione ancestrale e quasi le addomestica, familiarizza con esse, muovendo un primissimo passo verso l'alpinismo. Le Alpi offrono molti esempi di uccelli di roccia, sono un’enorme voliera pietrificata, ma la trasfigurazione assoluta, forse la più perfetta, è nelle Dolomiti orientali: sopra il Lago di Alleghe dispiega le sue ali immense dal piumaggio screziato la bellissima Civetta. La metafora è ancora più notevole se si pensa che questo rapace, nella realtà, è poco più grande di una mano, insomma non è l'aquila reale: in queste metafore davvero la differenza di dimensioni non conta più: scegliendo termini di paragone di esigue dimensioni gli uomini rimpiccioliscono le montagne. L'enorme muraglia striata che chiude a sud l'orizzonte di Caprile è sempre maestosa, ma diventa più piccola, più umana.
Rispetto alle Alpi occidentali, più massicce e meno frastagliate, le Dolomiti si sono prestate meglio a questo gioco di trasformazioni, con le loro forme diverse, le torri, i pinnacoli, le gobbe e i seni, vera e propria plastilina per la fantasia dei montanari. L'abitante dell'Oberland, comunque, ha pensato, ha visto le stesse cose del montanaro delle Dolomiti e pur senza essersi mai incontrati, ai due estremi del "continente Alpi" hanno scelto di usare nomi concettualmente uguali. Perché la montagna che avevano davanti era, ed è, una sola, una montagna che ha fatto paura e preteso rispetto per secoli. La scelta di certi nomi "animali" (e antropomorfi) è arrivata quando la coltre di paura si era dissolta, ma forse è stata proprio la causa di questo rasserenamento. Ha allentato la tensione, lasciando il posto ad una visione più positiva e distesa di quelle montagne enormi.
Riuscire a guardare un problema con occhi diversi a volte può voler dire risolverlo.
NOTE
(1) I nomi delle Alpi compaiono tardi e lo spazio alpino resta pressoché anonimo fino in epoca altomedievale quando vengono denominate le zone fertili, e quindi utili, e i corsi d'acqua, elemento indispensabile. Bisogna aspettare l'Ottocento, e volte non basta neppure, per una maggiore ricchezza e precisione toponomastica.
(2) Nel caso di nomi di montagna che ripetono nomi di animali al pascolo si deve tener presente, però, che spesso certe denominazioni possono ricordare la presenza, nella zona, di questi stessi animali, senza avere alcun valore metaforico: per esempio l'Agnèr, una cima dolomitica tra Agordo e Belluno, non ha la forma di un agnello o di una sua parte, ma sulle sue pendici per secoli la gente ha fatto pascolare gli ovini.
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