sabato 7 agosto 2010

Chi conosce la falesia del Rifugio Baranci?

Nel sito di alpinismo della guida Enrico Maioni leggevo che intorno a Cortina (compresi però Dobbiaco, San Cassiano in Val Badia ed Erto in Val Cellina) gli appassionati possono trovare oltre mille "tiri" di arrampicata sportiva. L'argomento non è certamente adatto a me, ma mi sono chiesto se qui da noi qualcuno sa della piccola, all'apparenza interessante falesia che si trova nel bosco pochi minuti sotto il Rifugio Baranci (Haunoldhuette), raggiungibile in seggiovia da San Candido e molto frequentato dagli sciatori. Ci siamo capitati davanti, per puro caso, il 31 gennaio scorso, deviando per una volta dalla strada forestale che dai diruti Bagni di San Candido porta al Rifugio, e funge anche da pista per slittini. Al termine del tratto pianeggiante della strada, sui Prati della Ferrara, un cartello invita a girare a destra lungo una steccionata. Si trova quindi un sentiero che sale nel fitto del bosco e porta sotto un grande masso strapiombante, pieno di scritte e spit luccicanti. Abbiamo aggirato il masso, per quanto consentiva la neve, leggendo le scritte alla base di diverse vie e una di esse mi è piaciuta: "Saukante", ovvero "spigolo porco", breve ma che deve avere fatto sudare sette camicie agli apritori. Dal masso, salendo ancora per poco si spunta proprio davanti al Rifugio Baranci, e la variante accorcia di qualche minuto la strada solita, comunque piacevole. Il 20 marzo ci siamo tornati di nuovo, scoprendo una scorciatoia di un itinerario che riteniamo ideale per camminare d'inverno quando non abbiamo voglia di fare cose più grandi. E poi, al Rifugio Baranci ... si mangia piuttosto bene e il servizio è velocissimo e cordiale.

Col Curié, fra i monti del Comelico

Sopra la Forcella Zovo, piccolo valico stradale che divide Costalta di Cadore dalla Val Visdende, sorge una bella e facile cimetta che mi incuriosiva da tempo e sulla quale siamo saliti un mese fa: il Col Curié (2035 m). Non è certo una punta aguzza, ma un panettone, boscoso in basso e pascolivo nella parte alta, che sprofonda con erti e altissimi fianchi coperti di alberi verso il Piave. Il Col Curié dev'essere stato un punto di osservazione strategico, perché è raggiunto da un sentiero militare, molto ripido ma tutto sommato non eccessivamente lungo né faticoso, se non per il caldo. Dopo un buon tratto rinchiuso fra gli alberi di un bosco trasandato, si giunge ad una trincea rocciosa, dalla quale la vista si spalanca bellissima sul gruppo dei Longerin, la Val Vissada e le cime di Visdende. La vetta, erbosa e spaziosa, è contrassegnata da tre croci e popolata da un gregge di una quarantina di pecore. Il Curié offre un vasto panorama sul Comelico Inferiore e sulle cime che gli fanno corona. Pensavo che fosse poco conosciuto, e invece ho scoperto che per gli abitanti di San Pietro di Cadore e dintorni è una meta classica: da Forcella Zovo, sulla quale sorge un comodo rifugio, basta poco più di un'ora e mezzo per raggiungere una montagna minore delle Alpi Carniche, un belvedere degno di una visita per estraniarsi dalle spesso congestionate Dolomiti.

