venerdì 27 agosto 2010

Cianpolongo e Salvaniera, un caso della storia

Il 16/10/1999 Mara Apollonio e Ivano Pasutto, appassionati escursionisti di Cortina che escono spesso dalle piste battute, fecero una scoperta, tanto più interessante poiché totalmente casuale, in una remota plaga del territorio ampezzano.
Salendo verso la Rocheta de Cianpolòngo, una cima posta sul crinale fra Cortina e San Vito, dopo aver visitato il cippo “numero 1” del confine fra le due comunità, a pochi passi dalla vetta gli escursionisti s’imbatterono … in un altro cippo “numero 1”.
Su un lastrone roccioso apparve, infatti, ai loro occhi stupefatti una croce incisa, con la data 1779 e il numero 1, che fa esattamente il paio con quella presente circa 250 metri più in basso, ai piedi del Zigar, piramide visibile anche da Cortina che ebbe un peso di rilievo per definire i confini del territorio, al tempo anche confini fra l’Impero d’Austria e la Repubblica Serenissima.
Di questa duplice pietra di confine è probabile che fino allora nessuno sapesse alcunché. Non fu citata nei suoi pregevoli studi da Giuseppe Richebuono, storico d’Ampezzo; non la trovò né ne fece menzione Illuminato de Zanna, il ricercatore che negli anni ’60 aveva scandagliato per primo i 75 km del perimetro confinario ampezzano; non lo conoscevano i cultori di storia e d’alpinismo che chi scrive volle interpellare.
Il secondo confine “numero 1”, ripassato in vernice e copiosamente fotografato dagli “scopritori” (che l’autore di queste righe ha visitato nel 2000, 2003 e 2004), è andato ad inserirsi come tessera preziosa nel mosaico dell’esplorazione del territorio d’Ampezzo, del quale sovente anche gli stessi residenti sanno poco o nulla.
Pur essendo raggiungibile con fatica ma senza difficoltà di roccia, giacché si mimetizza bene sulla dolomia, evidentemente l’iscrizione sfuggì a coloro che toccarono la vetta dopo il 1779. Non lo notarono, o non ne fecero parola, i cacciatori, i contrabbandieri, i pastori, i rari rocciatori che salirono la cima da S, e gli alpinisti che salgono sulla Rocheta da quando nell’estate 1986, alcuni amici segnarono a minio la via d’accesso e posero in cima una croce e un quaderno per le firme.
Resta ancora da decifrare, e non pare del tutto intuitivo, il motivo di una duplice confinazione. Ad onore del vero, in ogni modo, una citazione illuminante sull’argomento c’è.
Leggendo il “Protocollo” del 20 agosto 1779, che descriveva l’andamento dei confini, i cippi e le distanze intermedie fra di loro espresse in pertiche viennesi (m 1,896), il primo termine del confine Ampezzo - San Vito, quindi Tirolo – Cadore, avrebbe dovuto trovarsi in vetta ad una montagna, la cosiddetta “Rocchetta di Selvaniera”. Il testo originale recita così: “… la linea prosegue per la sommità delle più alte crode fino alla Rocchetta di Selvaniera rupe di grande estensione in continuazione delle crode di Ambrizzola.Ora a fianco detta cima, non potendo arrivare alla sommità, guardando verso Ampezzo fu scolpito il primo termine principale n. 1 ed una croce col millesimo 1779, in distanza dal Sasso di Mezzodì pertiche 1000.” Non è la stessa cosa, ma giacché nella fascia boschiva ai piedi delle Rochetes, sul lato di San Vito, oltre al toponimo “Ciampolongo” si rinviene anche un “Taulà Salvaniera”, il parallelo Salvaniéra – Cianpolòngo pare facile e remunerativo.
Azzardo l’ipotesi che, in prima battuta, i topografi del 1779 avessero iniziato a demarcare i confini sul terreno dal visibile “Zigar”, dopo aver giudicato la Rocheta inaccessibile. Analogo sistema fu poi seguito al termine dei lavori sulla sponda opposta della Valle del Boite. Non riuscendo a salire il fianco meridionale della Croda Marcora (affrontato soltanto nel 1927), gli agrimensori incisero, accanto al cippo numero 10, la nota manina, che traccia una linea di confine immaginaria verso i 3154 m della soprastante Croda.
Considerata in seguito la facilità, in senso alpinistico, della cresta che dalla Rochéta scende verso il Boite, probabilmente già nel medesimo anno i mappatori ritornarono in vetta, dove incisero la “nuova” croce con il numero 1.
L’ipotesi, più che logica, sembra probabile. La pietra di confine della vetta poi, a differenza di quella alla base del “Zigar”, non fu fatta oggetto di ricognizione nel 1852, data della seconda mappatura, e nemmeno nel 1964, da parte di Illuminato de Zanna e amici. I topografi la dimenticarono, o non la conoscevano per niente?
Non essendo citato nel “Protocollo” né in altri documenti, il cippo “ritrovato” undici anni fa pare sia rimasto ignoto e invisibile per oltre duecento anni. Altra soluzione possibile non ho saputo fornire a questo piccolo “giallo” della storia ampezzana, il quale attende ancora una risposta definitiva.

