mercoledì 21 luglio 2010

Campanile Toro, un ricordo

Da alpinisti, possiamo considerare il gruppo degli Spalti di Toro come il “gioiello di famiglia” di Domegge. In una selva di formazioni dolomitiche dove il nome “Toro” si affaccia più volte, richiamando gli spalti sui quali dimorava il mitico Dio Thor, emerge un pinnacolo che funge da simbolo ideale del paese cadorino: il Campanile Toro. Non é più elevato, più massiccio o più impegnativo di tante crode circostanti, ma colpisce l'occhio e la fantasia di chi lo avvicina, e da oltre cent'anni seleziona gli aspiranti salitori, ai quali richiede gambe e fiato soltanto per toccarne i piedi. Soprattutto per chi può ammirarlo dal lato ovest, il Campanile si rivela come un piccolo capolavoro di roccia. Alto circa 160 metri e di forme slanciate, è stato “protagonista” di un lungo film, iniziato agli albori del '900 con la prima salita degli austriaci Berger (che nel 1899 aveva salito con Ampferer il Campanile Basso, icona del Brenta) e Hechenbleikner, e interpretato nell'arco di un secolo da attori illustri. Nel 1906, Piaz vi aprì con Trier la sua via più dura, dove lavorò “per la prima volta con mezzi artificiali”; nel 1930 vennero Stösser e Schutt; nel 1940 i Ragni De Polo, Frescura e Tabacchi; nel 1953 i Camosci auronzani Molin, Pais Becher e Pais Tarsilia con il primo sesto grado; in anni recenti ancora gli alpinisti di Pieve di Cadore, con realizzazioni moderne. Su quell'obelisco, forse, un po' di spazio per nuove scoperte comunque c'è ancora: anche e soprattutto per i giovani alpinisti domeggesi di oggi, che volessero tenere alto il particolare legame del loro paese con il Campanile, ormai affrancatosi dalla “sudditanza” rispetto a quello di Val Montanaia e che, a differenza del cugino, non vede ancora le proprie rocce lisciate da migliaia di passi.
Imbevuti fin dall'adolescenza di buone letture alpinistiche, in primis dai testi di Antonio Berti, negli anni scorsi - progettando le nostre uscite in montagna - non potevamo certamente ignorare la lirica presentazione del Campanile che Berti fece per la guida delle Dolomiti Orientali del 1961: “Si leva, meravigliosamente ardito, meravigliosamente bello, dritto come un obelisco, tra Forcella le Corde e Forcella Cadin. La sua cima non è più ampia di un comune tavolo da salotto. Salito dall'O, per quanto interessante, non è così difficile come potrebbe far supporre la vertiginosità della sua forma: l'ultimo tratto richiede attenzione.” Aggiungiamoci anche altre due qualità: dopo il lungo avvicinamento che, in onore ai canoni dell'alpinismo del buon tempo antico, eravamo disposti ad affrontare, il Campanile prometteva mezza dozzina di lunghezze di corda, attestate solo sul II grado della scala Welzenbach, e l'incontro sul culmine con una campana bronzea, forse oscurata dalla squilla del Campanile di Val Montanaia ma storica come quella, e com'essa oggetto di festosi rintocchi per rendere noto il successo dell'ascensione. Detto questo, chi avrebbe potuto trattenerci?
Intorno a Ferragosto, quindi, partivamo di buon'ora alla volta del Rifugio Padova. Le nostre cordate erano state stabilite la sera avanti: Tomaso con me, Carlo con mio fratello Federico. Nel fresco del mattino, spartitaci equamente sulle spalle l'usuale ferraglia, ci addentrammo nella silenziosa Val Cadin, che dopo una sottile fascia boscosa non lesinò nulla di quanto poteva offrirci: una lunga fiumana di detriti, circondata da una schiera di guglie e torri d'ogni forma e dimensione. Nei valloni di ghiaie, stando sul lato sinistro come indicava Berti e dovendo bilanciare il respiro, le gambe e l'equilibrio, non avanzava tempo per guardare le nuvole: più volte, il circo di pinnacoli che ci attorniava distrasse comunque i nostri pensieri. Accostata la terrazza sotto Forcella Le Corde con un po' di fiatone, dovuto a mille metri di salita su macereti dove decenni di approcci al Campanile non erano bastati a scolpire tracce sicure, uno sbiadito bollo di vernice aiutò noi, come tanti altri, a non sbagliare la mira. Già paghi dell'eccezionale visione, in breve fummo vestiti, calzati e pronti alla salita che, per quanto breve, ci