sabato 6 novembre 2010

Strudelkopf, forse l'ultima gita prima di un lungo inverno

Dopo otto anni, l'altro giorno sono tornato con Isy su una bella cima, che conobbi per la prima volta nell'autunno 1989: lo Strudelkopf o Monte Specie. Rialzo quasi piatto della lunga cresta che dal Picco di Vallandro si protende verso la Val di Landro, lo Strudelkopf, fondamentalmente, è una cima "per pigri". Per toccare la grande croce di vetta, dedicata ai reduci di tutte le guerre, infatti, dal Rifugio Vallandro o dal Pratopiazza occorre rispettivamente da un’ora a un'ora e mezzo di cammino, seguendo una carrareccia militare sassosa ma poco ripida, praticata anche in MTB, che risale a curve i vasti pascoli dell'Alpe di Specie. Il 6 novembre scorso sulla vetta, che offre un panorama quasi ad angolo giro sui monti ampezzani, cadorini, pusteresi e su quelli della Valle Aurina, ci siamo ritrovati in dodici. Lungo la salita, coperta nella parte alta da 15 centimetri di neve dura e ben pistata, il sole scottava come in piena estate, tanto da ustionare il viso ad entrambi, e il cielo era luminoso e terso: siamo incappati, insomma, in una breve estate di San Martino. Attorno alla croce c'erano i soliti gracchi affamati a farci compagnia, il silenzio s'imponeva sovrano, ed abbiamo sperato che non fosse quella l'ultima camminata prima dell'arrivo del lungo inverno, ma ho qualche dubbio ... Oltre che per il panorama, il Monte Specie è conosciuto per l'accesso facile e abbastanza breve. Ma c’è anche un modo molto più “alpinistico” di giungere in vetta: dal versante di Landro, lungo la Helltal (Val Chiara), percorrendo la via di arroccamento degli Austriaci. Dal Ristorante Tre Cime, il sentiero segnalato risale la sfiancante costa alberata e baranciosa che sovrasta la strada, poi cambia versante ed entra nella valle vera e propria. Superato un tratto accidentato con una scalinata di legno, una breve galleria e una cengia munita di corde fisse, il sentiero prosegue sulla destra orografica della valle sbucando su una sella del crinale, dove si trovano i ruderi di un fortino. In questo punto arriva anche la carrareccia da Pratopiazza, che in una ventina di minuti porta in cima. Mentre il dislivello da Pratopiazza è di 300 m, quello da Landro è il triplo: per la risalita della Val Chiara occorrono poco meno di tre ore, abbastanza faticose ma interessanti per l'ambiente silvestre e solitario e le numerose testimonianze belliche. Mentre il percorso da Pratopiazza mi era totalmente nuovo, personalmente ho percorso la Val Chiara in salita e in discesa in cinque occasioni, e devo dire che tutto sommato non la rimpiango.

giovedì 4 novembre 2010

Un ricordo al giorno: 4 novembre, Bepi Degregorio

Il 4/11/1978 moriva a 89 anni, nella sua casa di Cortina, Giuseppe Degregorio, noto come "Bepi", alpinista e scrittore. Originario di Predazzo, si diplomò maestro elementare e fu amico delle guide fassane Tita Piaz e Francesco Iori. Perseguitato politico dall'Austria per le idee irredentiste, nel 1920 giunse in Ampezzo per dirigere l'Ufficio Postale, dove rimase fino alle Olimpiadi Invernali del 1956, e per arrampicare. Presidente del CAI Cortina dal 1924 al 1970, presiedette anche il Corpo Guide Alpine Ampezzane, il Soccorso Alpino, i cronometristi, e fu un buon arrampicatore. Ebbe all'attivo diverse vie nuove, realizzate con Federico Terschak e Erwin Merlet, sull'Averau (1925), Croda da Lago (1924, 1926, 1932), Pomagagnon (1927), Piz Popena (1925), Sorapis (1931) e sulle crode fassane. Sue anche la probabile prima invernale solitaria del Becco di Mezzodì (1925) e le prime sciistiche del Picco di Vallandro e della Cresta di Costabella (1934). Spesso in compagnia di noti alpinisti, ripeté le vie classiche della conca ampezzana, fino agli ultimi anni '40. Giornalista e scrittore dalla penna facile ed efficace, illustrò in numerosi articoli Cortina e le sue montagne, pubblicando nel 1952 da Cappelli un suggestivo volume con lo stesso titolo, rielaborato e ristampato con il titolo di "Andar per Dolomiti" poco prima della morte. S'interessò di impianti sciistici e di turismo, fu socio del Gruppo Italiano degli Scrittori di Montagna e fino a tarda età ricevette amici e alpinisti nella sua "Villa Soreghina" presso l'ex stazione ferroviaria di Cortina, dove la cornice del poggiolo d'ingresso era attrezzata con una corda di canapa e un cartello, che avvertiva "Solo per sestogradisti".

