sabato 20 marzo 2010

Carso di trent'anni fa e Carso di oggi: ricordi e progetti

Fra gli anni ’70 e gli anni ‘80 studiavo a Trieste. Pur dimorando sul mare, non avevo certo scordato i monti. Fu così che, in compagnia di amici del luogo che condividevano la stessa passione, mi fu dato di esplorare alcune località del Carso, salendo anche alcune cime, di cui ho simpatici ricordi. Per anni non mi fu possibile sconfinare in Jugoslavia, oggi Repubblica di Slovenia, dove le crode sono più alte e più “alpine”, ma anche nel circondario della sede universitaria avemmo numerose occasioni per trascorrere belle giornate in compagnia. Ricordo le salite sul Monte Hermada nei pressi di Monfalcone, noto per i fatti della Grande Guerra, raggiunto a fine maggio con un caldo insopportabile; conobbi il Monte Lanaro, il Monte Cocusso – prossimi alla frontiera, allora molto più sbarrata di oggi –, il Monte Carso in Val Rosandra, varie “Vedette” e altre alture, che adesso mi sfuggono. Non mi fu possibile salire il Sabotino, al tempo jugoslavo, e neppure il Monte Santo: ricordo poi con piacere le numerose scalate in Val Rosandra, la storica palestra dei triestini, e le altrettanto numerose vie dalle quali dovetti ritirarmi, per mancanza di allenamento o perché “non era giornata”. Oltre alle gite in una zona che offre molteplici possibilità agli amanti dell’escursionismo, ricordo con piacere i dopo-gita, nelle “osmize ” che punteggiano il Carso. Fra i luoghi di ristoro, mi piaceva il Rifugio Mario Premuda all’imbocco della Val Rosandra, che con i suoi 80 metri di quota è il più basso rifugio del CAI in Italia, e le varie “osmize”, che offrono vino novello, uova sode, salumi, formaggi e quanto serviva a coronare una domenica all’aria aperta, prima di ritornare ad arrovellarci sui libri. Ho rivisto il Rifugio Premuda, la Val Rosandra, il Cippoc Comici nell'aprile 2006 durante una vacanzetta a Trieste: adesso sto progettando il ritorno sull'Hermada, sul Lanaro, sul Cocusso, perché è facile che le mutate circostanze della vita lo favoriranno.

Vero o falso?

"Contrariamente a quanto riportano le cronache alpinistiche, i conquistatori della Gusela de Padeon, il caratteristico risalto cupoliforme ben visibile dalla Strada d’Alemagna nei pressi di Ospitale, che fiancheggia la solitaria Val Pomagagnon, non furono i carinziani della famosa “Compagnia della Scarpa Grossa”. Von Glanvell e von Saar si erano infatti attribuiti la prima salita della guglia, effettuata il 28 luglio 1900 nel corso di una fortunata campagna alpinistica sul Pomagagnon. In realtà, la conquista della guglia , misera cosa arrampicatoriamente parlando ma storicamente significativa, va attribuita ad un cacciatore ampezzano, Andrea Cortese, della famiglia dei “Zen”. Il ventitreenne calzolaio Andrea, secondo quanto narra un cartiglio ripescato negli anfratti di una vecchia casa, sarebbe salito in cima alla Gusela o Bujela (“la Gusella, il monte che fa la guardia alla valle del Po Magagnon”) addirittura il 22 ottobre 1833, trent’anni prima che a Cortina iniziasse ufficialmente l’epopea dell’alpinismo. Cortese giunse lassù da solo inseguendo un camoscio, trovò “non pochi perigli, essendo le roccie in taluni punti ricoperte di fine ghiaccia”, ma riuscì a bloccare il povero ungulato e a portare a casa una riserva di carne da riporre in soffitta per l’inverno. Il cacciatore morì assai giovane, di “angina pettorale”, il 9 dicembre 1852: era figlio unico, celibe e senza discendenti e la memoria della prima salita alpinistica ufficiale d’Ampezzo si perse con lui. Ora ne è stata fortunosamente ritrovata la notizia, di cui facciamo memoria al fine di correggere la cronaca, che attribuisce a Checo da Meleres, Angelo Deo e Paul Grohmann il primo successo sulle nostre montagne”. Purtroppo però, questo racconto è soltanto frutto della fantasia di chi scrive! Mi piacerebbe emendare la storia alpinistica d’Ampezzo in tal senso, e con molta probabilità qualcosa di simile sarà anche accaduto, ma carte e documenti del genere sopra riportato non ne ho mai rinvenuti. La mia speranza, in ogni modo, non muore mai.

venerdì 19 marzo 2010

19 marzo 1990: un'ora al posto dei soliti quindici minuti ...