stimolava. Caminetti e paretine di onesta dolomia ci condussero ad una cengia quasi pianeggiante, e come da istruzioni c’inoltrammo verso destra, aggirando uno spigolo. Venne quindi il clou della via: tre camini quasi inastati uno sull'altro, solidi e impegnativi quanto bastava, lungo i quali potemmo porre in opera le raffinatezze opportune. Dall'ultimo obliquo e divertente camino uscimmo sul varco fra le due esili puntine del Campanile. Una clessidra intorno alla quale era annodato uno stinto cordone, insolita finestra sulle Dolomiti d'Oltrepiave, ci offrì un colpo d’occhio quantomeno originale: ormai ci sentivamo la salita in tasca.
Memori comunque del consiglio di Berti, non diminuimmo la soglia d'attenzione: una cordata obliqua lungo una lastra alquanto esposta, un canalino di qualche metro fino ad una spalla, e l'ultimo salto, a due passi dalla cima. Iniziava il pomeriggio di un caldo giorno d'agosto quando, primo dei quattro, calcavo la vetta facendo risuonare con il cuore pieno di gioia la campanella che dal 10 agosto 1952 accoglie i salitori del Campanile. I compagni mi seguirono rapidi ma, in virtù del fatto che la vetta è proprio estesa come un tavolo da salotto (penso però che nei salotti di un tempo i tavoli fossero più grandi di quelli odierni…), la seconda cordata dovette adattarsi a sedere ai piedi dell'ultimo salto, cosicché l'immancabile ”Berg Heil” fu soltanto vocale. Il panorama dal culmine di quella colonna posata in mezzo a cime, forcelle, valloni si mostrò superbo. Vedevamo il Rifugio Padova, disteso oltre un chilometro sotto di noi nella radura di Pra di Toro, del quale emergeva il minuscolo tetto rosso, e poi decine di rilievi degli Spalti e Monfalconi ai quali non sapevamo assegnare un nome, e via via montagne sempre più lontane, in un avvicendarsi di piani e d’orizzonti intercalati da sole e da nuvole ed acquerellati d’azzurro, bianco, grigio e verde.
Solitamente sulle cime dove salivamo, una volta concluse le fatiche e tempo permettendo, era usuale un lungo momento di rilassamento; sul Campanile però lo spazio è quello che è, e più di uno anelava già ad una birra fresca in Rifugio. Dopo aver affidato con soddisfazione i nostri nomi al libro di vetta, apprestammo quindi le tre o quattro calate in doppia, che ci permisero di tornare velocemente e senza intoppi alla base di quella che ritengo fra le guglie più interessanti su cui sono salito. Nessuno lo diceva apertamente, ma sicuramente tutti e quattro eravamo entusiasti di aver fatto conoscenza col Campanile Toro, che ci aveva regalato un'ascensione facile ma splendida.
Ci buttammo veloci lungo i polverosi detriti della Val Cadin, che la forza di gravità ci rese quasi piacevoli e, una volta riguadagnato il punto di partenza, festeggiammo a dovere la nostra modesta impresa alpinistica. Il rientro non ebbe storia: la storia venne dopo, quando commentavamo con gusto i momenti topici della giornata, ricordavamo il luogo superbo ed avviavamo altri progetti per i giorni a venire. Dieci mesi più tardi, incuriositi dal fatto che, in fondo, andavo magnificando soltanto una via normale, due amici mi chiesero di tornare sulla guglia, dove – anche se ormai avevo perso il gusto della scoperta – riprovai ancora molta soddisfazione. Sfogliando il quaderno della cima lessi che, dopo di noi, lassù si era spinto un unico altro alpinista, un friulano solitario. Questo per dire la scarsa frequentazione del Campanile in quegli ultimi anni del secolo, accresciutasi successivamente per merito dei festeggiamenti del centenario, che ricorse nel 2003.
Oggi conservo la salita del Campanile Toro nella “directory” dei ricordi alpinistici più nitidi e cari. In mezzo a decine di altre belle giornate dolomitiche, l'occasione di rivedere ancora quel luogo non si è più ripetuta, e ormai i tempi non sono più quelli. In ogni modo mi lusinga pensare che, polmoni e garretti permettendo, qualora se ne presentasse l'occasione, non mi sottrarrei all'idea di rivivere le emozioni d'allora, e ascoltare di nuovo il richiamo della bronzea squilla sul “tavolo da salotto” nel cuore degli Spalti di Toro, che per noi segnò il culmine di una memorabile giornata.

