sabato 30 ottobre 2010

Autunno sul Col Rosà

Domenica 23/10/83. L'altro ieri ho "passato" Diritto Amministrativo, e sono tornato subito a casa per onorare il successo come piace a me. Domenica scorsa, per fugare la tensione dell’esame ormai vicino, avevo salito da solo la ferrata “Strobel” della Fiames: oggi resto in zona e voglio salire la “Bovero” sul Col Rosà. Sempre da solo, per necessità ma anche perché voglio essere libero. Zainetto e tuta, in autobus a La Vera, a Fiames a piedi: m'immergo subito nel bosco e in breve - per il comodo, ombroso sentiero di Val Fiorenza – esco in Posporcora. L’aria è quella limpida e frizzante di un mattino d'autunno: non fa freddo, c'è un silenzio magico. Supero l’erto pendio che porta alla ferrata, e all'attacco trovo tre veneti, tra cui una bella ragazza. Scambio due parole con loro, ma ho quasi fretta, mi attende la cima. Un tratto in libera, e sulla traversata aggancio i moschettoni: assaporo la grande esposizione di quei 5 metri ben attrezzati, in breve sono fuori e rapidamente raggiungo la terrazza di mughi sotto la cima. Passo le ghiaie, salgo veloce il camino con gli scalini di guerra e sono in vetta: il campanile di Cortina batte il mezzodì. Non c’è nessuno: una fresca brezza, un pallido sole, un gracchio che pregusta la colazione ed io. Sto apprezzando l’isolamento di questa cima, così calpestata d'estate: metabolizzo più che posso il panorama, la soddisfazione di essere quassù, alto sulla valle, e di stare bene, in equilibrio e in pace con me stesso e con la natura. Sul terrazzo di vetta, esposto sulla parete verticale, riesco persino a fare un sonnellino. Quasi mi dispiace dover scendere, e rifletto sull'utopia di restare quassù, vivendo di alberi, animali, sole e vento. D’improvviso, però, un refolo rabbioso mi desta dal torpore: mi è venuto in mente che a casa mi aspetta il “Liebman”, il manuale di Procedura Civile!

venerdì 29 ottobre 2010

Piero Mazzorana, a 100 anni dalla nascita


Il 4/9/1977 avevo finito da poco il liceo, quando con Enrico, già lanciato verso l'arrampicata di alto livello, salii la via aperta nel 1934 da Comici e del Torso sulla parete S della Punta Col de Varda, sopra Misurina. La via è nota agli alpinisti classici per un mix di fattori, che ne fanno un percorso frequentato: infatti, anch'io l'ho salita altre tre volte. In uno degli ultimi tiri di corda c'è un tratto aereo e impegnativo, che superai provando forse la prima grande emozione dolomitica. Usciti dalla via, fra i massi della vetta trovai un barattolo con un biglietto, e lo lessi con la passione, già in incubazione, dello storico. Seppi così che il giorno prima era passato di là Piero Mazzorana (1910-80), guida alpina degli anni Trenta-Quaranta, "patron" dal '49 al '75 del Rifugio Auronzo e autore di una sessantina di vie nuove soprattutto nei Cadini di Misurina, qualcuna delle quali l'avrei apprezzata anch'io. Mazzorana era salito da solo per la “Via Obliqua” sulla parete S, continuando il percorso che per mezzo secolo lo aveva visto calpestare innumerevoli cime principalmente nei Brentoni, Cadini, Cristallo e Popena, Croda dei Toni, Popera, Sella, Tre Cime. Leggere quel piccolo biglietto sgualcito mi commosse, pensando che Mazzorana era già anziano, ma la passione della roccia non lo aveva ancora abbandonato. Quando, nella primavera dell'80, mio padre - che lo conosceva e me lo aveva presentato su in Rifugio - me ne comunicò la scomparsa, mi dispiacque di non avere fotografato quella firma tremolante nascosta in mezzo ai sassi di una piccola cima dolomitica. Forse era una delle ultime testimonianze della lunga vita di roccia della guida alpina Piero Mazzorana.

Sulla Wundt, d'inverno

La prima ripetizione invernale della rinomata fessura SE della Torre Wundt, nei Cadini di Misurina, salita per la prima volta l’8/9/1938 da Mazzorana e del Torso , fu compiuta diciotto anni dopo. Il 13/3/1956, infatti, Bruno Baldi e Fabio Pacherini, appartenenti a quel gruppo di triestini che gestiva la capanna al Passo dei Tocci intitolata a Dina Dordei, e da alcune stagioni perlustrava il gruppo aprendo dovunque nuovi itinerari, superavano per primi la fessura nella cattiva stagione. All’amico Alessandro, appassionato della Torre e della via, che abbiamo percorso insieme diverse volte (ad una di queste si riferisce l'immagine che accompagna l'intestazione di questo blog, scattata nel 1984), è venuto in mente  in più occasioni di ripetere la Wundt d'inverno, e naturalmente ha tentato di coinvolgermi nell’operazione. Forse, in condizioni meteorologiche ottimali, la cosa non sarebbe drammatica, anche perché la fessura Mazzorana è posta a S e non dovrebbe essere mai troppo gelata. Ma l’idea di salire al Passo dei Tocci con neve più o meno alta (io non scio), magari dormire nel locale invernale del Rifugio Fonda Savio, che non è propriamente una reggia, e soprattutto il pensiero di dover magari scendere per la via normale a N, mi hanno sempre fatto desistere dal progetto. Neppure Alessandro ha più pensato (forse) alla Wundt d’inverno, lasciando così a Baldi e Pacherini il primato della salita, di cui ho trovato di recente notizia in una Rivista del CAI di oltre mezzo secolo fa. Chi legge, se ne avesse intenzione, sappia che l’invernale della fessura, oggi piuttosto frequentata, non sarebbe più la prima: forse manca ancora l’invernale di un solitario, che potrebbe essere un'idea ...

