sabato 28 marzo 2009

Un libro par Marino (l'articolo è scritto in ampezzano, ma il libro sarà in italiano!

Ai 21 de otobre de sto an sarà passà 40 ane da canche Marino Bianchi Fouzigora, anpezan de pare de Zubiana, l é tomà 'sò da ra Zima del Lago, na croda che varda l Lago del Lagazuoi. Marino l ea del 1918, e l ea trenta ane che el 'sia in croda, da Cortina fin 'sò par r Africa. Ignante ra guera l aea fato gares de schie; dapò l ea stà Presidente del Sestier de Cortina; inze i ultime dis el louraa drio ra sejovia noa in Potor, e l aea tante amighe. El so gnon l i é stà dà a na ferata che ra rua su su ra Zima de Meso del Cristalo, a una ponta de ra Croda da Lago, a na gara de schie che da tante anes i fesc d ausciuda su in Sennes. Ades che l é passà iusto 40 ane, m é vienù r idea, che chi de ciasa soa i à azetà vorentiera, de scrie un libreto su ra vita de Marino, ra so crodes, chel che l à fato par el 'sì in croda. Cade poco scomenzarei l libro, e ei beleche un grun de idees da bete 'sò. A scomenzà da chel che me penso de sta guida canche, daante l ufizio de ra Guides in Piazeta San Franzesco, m aee fermà a domandà ci che l era morto, e propio el m aea respondù che i aea tocià a un de lore, Ivano Dibona. Chel on outo, magro e bijo che l m aea respondù duto pascionà a mi, un borson de diesc ane, con chera paroles, l ei in mente come se fosse agnere. Ei scrito de el inze l prin articolo da “jornalista”, sul jornalin de ra scora “La mia valle”, del '70. Ades, dapò tante anes da chel 21 de otobre del '69, ei voia de bete insieme sto libro par recordà polito Marino, e fei calche bel pensier par un on che a Cortina el no n é stà desmenteà.

Dell'alpinismo ... e di chi lo pratica - 2^ parte

Riprendiamo il discorso sull'alpinismo, dai cacciatori. Essi, più degli altri, affinarono la tecnica alpinistica, sviluppando proverbialmente il senso dell’equilibrio, il fiuto nella ricerca dei passaggi, l’abilità nel superarli con attrezzi primitivi, la furbizia nel sorprendere gli animali, l’infallibilità nel colpirli (si racconta del cacciatore ampezzano Alessandro Lacedelli, poi divenuto guida, che in vita sparò pochi colpi di fucile, forse duecento, ma ad ognuno corrispose un camoscio, che andò a rallegrare la magra e monotona dieta familiare, consentendogli di andare a montagna fino a sessant'anni suonati e di vivere fino ad ottantadue). Alpinisti furono i topografi civili e militari, mandati dai governi e poi dall'Esercito fin dal Settecento a misurare l’altezza delle cime, porre punti trigonometrici sulle vette, districarsi nella toponomastica spesso approssimativa delle catene montuose. E’ nota la vicenda della Rocchetta di Campolongo, sulla cui vetta gli agrimensori giunsero già nel 1779 per fissare uno dei confini tra il Tirolo e il regno d’Italia. Alpinisti, ancora furono i guardaboschi e i guardacaccia, instancabili camminatori e perlustratori del perimetro boschivo della valle, ma anche di numerose cime. E’ principalmente merito loro, insieme ai cacciatori, se l’alpinismo ampezzano nacque, si sviluppò ed ebbe fortuna. Mancano all’appello solo i raccoglitori di erbe alpine e prodotti del bosco, portato di un’epoca abbastanza recente e di un ritorno alla natura. Nell’antichità, comunque, si usavano più di oggi le erbe e le bacche, meno i funghi: nei vocabolari dialettali, infatti, i termini della botanica e della micologia non hanno una vasta messe di corrispondenti, ma sono spesso generici.

venerdì 27 marzo 2009

Dell'alpinismo ... e di chi lo pratica

L’alpinismo è un concetto unitario, “la pratica di scalare le montagne e la tecnica che a ciò si richiede”. E' utile però dividere il concetto in due categorie: l’alpinismo della necessità (la vita del montanaro, antica come le montagne) e l’alpinismo della volontà (il turismo alpino propriamente detto, che nelle Dolomiti ha circa un secolo e mezzo di vita). Tutti gli abitanti delle montagne sono alpinisti, da sempre. Lo erano sicuramente i contadini, costretti a dissodare, arare e falciare fazzoletti di terra per ricavarne un magro raccolto, in luoghi impervi, erti, pericolosi. La storia è ricca di “martiri” di questa vita dura: anche a Cortina nell’800 una donna precipitò dalle Pale di Perosego durante la fienagione. Alpinisti erano i boscaioli, impegnati nel duro lavoro in situazioni atletiche, anche se limitate alla cintura mediana della valle: oltre i duemila metri, infatti, gli alberi che offrono buon legno si fanno rari e salire non serve. Erano ancor più alpinisti i pastori, che per sfruttare al massimo il territorio per l’allevamento spingevano i loro armenti su pendii prativi, cenge erbose isolate, raggiungibili con manovre spericolate, non raramente a prezzo della vita. Alpinisti per eccellenza furono poi i cacciatori e i bracconieri, sempre spinti dalla necessità di sopravvivenza. Per secoli, costoro si avventurarono su cenge, pareti e cime alla ricerca del camoscio o del gallo cedrone, da portare in tavola o da esibire come trofeo d’arditezza e di coraggio. Del resto di questa lunga storia, faremo cenno in un prossimo post.