Giusto vent’anni fa, il giorno di San Giuseppe del 1990, ero libero, avevo voglia di camminare ma ero solo. Nonostante la stagione fosse ancora acerba, partii con l’idea di salire, un'altra volta, l'ormai familiare ferrata “Strobel” della Fiames. Conoscendola a menadito, ci misi veramente poco a giungere in cima. Lassù non c’era nessuno, non faceva un gran freddo e così mi presi il tempo per sostare un attimo, mangiare qualcosa, contemplare il panorama, adusato ma sempre nuovo, e assaporare il silenzio. Al momento di iniziare la discesa sorse un problema. D’estate, il lungo traverso sul retro della Fiames, della Punta della Croce e del Campanile Dimai, che scendendo di una sessantina di metri di dislivello conduce dritto in Forcella Pomagagnon, si percorre in un quarto d'ora. Il 19 marzo 1990 questo non sarebbe stato possibile. Su quel versante il sole scalda poco, la neve soggiorna abbastanza a lungo e d’inverno anche il facile sentiero potrebbe comportare qualche rischio. Solitamente, a fine stagione qualche arrampicatore o escursionista lo aveva già pistato, ma quell'anno non era passato ancora nessuno e uno strato uniforme di neve dura ricopriva il pendio, formando un unico, ripido scivolo fino ai Prati del Pomagagnon. Non ebbi il coraggio di solleticare quella ripida crosta gelata coi miei novanta chili, e preferii scendere sotto la III Pala de ra Pezories fino ai Prati, andare a prendere il sentiero che viene da Ospitale, molto meno esposto a rischi, e risalire in Forcella: un’ora circa, al posto dei quindici minuti minuti canonici, ma un’occasione in meno di farsi male, se non peggio. La discesa per le ghiaie della Forcella e il lungo rientro a casa a piedi, non ebbero storia ...

giovedì 18 marzo 2010

Personaggi poco noti: Edward de Trafford

Un frequentatore di Cortina fra gli anni '20 e '30 del Novecento, che s'incontra spesso, e del quale manca ancora un contorno definitivo, è Edward de Trafford (1884-1948. Di illustre casato inglese, appare nella storia dell'alpinismo ampezzano nel 1926. Il 29 settembre, guidato da Angelo Dibona Pilato e Luigi Apollonio Longo effettua la IV salita dello spigolo SE della Punta Fiames, lungo la via aperta nel 1909 da Francesco Jori e Käthe Bröske. Il 19/7/1927 Luigi Apollonio, ammesso da due stagioni nelle guide alpine di Cortina, lo accompagna sulla Cima SO di Marcoira, una delle due cime in vista del Passo Tre Croci, attraverso una via nuova, la cosiddetta “Originaria”. Nel settembre dello stesso anno, alcune fonti lo vedono compartecipe, ma altre no, del terzetto di guide locali (Apollonio, Dibona e Angelo Verzi Sceco) che raggiunge, traversando da una torre adiacente, la più minuta delle Torri d’Averau. La guglia, crollata per cause naturali nella primavera di 77 anni dopo, viene battezzata “Trephor”, a mio parere storpiando il nome “de Trafford”, per ricordare il britannico amante dei monti d’Ampezzo. Il 7 del medesimo mese, infine, Edward s’incontra nuovamente con le sue guide Dibona e Apollonio, e con loro si aggiudica la IV salita della Via Miriam, sulla Torre Grande d’Averau. Le tracce documentali che ho trovato sulla presenza a Cortina di questo personaggio finiscono qui: poche, ma qualificate. Può darsi che in seguito sia venuto ancora a cimentarsi in salite di cui non ho traccia; può darsi che fosse oberato d’impegni istituzionali, magari diplomatici, e che abbia scelto altre mete per le sue vacanze. Comunque sia andata, Edward de Trafford resta uno dei protagonisti delle storie alpinistiche dolomitiche, e come tale lo ritengo degno di interesse e menzione.