lunedì 19 luglio 2010

La Val Orita, luogo che sa d'antico

Forse, con inverni nevosi come l'ultimo, si potrà percorrere ancora, e per questo ne scrivo. Fino a circa trent'anni fa, una delle scialpinistiche più gettonate d'Ampezzo era la Val Orita. La valle, nota già a Paul Grohmann, è colma di ghiaie e detriti e nasce a 2500 metri circa alla base della crollante Croda Rotta, nel gruppo del Sorapis. Aggirato il basamento di quest’ultima, declina ripida verso la Valle del Boite, terminando dopo oltre un chilometro di dislivello nei pressi di Acquabona, a sud di Cortina. Con neve sufficiente, la discesa per la valle, che iniziava ai Tondi di Faloria e terminava ad Acquabona o a Fraina, era una gita divertente, di medio impegno, in un ambiente non affollato. La scarsità del manto nevoso e le alte temperature che ci hanno afflitto per anni, soprattutto in primavera, l'avevano fatta quasi dimenticare. Chi la discese, soprattutto negli anni ’40-’50, ricorda ancora comici capitomboli tra fitti mughi alti quasi quanto un uomo! Oggi la Val Orita viene scesa a piedi (non da molti: a chi scrive piace farla ogni tanto) per il sentiero 214, che s’immerge nei mughi per quasi due ore, consente di scorgere qualche animale e inediti panorami, camminando in tranquillità. Se gli inverni non saranno più quelli di una volta, dunque, il fuoripista Tondi - Acquabona potrebbe restare solo un ricordo per chi l’ha fatto, o un appuntamento mancato per chi colleziona discese in ogni dove. Così 'San da Ran, Dòna Dindia, il Dio Silvano, la pittrice del Faloria, i ventisette piccoli elfi di Ranpognei e le altre creature che popolano i boschi della zona, vivranno tranquille e indisturbate...

domenica 18 luglio 2010

Croda Rossa d'Ampezzo, prima invernale della via normale

Nonostante sulla cima della Croda Rossa d’Ampezzo, durante la Grande Guerra fosse stato installato dall’esercito Austro-Ungarico un posto d’osservazione, che è pluasibile servisse ai militari durante tutto l’anno, la prima salita invernale ufficiale della grande montagna fu portata a termine solo ottnat'anni dopo, nel secondo dopoguerra. Il 9/3/1953, infatti, gli ampezzani Lino Lacedelli, Ugo Pompanin, Guido Lorenzi, Albino Michielli, Angelo Menardi Milar (Segretario della locale sezione del CAI e appassionato alpinista) portarono a termine in una giornata l’ambita ascensione, partendo dalla Val Montejela e seguendo il canalone ovest, salito da Paul Grohmann con Angelo Dimai Deo e Angelo Dimai Pizo nell’estate 1865, interrotta “a due passi dalla cima” per un errore di prospettiva e felicemente conclusa il 20/6/1870 da Edward Robson Whitwell con Christian Lauener e Santo Siorpaes. Prescindendo dalle difficoltà tecniche dell’ascensione, che in ogni caso, in presenza di neve e ghiaccio, diventano spesso ostacoli molto seri, la prima invernale della Croda Rossa, che non risulta citata dalla stampa del tempo, fu un’impresa di un buon valore. L’ultima invernale sulle grandi montagne del comprensorio ampezzano fu ripetuta anche in seguito (la seconda salita è opera di Marino Dall’Oglio, accademico del CAI e profondo conoscitore della montagna, salito con la consorte Klara nel 1967), e forse fu meno complicata di quell’estiva, giacché di solito il freddo rinsalda i sassi mobili e rende più sicura la roccia della Croda, nota per la sua inquietante consistenza che ne allontana ancora oggi molti aspiranti salitori.