giovedì 26 marzo 2009

Una cima, tre stagioni, sei salite

Nelle nostre perseveranti escursioni alla scoperta di recessi non troppo conosciuti e meno affollati possibile, dall’estate 2006 ad oggi abbiamo scelto di dirigere per ben sei volte i nostri passi verso un’elevazione della quale, fino a qualche tempo fa, poco o nulla sapevamo, pur trovandosi a breve distanza dalla conca d’Ampezzo.
Questo perché, seppure la sommità risalti bene da varie angolature nei dintorni, la via d’accesso, realizzata da fanti e mitraglieri della Brigata Marche durante la Grande Guerra e poi trascurata per decenni, fino all’anno scorso non era agibile.
Essa è stata riscoperta, meritoriamente ripulita e segnalata con misura dai volontari del CAI di Auronzo, che hanno dedicato il sentiero a Silvano De Romedi di Treviso, scomparso non ancora cinquantenne nel 2005.
La cima in questione è lo Scoglio di San Marco (2005 m.), cupola ricoperta di fitti mughi e solcata da un lungo camminamento, che fa da contrafforte alla nota e frequentata Croda de l’Arghena, proprio alle pendici delle Tre Cime di Lavaredo.
Oltre a notevoli pregi ambientali, lo Scoglio di San Marco alletta l’escursionista curioso perché – e ciò traspare chiaramente dal nome – costituì per secoli l’avampo-sto della Repubblica di Venezia più avanzato verso il Tirolo, e tuttora marca il limite fra le terre cadorine e quelle sudtirolesi. Nella valle ai suoi piedi, poi, si trova il cippo confinario del Sasso Gemello, anch’esso meritevole di una gradevole passeggiata.
La soluzione migliore per salire sullo Scoglio prevede di lasciare l’automobile nei pressi dell’agriturismo di Malga Rinbianco, al quale si giunge dal casello della strada delle Tre Cime per una comoda rotabile sterrata.
Sotto la malga s’imbocca il sentiero, che scende tranquillo per pascoli e bosco, quindi si destreggia senza eccessivi strappi in un morbido lariceto e risale la baranciosa Costa dei Lares. Dopo 300 metri di dislivello e 75 minuti circa di cammino, si spunta sulla piatta sommità dello Scoglio, incisa da una trincea tutta ripulita e percorribile.
Oltre un passaggio terroso, un po’ scosceso ma munito di una fune, la trincea converge in una breve, umida galleria. A sua volta, questa schiude l’accesso ad un osservatorio, scavato sulla “prua” dello Scoglio, di fronte al Monte Piana e al Monte Rudo. Dall’osservatorio, in cui sono collocati un Leone di San Marco di gesso e il libro di vetta, si dominano la Val Rinbon, Landro, altre cime ed orizzonti vicini e lontani.
Adatto per una passeggiata di poco più di mezza giornata, il “rinato” Scoglio di San Marco merita una certa considerazione per varie ragioni. In primis, per la storia che vi fu scritta dal 1500 alla Grande Guerra; poi per la natura aspra e selvaggia in cui s’inscrive, il panorama che offre e il silenzio delle sue pendici, che si allungano fino alla soprastante Croda de l’Arghena lasciando scoprire un faticoso collegamento.
Soprattutto quest’ultima qualità, il silenzio montano, oggi merce ricercata in seguito all’inevitabile, pacifico dilagare del turismo in ogni angolo, è il dono che gustiamo di più e la peculiarità che vorremmo distinguesse anche lo Scoglio, sempre.

mercoledì 25 marzo 2009

Sessantasette anni, eppure scalava ancora le montagne. Ricordo di Piero Mazzorana

Anni fa, scrissi sulla “Rivista Cortina” che, statisticamente, sono molte le guide allpine ampezzane che hanno svolto il loro mestiere per più di tre, spesso più di quattro decenni, e dell’alpinismo hanno fatto una ragione di vita, insegnando sino ad età avanzata l’amore per la montagna a migliaia di persone. Fuori del circondario ampezzano ci sono comunque anche altre guide che hanno arrampicato fino a tarda età, traendo dalle scalate le stesse emozioni e lo stesso piacere provato nel fulgore della carriera. Cito quattro casi: Valerio Quinz, classe 1928, attivo sui monti sino al 2002 e scomparso quasi un anno fa; Alziro Molin, classe 1932, che fino a dieci anni fa apriva ancora vie su cime disertate; Natale Menegus, scomparso a settant'anni il 3 maggio scorso durante una scialpinistica, e Piero Mazzorana, bella figura della storia dolomitica. Salito da Longarone ad Auronzo appena ragazzo, fu guida dal 1936: fino al 1949, quando rilevò la gestione del Rifugio Auronzo alle Tre Cime , che tenne per un quarto di secolo, aprì una settantina di vie sulle Dolomiti, tra cui sessanta soltanto sui Cadini di Misurina, dove quasi ogni punta ha il timbro “Mazzorana”, e diverse sono molto conosciute. Il 4 settembre 1977, sulla Punta Col de Varda che avevamo salito per la Via Comici-del Torso, trovammo in un barattolo un biglietto di Piero Mazzorana, salito da solo per la divertente “Via obliqua” sulla stessa parete, tre giorni prima. Mazzorana aveva purtroppo ancora pochi anni da vivere, giacché morì a settant'anni nel 1980. Mio padre me lo aveva presentato al Rifugio Auronzo intorno al 1970, e ricordo bene una figura alta e massiccia di alpinista, che arrampicò per mezzo secolo ed ancora oggi rimane nel ricordo per tante belle vie sulle crode intorno alla sua Misurina.