mercoledì 4 agosto 2010

Landro, il villaggio che non c'è più

Cercando i luoghi alpinisticamente e turisticamente più rinomati del nostro circondario, facciamo sosta a Landro.
Termine diffuso nell’area dolomitica, “Landro” deriva dal latino “antrum” e significa ”rupe sporgente sotto la quale ci si può rifugiare, antro”. Trovandosi in Comune di Dobbiaco, quindi in area sudtirolese, il toponimo ha l’esatto omologo in “Hohlenstein”, ovvero “sasso della caverna, sasso bucato”.
Nel corso di una visita al sacello della famiglia Baur, alla quale da oltre 150 anni sono legate le vicende storico-turistiche del luogo, ho notato però che a Dobbiaco il capostipite, Josef Baur, è ricordato come “Hotelbesitzer in Landro”: quindi, curiosamente, già nell’800 anche in ambiente tirolese il luogo era identificato col toponimo italiano.
Landro è racchiuso tra il Monte Rudo e il Monte Piana da una parte, e le pendici del Picco di Vallandro dall’altra. Com’è noto, nella zona si trova un ampio lago naturale (Dűrrensee, ovvero “lago arido”), attraente soprattutto ad inizio stagione, quando si riempie di acque limpide nelle quali si riflettono le cime ancora innevate del Cristallo.
Landro è situato a 1406 m. di quota sulla Strada d’Alemagna, dopo Carbonin in direzione di Dobbiaco. Mentre però il crocevia di Carbonin assunse notorietà dal punto di vista turistico ed alpinistico solo nella seconda metà dell’800, l’insediamento di Landro vanta origini più antiche.
Già nel tardo Medioevo, infatti, vi esisteva un ricovero per i viandanti, e nel secolo XIX vi fu installata una stazione di posta dove avveniva il regolare cambio dei cavalli, l’unica lungo i trenta chilometri che separano Dobbiaco da Ampezzo.
Si è detto che l’agglomerato (formato all’inizio del 1915 da 37 edifici), sorse come stazione di posta. La strada che lo attraversava, infatti, completata nel 1830 sul tracciato di una carrareccia risalente ai tempi delle Crociate, fu dichiarata nel 1832 “Strada Imperiale”: da allora per ottant’anni fu percorsa quotidianamente da un servizio di vetture a cavalli che collegava la Val Pusteria (raggiunta dal 1871 dalla ferrovia) con Ampezzo.
Il primo Imperial-Regio Maestro di Posta, funzionario statale nominato dal Governo, di Landro fu Josef Baur (1822-1879). Fu merito del Baur e della consorte Anna Fink (1829-1897), se Landro divenne una stazione turistica, la cui fama si consolidò tra l’800 e il '900 ma fu tragicamente sepolta dalle granate della Grande Guerra.
Sull’esempio dei Ploner di Carbonin, infatti, nel 1860 il Maestro di Posta aveva edificato vicino alle stalle dei cavalli una piccola e confortevole locanda, che in seguito ingrandì e trasformò in albergo. In seguito, la gestione dell’Hotel passò ai suoi figli, Josef jr. (1856-1938), Maria (1862-1949) e Johann (1863-1900), che del grazioso borgo fecero un’animata località di soggiorno, lodata da ospiti di alto lignaggio: anche il Re Alberto dei Belgi scelse Landro come base per le vacanze estive.
I primi a descrivere Landro, seppure in termini non entusiastici, furono gli inglesi J. Gilbert e G. Churchill, che vi passarono nel 1861. Nel loro diario di viaggio “The Dolomite Mountains” (1864), essi raccontarono che, salendo da Ampezzo in Val Pusteria, dopo la ridente spianata del lago, di colpo gli ampi panorami e i pendii soleggiati cessavano, lasciando spazio ad una valle oscura e angusta, un luogo tetro che era meglio oltrepassare in fretta.
Secondo i britannici Landro, chiamato erroneamente “Hőllenthal” (Valle del-l’inferno), era circondato da montagne mostruose e il lago, “con le sue rive rinsecchite e salate, potrebbe essere la terra di Sodoma. Due corsi d’acqua vi confluiscono, ma nessuno ne esce, sicché rimane il dubbio della presenza di inghiottitoi nascosti. Gli alberi, l’erba e i muschi hanno un aspetto arido e malsano. Sui fianchi delle alture crepacci e baratri, smottamenti di terreno, tronchi d’albero pencolanti: tutto pare che stia per rovinare da un momento all’altro”.
Gilbert e Churchill concludevano l’inquietante descrizione osservando che la magnifica visuale sulle cime del Cristallo offerta da Landro annunciava con nostalgia la fine del radioso mondo dolomitico che ci si lasciava alle spalle. La narrazione, contaminata dal gusto dell’orrido caro ai romantici inglesi, naturalmente esagerava in senso letterario: in realtà, la vallata da Landro fino all’innesto con la Pusteria è lunga poco più di dieci chilometri, e, una volta a Dobbiaco, il panorama si dischiude nuovamente verso le Dolomiti e le verdi cime di confine, con straordinaria luminosità.