giovedì 28 ottobre 2010

E il Corno d'Angolo sta a guardare ...

L'Unesco ha elevato le Dolomiti a patrimonio dell’umanità, a bene da tutelare a livello mondiale. A parte le questioni nate per ospitare la sede della Fondazione, che la Provincia propone di localizzare a Sedico; considerato poi che tutelare le montagne vuol dire tutelarne gli abitanti, perché le Dolomiti non restino solo cumuli di pietre senza vita, chissà quanti (anche fra i più attenti) sanno spiegare compiutamente il significato di “patrimonio mondiale dell’umanità”. Se cioè sia solo un’etichetta cultural-naturalistica o abbia anche una portata economico-turistica; se produrrà l’ennesima fabbrica di sovrastrutture e carrozzoni o aiuterà invece la rinascita della nostra terra, suggestiva ma viziata da vari problemi: spopolamento, captazione delle acque, chiusura di fabbriche, declino culturale … In quest'ambito, sottolineo un mio dubbio. Pensavo che “Unesco” evocasse solo paesaggi da favola, ambiente sostenibile, colori dei Monti Pallidi, natura, cultura, architettura dolomitica da rispettare, ma di recente ho potuto ammirare il costruendo ponte sul Rudavoi, nel cuore del bene-Dolomiti. È vero che il Rudavoi soffre di un grave dissesto idrogeologico, che la sua esondazione ha causato una vittima, che la via di comunicazione che ci passa, necessaria a lavoratori e turisti, merita la massima sicurezza, ma in che modo? Con un serpentone di calcestruzzo a due campate, alto 14 m e lungo 240, che scavalca un “ruscellone” non certo tumultuoso e largo forse un quinto? Con un “ricciolo” spaziale di cemento e ferro, sul quale si correrà a 90 km/h, mentre sulla strada prima e dopo il ponte, dove ogni primavera si ripetono i dissesti,si riuscirà forse a mantenere i 50? Il progettista difende il suo lavoro dicendo che (le correzioni fra parentesi sono mie)“… il ponte si concreta a livello percettivo, come una lama sottile, quasi invisibile nella luce della penombra; un uso efficiente dei materiali si traduce in trasparenza e snellezza della struttura, con armonia e unità delle parti determinate da una corretta proporzione. Il luogo acquista valore dal ponte, (con quello) antecedente il significato dell’ambiente è (era) nascosto; la costruzione del ponte lo ha messo in luce trasformando un sito in un luogo, scoprendo i significati potenziali presenti nell’ambiente …”. Nonostante tutto però, siamo di fronte a una bruttura di dimensioni … dolomitiche, e mi chiedo quanto verde servirà per attenuare almeno in parte l’impatto della struttura sui boschi al cospetto del Cristallo e del Sorapis. Nel 2011 mi toglierò la soddisfazione di salire di nuovo sul Corno d’Angolo, che domina il ponte: da lassù vorrei rivolgere lo sguardo al Rudavoi, 800 m più in basso, e ammirare “l’effetto che fa”. E meno male che le Regole ampezzane, proprietarie e gestrici del territorio, riavranno in dono i “relitti”, il tratto di strada solcato da 13 anni da un Bailey "provvisorio"! I due tronconi del viadotto sono stati congiunti da poco, ma per la chiusura del megacantiere dovremo attendere il 2012. Da allora, in barba ai principi dell'Unesco, potremo apprezzare un cavalcavia stile Val Lapisina (ma in quella valle c’è un’autostrada a 4 corsie, che collega la nostra Provincia con la pianura). In basso, sul ciglio sconvolto del Rudavoi, resterà un piccolo, malinconico cartello di legno che indirizza gli alpinisti verso la perla ambientale della Val Popena Alta e le montagne che le fanno corona, “patrimonio mondiale dell’umanità”.