1910-2010: cento candeline per il Campanile Rosà

Sulla parete orientale del Col Rosà, che domina la piana di Fiames poco lontano da Cortina, s’innalza una strana guglia, alta appena cento metri e che da sempre mi pare avvolta da un oscuro fascino. Non si lascia vedere in ogni momento e da tutti: emerge nitida a chi ci sale abbastanza vicino, dai tornanti più elevati della mulattiera di guerra che dal Pian de ra Spines conduce al Passo Posporcora, fra Fiames e la Val Travenanzes. Oppure, in condizioni di luce favorevoli, la guglia – denominata Campanile Rosà e quotata 2050 metri - si riconosce poiché proietta sulla parete retrostante la sua ombra sottile, degna di uno schizzo di Paul Klee. L’estate prossima sarà trascorso un secolo esatto dalla prima ascensione di quel misconosciuto campanile dolomitico, soggiogato il 17 agosto 1910 dalle guide alpine Angelo Dibona (all’epoca trentunenne, già avviato ad una lunga e mirabile carriera) e Celestino de Zanna (classe 1877, che finì disperso con il fratello sul fronte della Galizia durante la Grande Guerra), con l’albergatore Amadeo Girardi e il medico Leopoldo Paolazzi. Due decenni più tardi, il 13 settembre 1931, i mantovani Piero Dallamano e Renato Ghirardini tracciarono un altro itinerario sul tagliente spigolo sud, e infine nell’agosto 1941 le guide Giuseppe Dimai e Celso Degasper, coi fratelli Giancarlo e Gherardo Melloni, raddrizzarono la via originaria con una breve variante. Nel corso del Novecento, il Campanile Rosà ha mietuto anche alcune vittime, cadute dalle sue rocce a tratti malsicure. Il primo fu Cleto Verocai, forse l’unico ampezzano arruolatosi nella Marina, che precipitò nell’estate 1924 per la rottura di un cordino, mentre tentava di salire da solo. Molto a malincuore, devo ammettere di non avere mai raggiunto quella cima misteriosa. Un tentativo, a dire il vero, lo sferrai con alcuni amici oltre trent’anni fa, sbagliando anche il versante di salita: fortunosamente, un improvviso temporale ci rispedì a casa indenni. In ogni caso, pur non avendo provato la soddisfazione di calcare l’angusta sommità, sulla quale dovrebbe esserci ancora uno dei rari chiodi piantati da Dibona in mezzo secolo d’alpinismo, ho almeno curiosato intorno alla base, conficcata nel canale ghiaioso, dove occhieggia qualche resto di guerra, che solca il versante est del Col Rosà. Ammiro e fotografo sempre il Campanile, ogni volta che mi accade di scendere a Fiames da Posporcora. A metà della mulattiera che rimonta la boscosa Val Fiorenza, volgendosi indietro, la visione fra gli alberi di questa guglia appuntita come una sciabola, solitaria e - dopo un secolo dalla conquista - dimenticata dagli uomini, merita la gita.

lunedì 15 marzo 2010

Quando è nato l'alpinismo?

Esisteva l'alpinismo, prima della storica conquista del Monte Bianco da parte di Paccard e Balmat, l'8 agosto 1786? Non lo sappiamo esattamente, e possiamo soltanto supporlo, incrociando quanto raccontano numerosi libri (commentari, resoconti di viaggio, saggi scientifici ecc.) a partire dal 1500 e non solo sulle Alpi ma anche negli altri continenti. Desiderio d'elevarsi spiritualmente verso l'alto, per avvicinarsi agli dei? Curiosità esplorativa e volontà di conquista? Necessità di sopravvivenza che spingevano i nostri antenati a inseguire le prede anche in luoghi abitati dai draghi e dai mostri? Innumerevoli possono essere state le motivazioni ad affrontare, spesso anche temerariamente, l'ignoto. Già i Greci e i Romani avevano avuto occasione di affrontare le montagne, non sempre per raggiungerne le sommità ma più spesso semplicemente per traversarle. Si trovano testimonianze in Senofonte, Sallustio, Strabone. In seguito vennero le celebri ascensioni del Medioevo, da Francesco Petrarca sul Ventoux (1336) a Bonifacio Rotario d'Asti sul Rocciamelone (1358), da Antoine de Ville sul Mont Aiguille (1492) a Leonardo da Vinci sul Momboso (1511). E via via, sempre più in alto. Per Cortina, l'interrogativo ce lo poniamo spesso, e lo riteniamo di difficile soluzione. Chi avrà salito le nostre crode prima del 29 agosto 1863, quando Paul Grohmann venne ad inaugurare l'epopea della conquista delle Dolomiti, e perché lo avrà fatto? Qualcosa si può supporre, molto altro manca, ma è uno stimolo per cercarlo.