Nonostante i racconti disgustati dei primi visitatori, Landro si garantì in breve tempo una posizione di prestigio nel panorama dolomitico, grazie alle opportunità alpinistiche, adatte ad ogni capacità, che venivano offerte: il luogo era forse meno “à la page” di Carbonin, ma certamente più tranquillo ed appartato.
Non poteva sfuggire ai viaggiatori, infatti, che venendo da nord, proprio in corrispondenza della radura dove sorgeva il villaggio, si apre la prima magnifica finestra sulle Dolomiti: lo sbocco della Valle della Rienza, infatti, oltre la Parete del Pianoro rivela di colpo, monumentali, le Tre Cime di Lavaredo; poco più avanti poi, come accennato, la vista si espande in un celebre scenario che abbraccia il Cristallino di Misurina, il Piz Popéna e il Cristallo, soggetti da sempre di innumerevoli quadri e fotografie.
Analogamente a Carbonin, dove imperò il mitico Michl Innerkofler, nei tempi d’oro anche a Landro sostarono alcune guide a servizio degli ospiti dell’albergo: tra loro, il più noto fu Johann Innerkofler di Sesto, attivo nel ventennio 1888-1905.
A lui sono attribuite 24 nuove vie nei gruppi dell’Antelao, Bosconero, Cristallo, Popéra, Tre Scarperi ma soprattutto nei Cadini di Misurina. La più ardita rimane forse la parete O della Punta dei Tre Scarperi, compiuta l'1/8/1888 con S. Zilzer, R. H. Schmitt e l'ampezzano Pietro Dimai.
La fortuna di Landro ebbe fine nel 1915: nelle adiacenze del villaggio, infatti, già alla fine dell’800 gli Austriaci – intuendo il valore strategico della posizione - avevano edificato due forti, a sbarramento della valle e a difesa della Pusteria. Venutosi a trovare proprio a cavallo della linea del fronte italiano, già nei primi giorni di guerra il Forte “Basso” fu raso al suolo, mentre i pezzi che lo armavano furono spostati nelle vicinanze, in appoggio alle operazioni sul Monte Piana.
Tutti gli edifici furono sistematicamente incendiati: rimasero in piedi soltanto la chiesetta sul bordo della strada e il Forte “Alto”, considerato obsoleto come opera fortificata ma usato per ospitarvi il comando operativo delle artiglierie di Monte Rudo. Entrambe le strutture sono ancora visitabili nella loro malinconica solitudine.
Per lunghi anni Landro è stato poco valorizzato dal punto di vista turistico, pur essendo stato inserito nel Parco Naturale delle Dolomiti di Sesto. Oltre venti anni fa, nel luogo dove sorgeva l’antica casa di Josef Baur, proprio al cospetto del versante nord delle Tre Cime di Lavaredo, è stato edificato l’Hotel Residence Tre Cime.
Il Ristoro “Alpenflora” sulle rive del lago al cospetto del versante del Monte Piana, alla fine degli anni '90 è stato ristrutturato e ammodernato, divenendo un elegante e accogliente bar-ristorante.
Entrambi forniscono un’ottima base d’appoggio a gite e salite per tutti i gusti e le possibilità: dalla camminata verso le sorgenti della Rienza alla salita sul Teston di Monte Rudo, dove occorre pratica di roccette e sentieri non sempre agevoli.
Citiamo la salita al Rifugio A. Locatelli alle Tre Cime per la Val Rienza, classica via d’accesso e rifornimento fin dalla costruzione dell’edificio; l’ascensione al Monte Piana per il “Sentiero dei Pionieri”, costruito prima della Grande Guerra per accedere alla strategica cima, o per il “Sentiero dei Turisti”, via comunemente seguita dalle guide e dai primi alpinisti per giungere in vetta; la salita al Teston di Monte Rudo, inespugnabile fortezza austriaca dalla quale s’intese contrastare la minaccia italiana costituita dal Monte Piana; la traversata del Passo Grande dei Rondoi, anch’esso fortemente presidiato in guerra; la traversata della solitaria Forcella dei Baranci, l’accesso per Val Chiara al Monte Specie.
Per le altre possibilità, rimandiamo alla bibliografia specializzata: qui vogliamo solo far notare che tutti gli itinerari che gravitano su Landro sono accomunati, oltre che dalle bellezze dei paesaggi, da ingenti testimonianze delle aspre e sanguinose battaglie che su di essi si compirono nella Grande Guerra.
Ripercorrerli oggi, in tempo di pace, dovrebbe servire a far comprendere il più inverosimile evento di cui le Dolomiti sono state spettatrici e le cruente pagine di storia scritte sulle nostre montagne.