mercoledì 3 novembre 2010

Ra Ciadenes: da aprile a novembre, e anche oltre


Ra Ciadenes (le catene) è il nome della cresta che scende dalla Croda d’Ancona verso E terminando all´altezza del deposito militare di Rufiedo. Durante la Grande Guerra Ra Ciadenes, il cui punto culminante è noto come I Zuoghe (i gioghi), fu un passaggio obbligato per l'assalto a Son Pouses, e contro la dorsale s’infransero i tentativi di sfondamento dell’Esercito Italiano. La quota più alta, dove sorge un punto trigonometrico, e quella poco più bassa dove il sentiero che sale da S, segnalato ma abbandonato, scollina per scendere in Val di Gotres, offrono un magnifico scenario e consentono di osservare molte opere belliche. Da Ospitale, per ripida forestale e superando una cabina elettrica, si sale a una radura. La si traversa sino a un sentiero che s'inoltra nel bosco. Per esso, rimontando a tornanti l'erto costone di alberi e mughi, si giunge ad un inconfondibile canale di terra e detriti. Lo si supera prima a destra e poi portandosi a sinistra, e si continua tra i mughi. Proseguendo si esce su terreno aperto, e per zolle erbose si giunge a due casematte di cemento: quella superiore, utilizzabile come precario riparo dal maltempo, costituisce il termine della salita. Verso E, tra alberi e mughi, si può salire anche sui Zuoghe, dove s´incontrano altri resti di guerra. Presentando quest'ascensione, non banale perché poco segnata e in ambiente inselvatichito, che ho ripetuto 25-30 volte in ogni stagione, sempre con il piacere del ragazzo guidato lassù dai genitori per la prima volta nel 1972, mi auguro una cosa. Di non incontrarvi mai i “valorizzatori” turistici - istituzionali o non -, quei samaritani che girano per crode muniti di roncola e spray multicolori. Con il loro operato, spesso superfluo e pericoloso, infrangerebbero l’incanto di quei dirupi di scarso valore alpinistico, tanto strategici in guerra quanto disertati in pace. Ra Ciadenes sono belle così, e l'escursione appagherà soprattutto chi ama la Montagna minore, fuori dalle mode e dalla confusione.

martedì 2 novembre 2010

Un ricordo al giorno: 2 novembre, Popena Basso

Riannodando il filo dei ricordi di montagna, ho notato che riesco ad associarne uno quasi a ogni giorno dell’anno. Il 2/11/79, ad esempio, sotto una precoce nevicata, ero presente alla salita della Via Scoiattoli sulla parete E del Popena Basso, la cupola coperta di mughi che cade verso Misurina con strapiombi grigi e giallastri, solcati da vie di ogni difficoltà. Leggo nel "Berti" che la via, realizzata da Albino Alverà e Romano Apollonio il 29/6/1942, presenta un dislivello di 90 m con difficoltà di VI, e per superarla occorsero 22 chiodi: l’itinerario, breve ma secco, fu la prima via di sesto grado aperta dagli Scoiattoli. La seconda ascensione spettò a Francesco Corte Colò e Valerio Quinz il 13/9/1949, mentre la prima solitaria, nel 1952, fu opera di un Molin (Alziro o Attilio). I protagonisti dell'ascensione a cui assistei erano Enrico e Stefano, quest'ultimo non ancora  sedicenne: per me la via era improponibile, e così mi accontentai di salire un pezzo dell’adiacente Mazzorana-Adler, tracciata dalla guida Piero Mazzorana con un cliente il 17/8/36 e divenuta poi una classica. Ritiratomi sotto la neve, tornai a completare la Adler con Carlo cinque anni dopo, esattamente il 3/11/84. Vista la piacevolezza dell’itinerario, lo salii ancora in alcune occasioni. Nel 2008 sono salito ancora una volta sul Popena Basso, per la facile via normale. Ho potuto così riguardare le rocce alle quali sono legate diverse giornate della mia carriera di scalatore, che si espresse bene fino ad un certo punto e oltre, saggiamente, si arrestò. Mi piace tornare su quella mansueta cupola che guarda il lago di Misurina, lungo il sentiero, non segnalato e per questo noto solo a chi arrampica, che s’inerpica fra alberi, sassi e baranci fino in vetta: intanto la valigia dei ricordi non si chiude mai.