"Antelao in punta di piedi", un libro di Marcello Mason (Idea Montagna, 2010)

... Come cultore delle vicende dell’alpinismo dolomitico, sono lieto di premettere qualche riga a questo libro, che narra un secolo e mezzo di storia della vetta che domina il Cadore.
Il lavoro sarebbe in ritardo, se diamo per assodato che l'Antelao fu salito nel 1851, perché il 150° ufficiale della conquista si doveva ricordare qualche anno fa. Esso giunge comunque a fagiolo, poiché fa da complemento ideale alla storia dell’altro gigante cadorino, il Pelmo, edita nel 2007 dal CAI di San Vito a ricordo di John Ball, che il 19/9/1857 sul “Caregon” aprì le danze per la conquista delle Dolomiti.
In “Antelao in punta di piedi” l’autore, che “il Re” lo conosce bene, disegna un excursus storico, alpinistico e sentimentale sulla massima vetta cadorina, che odora di vita e di passione. Una storia di rocce e ghiacci, ma non solo; soprattutto una storia dedicata a chi visse, lavorò e soffrì ed ancora oggi popola le pendici del monte, in passato ne ebbe sventure (la frana di Taulen e Marceana!), ma anche selvaggina per integrare i magri bilanci familiari, guadagno nel calcarne i versanti guidando clienti facoltosi, ambizione e un po' di gloria per aver legato nomi di cadorini a canaloni, pareti e spigoli della montagna.
Ovviamente oggi, l'Antelao custodisce ancora una risorsa per il turismo cadorino, essendo uno dei “3000” dolomitici più ambiti e frequentati; arricchito da rifugi, bivacchi, falesie e da qualche fune metallica, ma severo e degno di rispetto come oltre un secolo fa.
"Al Nantelou" è una montagna del Cadore; come ampezzano e cultore della storia di Cortina, mi sia concesso però pensarla anche un po’ “nostra”, giacché la prima salita turistica di Paul Grohmann, pioniere della rivelazione dolomitica (18/9/1863), riuscì anche grazie a due eccellenti guide d'Ampezzo: il vecchio Checo e il nipote Sandro Lacedelli da Meleres! La IV salita della Via Ossi-Grohmann (1868) si deve anch'essa ad un ampezzano: quel Santo Siorpaes da Sorabances, che fu per primo su almeno trenta vette delle Alpi Orientali. Un paio di recenti, dure vie nuove sull’Antelao e i suoi satelliti, infine, è ancora merito d’ampezzani. E anche chi scrive annovera la cima fra quelle salite in gioventù ...
Le crode però non dovrebbero avere confini né padroni; sono comunque patrimonio di tutti, e a tutti i lettori che s’immergeranno in questo libro, da cui traspare un amore autentico per una cima che non è solo pietre e non può mancare nel carnet d’ogni alpinista, auguro di ripercorrere con piacere decenni di storia di crode e di uomini.
Marcello ha scritto la biografia di un colosso sul quale si sono misurati audaci cacciatori nell’800, arditi sestogradisti nel '900, atletici freeclimbers nel 2000, ma allo stesso tempo anche migliaia di persone comuni d’ogni dove che, molto spesso con grande fatica, hanno toccato l’alto culmine elevando un pensiero di lode a Chi ha creato il mondo, le montagne e ci concede la possibilità di “andare per esse”.

(dalla Presentazione del libro)