martedì 3 agosto 2010

Edy, la Croda Rossa e la Guglia del Bastone

Per mezzo dell'ingegner Marino Dall’Oglio, indagatore indomito e curioso dei segreti dell’alpinismo dolomitico, nel 2004 feci la conoscenza di un rocciatore, che mi ricordò subito i pionieri dell’Ottocento: Edy Gutwenger, pusterese di Villabassa.
Edy non è un professionista della montagna, ma probabilmente avrebbe tutti i titoli per esserlo.
Ha tra i quaranta e i cinquant’anni, in gioventù ha fatto il pastore presso le malghe Stolla presso Pratopiazza e Pozzo, ai piedi del Monte Lungo di Braies: insofferente delle inquietudini che sempre più serpeggiano nelle valli, si è sollevato e oggi s’inerpica sui campanili delle chiese per restaurarli.
Ha una profonda passione per la montagna autentica, selvaggia e faticosa, e la vive sia d’estate sia d’inverno. Raccontava che qualche volta, alle tre di notte, è già in alto, da solo, verso le cime che ama: fino all'estate 2004 era giunto 32 volte in vetta alla Croda Rossa d’Ampezzo, che lui chiama confidenzialmente “Gaisl”.
Ritengo che, trattandosi di una cima piuttosto selettiva, per un dilettante, che arrampica sovente da solo, sia un risultato più che pregevole.
Edy ha scandagliato la mitica “Rossa” dai vari versanti, prediligendo in ogni modo l’orientale, frequentato soprattutto dai sudtirolesi.
Qualche anno fa tentò la seconda salita della sua cresta S, che domina Forcella Colfiedo e fu superata per la prima volta da Fritz Terschak ed Hermann Kees il 4/8/1913, ma ritenne saggio ritirarsi, non avendo incontrato difficoltà estreme ma tratti paurosamente friabili e pericolosi ed un violento temporale che azzerò le velleità residue.
Come gran parte degli alpinisti sudtirolesi, ignora e non usa la guida delle Dolomiti Orientali di Antonio Berti e la mole di suggerimenti storici ed alpinistici che traluce da quelle pagine, ma padroneggia lo stesso a menadito la giogaia montuosa che circonda Villabassa e Braies.
Al nostro incontro all’Hotel Menardi, portò con sé un documento curioso, un reperto che dopo cinquantacinque anni l’amico Marino attendeva di rivedere con interesse e un pizzico di emozione.
Si trattava di una scatoletta consunta ed arrugginita, contenente un mozzicone di matita e due bigliettini consunti e ormai poco leggibili, uno lasciato dal primo salitore e un altro riportante i nomi dei primi e secondi ripetitori della Guglia del Bastone (Elslerturm).
E’ questa un’esile guglia con una forma al limite dell’imbarazzante: quotata 2450 m circa, appartiene al Castello Glanvell (la maggiore dorsale protesa a settentrione dalla Forcella del Picco, che la separa dal Picco di Vallandro), e si nota bene dal piazzale antistante il Rifugio Pratopiazza.
Il suo primo salitore, Engelbert Elsler, svolgeva le mansioni di guardiano nel vivaio dei signori Wild a Ponticello. Il 22/7/1935, con l’avvocato milanese Carlo Sarteschi, in sette ore aveva compiuto la prima discesa dell’orrida cresta nord-ovest della Croda Rossa d’Ampezzo.
Dopo aver effettuato alcune ricognizioni nella zona, il 9/8/1936 riuscì a raggiungere da solo la vetta della guglia inviolata, abbandonandovi il legno che aveva trascinato fin lassù, e che le valse poi il nome italiano.
La guida “Fűhrer durch die Pragser Dolomiten” di Don Anton Schwingshackl non menziona la guglia in questione: l’unico riferimento bibliografico disponibile in merito rimane quindi il volume di Berti, che attinse notizie “fresche” da Marino Dall’Oglio.
Sono 90 metri di III con un passaggio più impegnativo, che dopo Elsler attesero tredici anni prima di essere superati nuovamente, per merito di Dall’Oglio e Renzo Consiglio nell’agosto 1949.
I terzi salitori furono Ferdinand Mair di Braies, che ha gestito per molti anni il Rifugio Vallandro ai piedi dell’omonimo Picco, e due suoi paesani, nell’agosto 1959.
Prima della II Guerra Mondiale, Engelbert Elsler – che oggi avrebbe centosei anni - scelse il Terzo Reich, concludendo la carriera alpinistica e stabilendosi a Kufstein, dove scomparve.
In questi anni, Edy Gutwenger è salito sulla remota guglia molte volte, da solo e in compagnia, ma ha ritrovato la preziosa scatoletta, infilata in una fessura a pochi metri dall’angusta vetta (dove c’è a malapena posto per due …), soltanto durante la salita del luglio 2004.
A suo giudizio, l’Elslerturm (così è conosciuta la guglia nell’ambiente alpinistico tedesco) potrebbe diventare una scalata classica. Non è molto lunga, ha difficoltà medie, sorge in un circondario selvaggio e solitario, ma ha un difetto: purtroppo, non fa parte delle arcinote e quasi consumate Torri d’Averau (alla cui Torre Lusy potrebbe essere avvicinata), di quelle di Falzarego o di quelle del Sella!
Solo per giungere all’attacco, infatti, da Pratopiazza bisogna scarpinare verso nord almeno un’ora e mezza attraverso prati e ghiaioni; la roccia non dev’essere saldissima, il nome della guglia e il gruppo al quale essa appartiene non rientrano fra i preferiti dai rocciatori.
Così Edy Gutwenger, alpinista “old style” di Villa Bassa, indefesso corteggiatore di una delle più belle e severe crode delle Dolomiti, rimane uno fra i pochi a godere la solitudine dell’Elslerturm; l’unica via che fino ad ora raggiunge la sua “esilissima aerea vetta”; la testimonianza materiale delle prime ascensioni, della cui scoperta si dimostra fiero e che ha fornito un comodo spunto per quest’articolo.