lunedì 1 novembre 2010

Le montagne e lo zodiaco


Volendo andare per il sottile, i toponimi legati alla montagna si potrebbero raggruppare nelle più diverse classificazioni: da quelli legati agli animali a quelli legati al lavoro, da quelli connessi alla religione a quelli derivanti da nomi di persone e compagnia cantando. Una raffinata operazione di questo genere l’ha già compiuta una quindicina di anni fa l’amica Lorenza, utilizzando i toponimi di Cortina e dintorni. Una piccola curiosità, che mi è venuta in mente maneggiando un sottopiatto ispirato al segno dello Scorpione, è che, almeno sui monti del Triveneto, ci sono anche toponimi legati allo zodiaco. Non li ho trovati tutti e 12, ma magari esistono, anche in zone un po’ più lontane da quelle che conosco meglio e frequento. In ogni modo, qui intorno ci sono toponimi che hanno nella loro radice i Gemelli, il Leone, il Toro, la Vergine; almeno un terzo dell’arco zodiacale l’abbiamo. Per non dire poi dei toponimi, a torto o a ragione, legati ai colori: le varie Cresta, Croda, Punta e Sasso Bianco; Forcella e Torre Gialla; Punta Grigia; Croda, Monte, Punta e Sasso Nero; Monte Rosa (non quello della Val d'Aosta, quello del Popera); Croda, Forcella, Monte, Sasso e Valle Rossa; Cima, Colle, Forcella e Promontorio Verde e chi più ne ha più ne metta. Quando non saprò più che cosa scrivere sulle montagne, potrei iniziare anche la raccolta di crode astrologiche, crode colorate, crode diaboliche, crode personificate, crode sante. Potrebbe essere il mio “alpinismo di carta” degli anni che verranno.

domenica 31 ottobre 2010

Un ricordo al giorno: 31 ottobre, Punta della Croce

La Punta della Croce, mediana delle tre cime che costituiscono il segmento W della catena del Pomagagnon, fino agli anni '80 del XIX secolo non si chiamava così. Il nome, infatti, le venne da una croce lignea, posta sulla sommità prima del 1883 da Giuseppe Ghedina Tomasc, la guida che sarebbe tragicamente caduta dal Nuvolau il giorno dell'inaugurazione del rifugio omonimo, 11/8/1883. Non è noto esattamente quando e per quale motivo il Ghedina abbia portato la croce su questo rialzo di cresta, poco rilevante a guardarlo da N, dove scivola con una pala detritica sparsa di zolle erbose sui magnifici Prati del Pomagagnon. Sul lato opposto però, verso Cortina, la Punta cade con una parete incisa a metà da una grande fessura, che – per quanto non tutta verticale né strapiombante – raggiunge la considerevole altezza di 650 m. Pur contando su tre vie di roccia, di cui una classica (Pott, guide Siorpaes e Verzi, 1900), la Punta della Croce non ha la fama delle sue compagne, Punta Fiames a sinistra e Campanile Dimai a destra. Anche la via normale, un itinerario che richiede mezz'ora da Forcella Pomagagnon e non presenta grandi problemi, non riscuote eccessivo entusiasmo nella folla degli alpinisti. L'ho salita tre o quattro volte, di cui ricordo quella con Claudia e Sandro di undici anni fa, il 31/10/1999, giornata clou di un autunno che sembrava non voler finire. Perché mi piace? Anche perché, una volta in cima, avvolti dal silenzio, basta guardare la prospiciente Punta Fiames, in genere popolata di ferratisti dalla primavera all'autunno, per rendersi conto del fatto che la Punta della Croce è una montagna abbandonata, ma tranquilla e ristoratrice.