mercoledì 27 ottobre 2010

Un ricordo al giorno: 27 ottobre, Cresta di Val d'inferno

Cresta di Val d’Inferno: una serie di guglie e spuntoni dal nome poco gentile, che divide Carnia e Cadore e s’inserisce nell’isolata giogaia dei Brentoni-Castellati. Cime fuori mano, spesso friabili, angoli romiti dove c’è sempre qualcosa da scoprire: questo è la Cresta, un ambiente romantico. Dalla cresta emerge il secondo Torrione, piccolo ma elegante, che guarda Forcella Camporosso e i boschi della Val Frison. Lungo lo spigolo S sale una via, fra le più consigliate del gruppo, che percorsi per la prima volta un quarto di secolo fa, il 27/10/1985. Era stata aperta nel 1938 da due fuoriclasse, Castiglioni e Detassis, che stavano girando le Alpi Carniche in vista dell’edizione dell’omonima guida. La via offre poco di succulento dal punto di vista dell’arrampicata, ma presenta alcuni pregi che la rendono molto apprezzabile da chi ama un certo alpinismo. Mi piacque salire nel fresco del mattino verso lo spigolo, dalla strada di Razzo per Forcella Losco, Camporosso e i pendii di erba e ghiaia sotto il Torrione. Il panorama che godevamo era insolito e originale: Carniche, Giulie e Dolomiti si proponevano in un avvicendarsi di piani diversi, che avrebbe colpito anche l’osservatore più distratto. Tutto era silenzio; in autunno, il periodo migliore per conoscere i Brentoni, nella zona regna indisturbata la quiete. Mi piacque salire la via godendo ogni passaggio, né duro né banale: una rampa, paretine sullo spigolo, un diedro liscio, una cresta finale esposta. Mi piacque riposare al sole in vetta, guardando le crode intorno a noi, nitidissime in una giornata di sogno. Scendemmo per la via normale soddisfatti, fra ripidi salti e cenge solcate dai camosci, avvicinandoci alla valle che si preparava al riposo e lasciando la solitudine dell’altopiano. Valeva una visita, il secondo Torrione della Cresta di Val d’Inferno. Spero che chi ripete quella via lo faccia quasi sottovoce, per mantenere l’incanto che resiste tra quelle montagne. Ne sarà ampiamente ricompensato.

martedì 26 ottobre 2010

L'uomo di legno

Ricordo esattamente il giorno: era il 16/2/1981, e con Enrico stavamo completando le corde doppie nella discesa verso la “terrazza” della Torre Grande d'Averau, dopo aver superato in invernale la Via delle Guide sulla Cima W, che all'epoca ripetevamo abbastanza spesso. Non pensavamo certamente che, in quella bella domenica d'inverno, sulle rocce della Torre Grande si aggirassero altri arrampicatori; e invece, poco prima di affrontare l'ultima parte della discesa, ci passarono accanto quasi furtivi due uomini, usciti dalla Via Miriam prima della lunghezza della “schena de musc”, che parlavano un idioma allora per me incomprensibile. Quello che scendeva davanti salutò, si fermò un attimo e, indicandomi il suo compagno, che non sembrava un rocciatore, indossava pantaloni grigi di lana e un berretto di lana blu alla Lucio Dalla calato sulla faccia barbuta, mi disse sottovoce: “Vedi quello lì? È giovane, e farà grandi cose.” L'uomo che si era fermato era Italo Filippin, poi responsabile del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane, mentre l'altro era Mauro Corona, scultore, alpinista e oggi anche rinomato scrittore.

Pala de ra Fedes

Di che cosa posso scrivere, stavolta? Riprendo una delle più belle scoperte che ho realizzato negli anni Novanta, la salita e traversata della Pala de ra Fedes. Come cima a sè stante la Pala non vale molto: è un fazzoletto di erba e detriti, individuato (penso ci siano ancora) da due ometti, sul culmine del primo risalto dello sperone W della Croda Rossa d’Ampezzo. Per la Pala, le carte riportano la quota altimetrica 2733: la guida Berti le riserva un inciso nella relazione della Via Nieberl alla Croda Rossa, secondo la quale si sale facilmente per erbe e ghiaie. Pur non essendo molto impegnativa, allora non mi parve proprio di aver toccato il vertice della Pala “facilmente”, né tantomeno di aver traversato sul lato opposto (peraltro non descritto in alcuna pubblicazione) passeggiando! La nostra ascensione iniziò sulla selletta caratteristica per i mughi bruciati, fra il Castel de ra Valbones e i Tremonti. Non fu banale: friabile soprattutto all’inizio, con qualche bel passo di I su paretine e canalini in un ambiente superbo. La discesa la intuimmo lungo un esposto e friabile pendio, sfruttando una serie di orme di camosci, che ci parve più sicura la seconda volta, trovando il terreno innevato. Fu una bella e faticosa salita, e la via del ritorno ci si parò davanti, logica e lineare, soltanto grazie alle peste degli ungulati! Un conoscente, che dalla Pala aveva tentato di scendere quasi a perpendicolo verso la Montejèla, si trovò a mal partito, poiché la scarpata opposta a quella di salita scivola nella valle con placche lisce, difficilmente superabili "senza avere le ali"! Avendola percorsa due volte e ricavatane una buona impressione, affermo che la traversata da Ra Valbones in Val Montejèla attraverso la Pala de ra Fedes è stata un’esperienza insolita e saporita, di quelle che restano impresse.