lunedì 2 agosto 2010

Carbonin e la storia degli “Schluderbacher”

Carbonin-Schluderbach, meta turistica interessante e frequentata, nel periodo d’oro dell’esplorazione dolomitica fu uno dei luoghi più noti e rinomati della regione tirolese, e ricoprì un’importanza storico-alpinistica di notevole rilievo.
Località del Comune di Dobbiaco, da cui dista una dozzina di chilometri, è posta a 1474 m. di quota in Val di Landro, ai piedi del Cristallo, sul crocevia tra la Strada d’Alemagna (Cortina-Dobbiaco) e la strada che sale a Misurina per la Val Popena Bassa.
L’origine della denominazione non è antichissima, ed è quantomeno curiosa. Agli inizi del XIX secolo, il luogo era solo un trivio, e non possedeva un nome ufficiale; poiché però in quel punto veniva ammassato il legname tagliato nei boschi circostanti, in breve esso fu identificato dai pusteresi con l’appellativo di Am Lager (Al Deposito).
Gli auronzani, che confinano con Dobbiaco al Ponte de la Marogna, a breve distanza dal deposito, prendendo spunto dalle carbonaie che vi funzionavano, battezzarono il trivio con il nome veneto di Carbonin.
Nel 1836 il contadino Hans Ploner, proprietario di un maso tra Dobbiaco e Villabassa denominato Alt Schluderbach (Carbonin Vecchia), dove oggi si trova il ristorante dedicato al compositore Gustav Mahler, piantò accanto al deposito una tenda e vi allestì una rozza locanda, con l’intento di ristorare i vetturali, i boscaioli e i carbonai che lavoravano nei paraggi.
La nuova locanda fu subito nota come Beim Schluderbacher (Da quello di Schluderbach) e per una ventina d’anni il Ploner vi svolse una buona attività. Oltre a quelli squisitamente commerciali, Hans Ploner non ebbe però altri meriti per la storia della zona. Ne ebbe qualcuno in più il figlio Georg, conosciuto come der Alte Schluderbacher (il vecchio di Schluderbach).
Nel 1854, infatti, Georg rilevò dal padre la gestione della locanda, già ampliata e conosciuta dai primi turisti che passavano in Valle di Landro: sotto la sua conduzione, essa divenne la base più comoda e ambita per l’esplorazione del Cristallo e delle cime circostanti, che raggiunse il massimo sviluppo dal 1870 a fine secolo.
Il nome del “vecchio di Schluderbach”, accanito cacciatore di camosci e buon alpinista, compare nelle cronache dell’epoca in almeno tre occasioni.
Nel 1864, con il viennese Paul Grohmann, salì (probabilmente per primo) l’imponente ma non difficile, Cristallino di Misurina dalla Val Le Bance, un'appartata laterale della Val Popena Bassa.
L’itinerario fu utilizzato fino alla Grande Guerra, per essere poi soppiantato dal percorso che sale da Val Popena Alta per la Val delle Baracche, tracciato dai soldati italiani.
Nel 1870, con la guida auronzana Luigi Zandegiacomo Orsolina, Ploner effettuò la prima salita turistica della Cima Cadin di San Lucano, la più alta delle vette, al tempo ancora tutte inviolate, dei Cadini di Misurina. La via di Ploner presenta caratteristiche quasi occidentali, poiché si svolge per la maggior parte in un canale molto ripido e innevato fino a tarda estate.
La terza impresa di Georg affidata alla storia è la più importante: nell’agosto 1879, infatti, l’oste di Carbonin e Michl Innerkofler, montanaro di Sesto assunto nel 1872 come garzone per aiutarlo a condurre la locanda, si aggiudicarono la prima salita della Cima Ovest di Lavaredo. Questa via oggi viene percorsa prevalentemente in discesa dagli scalatori che ripetono le ascensioni sul lato nord della Cima.