Scoglio di San Marco, montagna minore

Nelle nostre perseveranti escursioni alla scoperta di recessi non troppo conosciuti e meno affollati possibile, dall’estate 2006 abbiamo scelto di dirigere, finora per sei volte, i nostri passi verso un’elevazione della quale, fino a qualche tempo fa, poco o nulla sapevamo, pur trovandosi a breve distanza dalla conca d’Ampezzo.
Questo perché, seppure la sommità risalti bene da varie angolature nei dintorni, la via d’accesso, realizzata da fanti e mitraglieri della Brigata Marche durante la Grande Guerra e poi trascurata per decenni, fino all’anno scorso non era agibile.
Essa è stata riscoperta, meritoriamente ripulita e segnalata con misura dai volontari del CAI di Auronzo, che hanno dedicato il sentiero a Silvano De Romedi di Treviso, scomparso non ancora cinquantenne nel 2005.
La cima in questione è lo Scoglio di San Marco (2005 m.), cupola ricoperta di fitti mughi e solcata da un lungo camminamento, che fa da contrafforte alla nota e frequentata Croda de l’Arghena, proprio alle pendici delle Tre Cime di Lavaredo.
Oltre a notevoli pregi ambientali, lo Scoglio di San Marco alletta l’escursionista curioso perché – e ciò traspare chiaramente dal nome – costituì per secoli l’avamposto della Repubblica di Venezia più avanzato verso il Tirolo, e tuttora marca il limite fra le terre cadorine e quelle sudtirolesi. Nella valle ai suoi piedi, poi, si trova il cippo confinario del Sasso Gemello, anch’esso meritevole di una gradevole passeggiata.
La soluzione migliore per salire sullo Scoglio prevede di lasciare l’automobile nei pressi dell’agriturismo di Malga Rinbianco, al quale si giunge dal casello della strada delle Tre Cime per una comoda rotabile sterrata.
Sotto la malga s’imbocca il sentiero, che scende tranquillo per pascoli e bosco, quindi si destreggia senza eccessivi strappi in un morbido lariceto e risale la baranciosa Costa dei Lares. Dopo 300 m di dislivello e 75' di cammino, si spunta sulla piatta sommità dello Scoglio, incisa da una trincea tutta ripulita e percorribile.
Oltre un passaggio terroso, un po’ scosceso ma munito di una fune, la trincea converge in una breve, umida galleria. A sua volta, questa schiude l’accesso ad un osservatorio, scavato sulla “prua” dello Scoglio, di fronte al Monte Piana e al Monte Rudo. Dall’osservatorio, in cui sono collocati un Leone di San Marco di gesso e il libro di vetta, si dominano la Val Rinbon, Landro, altre cime ed orizzonti vicini e lontani.
Adatto per una passeggiata di poco più di mezza giornata, il “rinato” Scoglio di San Marco merita una certa considerazione per varie ragioni. In primis, per la storia che vi fu scritta dal 1500 alla Grande Guerra; poi per la natura aspra e selvaggia in cui s’inscrive, il panorama che offre e il silenzio delle sue pendici, che si allungano fino alla soprastante Croda de l’Arghena lasciando scoprire un faticoso collegamento.
Soprattutto quest’ultima qualità, il silenzio montano, oggi merce ricercata in seguito all’inevitabile, pacifico dilagare del turismo in ogni angolo, è il dono che gustiamo di più e la peculiarità che vorremmo distinguesse anche lo Scoglio, sempre.