martedì 24 agosto 2010

Chiodi

Nel mio modesto ma appagante curriculum, ho sempre preferito affrontare vie attrezzate: se ne ho percorse di poco chiodate, ho sempre utilizzato quelle diavolerie moderne denominate “nuts” e “friends”, che a prima vista paiono a prova di bomba, ma su molte delle quali comunque non avrei mai voluto volarci … Salvo errori ed omissioni, in vent’anni ho piantato col martello (così si usava, nella preistoria ...) due chiodi: il primo il 14/8/1977, per trovare una sicurezza accettabile in quel tubo ghiaioso senza luce né particolari pregi alpinistici che si chiama “Camino Casara” sulla Torre Toblin in Tre Cime. Il secondo e ultimo il 27/8/1981: si trattava di un chiodo ad anello, che pochi anni fa mi dicono fosse ancora al suo posto, all’inizio della prima lunghezza impegnativa del diedro Consiglio sulla Cima del Lago in Fanes. Come ho detto, nell’arco della nostra attività abbiamo sempre scelto vie con qualche chiodo (Cinque Torri, Col dei Bos, Piz Ciavazes, Popena Basso, Punta Fiames, Sas de Stria, Sas Pordoi, Torre Falzarego, Torri del Sella), vie attrezzate prima con chiodi normali, poi spesso cementati, ma dove più di tanti non ne servivano (Becco di Mezzodì, Cima Grande, Piccola e Piccolissima di Lavaredo, Cinque Dita, Croda da Lago, Gran Campanile del Murfreid, Torre Wundt), oppure ancora vie attrezzate poco, ma a sufficienza (Cima Cason de Formin, Cima del Lago, Cima Piccola della Scala, Creta Cacciatori, Gusela, Punta Col de Varda), oppure vie poco e male attrezzate, dove fu giocoforza integrare le scarse protezioni esistenti con le citate, leggere macchinette anglosassoni (Campanile Dimai, Lagazuoi Ovest, Piz dles Cunturines, Sas da les Nu, Torre Comici, Torre Fanes, Torre Lagazuoi). Forse però è un peccato che in tanti anni non abbia piantato altri chiodi: sicuramente avrei percorso più vie “fuori mano” e, se non pratica di martello, avrei sviluppato almeno un’eccellente muscolatura sugli avambracci, che non sono mai stati il mio forte!

Ernesto Majoni

lunedì 23 agosto 2010

400° post: sul Col de Bocia

Ieri, in una splendida domenica estiva, abbiamo salito una cima senz'altro minore dal punto di vista alpinistico, ma di grande interesse per noi, che cerchiamo cime il più solitarie e tranquille possibile. Se poi sono erbose e offrono anche la possibilità di sdraiarsi e prendere un po' di sole, tanto meglio. La montagna in questione si chiama Col de Bocia, o Col Bocià (2405 m). E' un testone erboso dalla sommità molto ampia ma poco appariscente, e si eleva nel mezzo della Monte de Lagazuoi, percorsa in sinistra orografica dalla pista di sci dell'"Armentarola" che dal Lagazuoi scende a Capanna Alpina. Mentre verso Armentarola il Col presenta una parete percorsa da alcune vie di arrampicata, verso la Monte de Lagazuoi degrada in grandi valloni di magro pascolo e sassi, costellati di tracce belliche, per i quali si vagabonda senza difficoltà in ambiente bucolico. Per salire sul Col, siamo partiti da un piccolo slargo all'interno del primo tornante della strada Valparola - San Cassiano (cartello "Lagazuoi - Rifugio Scotoni"). Per il sentiero 18, in pratica la vecchia strada asfaltata oggi impraticabile, dopo qualche centinaio di metri abbiamo imboccato il 20a per Lagazuoi - Rifugio Scotoni. Dapprima in piano e poi costeggiando le pareti dello Spinarac´ siamo saliti verso Forcella Salares, rimontando a tornanti una stretta gola detritica e arrivando in 3/4 d'ora alla Forcella, piccolo gioiello per l'ambiente e il panorama. Proseguendo per il sentiero verso destra, siamo saliti per balze prative e sassose, aperte verso il Settsass e i monti agordini, fino ad incrociare la pista di sci. Salendo un tratto per le ghiaie di questa, brutta ma non più di tanto fastidiosa, abbiamo incontrato un traliccio metallico, presumo per l´innevamento artificiale. Uscendo dal sentiero battuto, abbiamo deviato a sinistra, traversando prima un valloncello sassoso e intercettando quindi una debole traccia militare verso sinistra, che affianca una modesta parete rocciosa. Aiutandoci con questa e altre tracce ci siamo portati sotto il culmine del Col de Bocia (che non è, come credevamo, quello che si protende verso il Rifugio Scotoni, dove c'è un ometto sul bordo della parete). Guardando in alto, da qui si vede la piccola croce di vetta ormai abbastanza vicina, che abbiamo raggiunto senza via obbligata attraverso balze prative e sassose con numerosi resti di baracche, muriccioli e caverne. Ritengo che il Col de Bocia, pur evidente, abbia poco interesse per gli escursionisti che ne sfiorano le pendici scendendo o salendo tra il Lagazuoi e l´Armentarola, in una zona molto battuta. I vasti pianori e le doline della vetta, pascolo di pecore, sono solitarie e tranquille, e poi Forcella Salares merita una sosta. Dal Col abbiamo goduto di un grandioso panorama sul Piz dles Cunturines e sulle vette del gruppo di Fanes, in primis la Cima e la Torre del Lago e la Cima Scotoni, che sembra quasi di toccare. Dunque, una bella scoperta escursionistica, senza difficoltà e immersa totalmente nella pace e nel silenzio.