Circondato dalla stima e dal rispetto della famiglia Ploner, Innerkofler stabilì per una quindicina d’anni la propria base presso il loro albergo, divenendo in breve una delle guide più richieste delle Dolomiti e il vero “re” del Cristallo.
Conobbe tutti i canaloni, le cenge e le forcelle e salì tutte le cime del Gruppo. Calcò la vetta principale del Cristallo per oltre 300 volte, scoprendovi tre vie nuove (la cresta NNO con Minnigerode, 1877; la parete E con Louis Friedmann, 1884; il canalone N con C. Wydenbruck, 1887).
Il 20 agosto 1888, scendendo verso Carbonin dalla sua montagna prediletta, fu trascinato nel crepaccio che taglia la Val Fonda da un’errata manovra di corda dei clienti, due studenti germanici che aveva condotto gratuitamente sulla cima.
Aveva solo quarant’anni, ma in tre lustri d’intensa attività era salito per primo sulle più importanti e impegnative vette delle Dolomiti, toccando difficoltà fino al IV grado. Michl è ricordato oggi dal Campanile Innerkofler, nel Gruppo della Croda da Lago, e dalla torre omonima, nel Gruppo del Sassolungo.
Il nome del suo “principale” Georg Ploner è ancora vivo come toponimo, proprio sulla cima principale del Cristallo. Nella salita lungo la via normale, infatti, giunti in cresta s’incontra il Baston del Ploner, un terrazzo formato da un lastrone piatto, sul quale si narra, fra l'altro, che l’oste avesse dimenticato il proprio bastone ferrato durante una salita.
La figlia di Georg, Anna (nata nel 1856), riveste anch’essa un ruolo nella storia alpinistica. Si può ritenere, infatti, una pioniera dell’alpinismo femminile nelle Dolomiti poiché, diciottenne, compì con “Michl” una delle prime ripetizioni del Cristallo, conquistato nove anni prima da Grohmann con le guide ampezzane Santo Siorpaes e Angelo Dimai.
Certamente fu merito della famiglia Ploner, ma soprattutto del fortissimo Innerkofler, se – alla fine del XIX secolo – Carbonin raggiunse una ragguardevole importanza e notorietà turistica. Il vecchio Georg tenne saldamente le redini dell’azienda fino al 1895, quando passò la conduzione dell’Hotel al figlio Erwin.
Quest’ultimo, oltre che quella di albergatore, esercitò di tanto in tanto anche l’attività di guida. Il suo nome è legato all’Ago Löschner, giudicato dallo scrittore Visentini “il gioiello di dolomia più bello di tutto il Gruppo del Cristallo”.
Si tratta di una guglia appuntita che svetta sulla cresta del Piz Popena; Erwin la conquistò con il Tenente austriaco Richard Löschner nel settembre 1907, ma attualmente la salita, già raramente percorsa, è divenuta difficilissima, per il crollo di un blocco roccioso.
Nella stessa estate Ploner, con l’ampezzano Angelo Dibona e il pusterese Andreas Piller, condusse H. Schuloff nella prima salita della Punta Clementina, elevazione che affianca il Cristallino di Misurina ed è visibile fin da Dobbiaco.
Raso al suolo dall’Esercito Italiano durante la guerra insieme con tutto il villaggio, l’Hotel Ploner venne ricostruito e continuò a funzionare per altri sessant’anni, ma ormai la località aveva perso per sempre il fascino dell’età dei pionieri.
Condotto dalle successive generazioni dei proprietari con vicissitudini alterne fino all’inizio degli anni '80 del Novecento, in seguito fu venduto e trasformato nel “Feriendorf”, la prima multiproprietà sorta nelle Dolomiti di Ampezzo, Sesto e Auronzo.