giovedì 25 marzo 2010

Ancora un bel libro di montagna, che merita di essere riletto dopo cent'anni

Antonio Berti, Le Dolomiti della Val Talagona e il Rifugio Padova in Prà di Toro, Tamari Montagna Edizioni - Padova, 2009, 96 pagine con 21 immagini in bianco e nero, € 25,00.

Il Rifugio Padova in Prà di Toro, nel territorio di Domegge di Cadore, fu aperto nel 1910 dalla Sezione del CAI di Padova nell’alta Val Talagona, in un bosco verdeggiante alle pendici della Cridola e degli Spalti di Toro. Distrutto da una valanga nel 1929, fu subito ricostruito in zona più sicura e dal 1951 si può raggiungere anche in automobile.
In occasione del centenario della struttura, il CAI patavino ha promosso la ristampa della prima, preziosa guida alpinistica delle cime che caratterizzano la Val Talagona. Edita dai fratelli Drucker a Padova nel 1910, l’opera fu la seconda fatica del giovane medico veneziano Antonio Berti, “papà degli alpinisti veneti” e cantore insuperato delle Dolomiti. In cento pagine Berti illustrò tutte le cime all’epoca esplorate della Val Talagona, che s’interna dal Cadore verso il Friuli e presenta un “fantastico complesso di campanili, di torri e di guglie, belle tra le più belle delle Dolomiti nella varietà delle loro forme, nell'arditezza della loro architettura, (complesso che) rimase avvolto dal più completo mistero fino a che - domati i colossi - l'alpinismo dolomitico si volse alle cime meno alte, ma più belle, più variate e più ardue."
Sulle montagne della valle hanno avuto luogo episodi famosi dell’alpinismo antico: dal Campanile Toro, visibile fin da Domegge, dove nel 1906 il “foresto” Tita Piaz compì una delle sue più dure imprese, al Cridola - fra Domegge e Forni di Sopra – conquistato nel 1884 da Julius Kugy di Trieste con “l’uomo dei seicento camosci”, la guida auronzana Pacifico Zandegiacomo Orsolina. Le montagne della Val Talagona sono un microcosmo a sè, in grado di attrarre alpinisti romantici, pronti a sfidare enormi fiumane detritiche, lunghi avvicinamenti, mari di mughi, sole a picco e talvolta nebbie impenetrabili.
Il volume, poi confluito nella guida delle Dolomiti Orientali che lo stesso Berti pubblicò nel 1928, viene riproposto oggi in gradevole veste anastatica e riporta agli occhi e alla mente l’alpinismo di un secolo fa. Un alpinismo di pochi eletti, fatto di ardimenti, coraggio, fantasia e piacere dell’ignoto, che ha contribuito a arricchire la storia del nostro Cadore.

Un bel libro di montagna, che vi consiglio di procurarvi

Paolo Bonetti, La storia del gruppo Rocciatori Ragni di Pieve di Cadore, Tiziano Edizioni - Pieve di Cadore, 2009, 173 pagine, foto in bianco e nero e a colori, € 20,00.

Bravo alpinista bolognese degli anni ’60 e ’70 che oggi risiede a Belluno, Paolo Bonetti sa come si parla di montagna. In questo volume, ravvivato da foto d’archivio spesso inedite, rivisita con garbata precisione un sessantennio di storia. è la storia di un gruppo di rocciatori nato a Pieve di Cadore nel secondo dopoguerra sul modello dei Ragni di Lecco, degli Scoiattoli di Cortina, dei Camosci di Auronzo, dei Catores di Ortisei. Un gruppo che ha scritto e continua a scrivere brillanti pagine di storia alpinistica, privilegiando le Dolomiti cadorine, ma girando anche il mondo.
Dalle pionieristiche avventure di Arturo, Camillo, Duilio, Italo, Piero, Renato, Roger e Ugo alle odierne perlustrazioni extraeuropee; dalla prima via nuova sul simbolico Campanile Toro alle realizzazioni moderne, che tendono sempre più in alto; dall’esplorazione delle lavagne più lisce e strapiombanti alla riscoperta di un alpinismo antico con i concatenamenti estivi e invernali sulle Marmarole, la storia dei Ragni riflette quella di tre generazioni di pievesi.
Vicende tessute di entusiasmi e paure, successi e delusioni, disgrazie e riconoscimenti, simili a quelle di altri gruppi ma uniche perché schiettamente cadorine. I Ragni, come i cugini ampezzani, gardenesi e lecchesi, hanno dalla loro parte il fatto di tenere duro da oltre sessant’anni, rinforzando sempre le file con giovani scalpitanti. Non si dedicano solo alla roccia pura, ma svolgono anche attività di soccorso, promuovono iniziative culturali, avviano i giovani alla montagna, scoprono e curano sempre nuove palestre di roccia. In ultima analisi, arricchiscono il territorio, dando a Pieve e al Cadore il “quid” in più, che può giovare ad attrarre valligiani e turisti e portare sulle vette chi non le conosce o non osa avvicinarvisi.
Storie e memorie di uomini e di montagne, dunque, e anche fervidi propositi per il futuro. Conoscendo tante delle cime amate dai Ragni e apprezzando la storia e la memoria dell’alpinismo dolomitico, ci fa piacere augurare ai ragazzi di Pieve il più cordiale Ad multos annos!

Non porta bene fare programmi a lunga scadenza, ma ...

Non porta bene fare programmi a lunga scadenza, ma - nel decennale dall'ultima di una lunga serie di salite, compiuta il 20 agosto 2000 con una giornata meravigliosa, stancante ma grande - siamo d'accordo con Silvana, Paolo, Adriano e Mirco, e magari anche Mario e Paola, di mettere piede su una montagna dolomitica che mi è sempre piaciuta, la Piccola Croda Rossa (m. 2859), fra Cortina e Braies. Se tutto andrà bene, il 24 e 25 luglio saremo là, previo pernottamento al Rifugio Biella, per goderci con tutta calma una grande cima.

Per chi ama la montagna, un pensiero stupendo del grande Samivel!

La debolezza ha paura di grandi spazi, la stupidità ha paura del silenzio. Aprite gli occhi e le orecchie, chiudete le radioline, niente rumore, niente grida niente clacson. Ascoltate la musica delle montagne!

Zacar de Radéschi, che nei camini strisciava come un gatto ...

A tutt’oggi, la guida alpina di Cortina scomparsa in età più avanzata è senz’altro Zaccaria Pompanin "Zacar de Radéschi", nato a Zuel il 26 agosto 1861 e deceduto il 22 marzo 1955, sulla soglia del novantaquattresimo anno. “Zacar” fu un protagonista attivo dell’alpinismo dolomitico del periodo d’oro: autorizzato a fare la guida nel 1892, esercitò la professione senza interruzioni per oltre tre decenni, appendendo la corda al chiodo nel 1926. L'età avanzata dev’essere un “vizio di famiglia” giacché, della numerosa prole del Pompanin, tre figlie hanno superato la soglia dei novant’anni: Maria è scomparsa a novantasei; Oliva ha raggiunto i novantacinque; Zita ha spento centodue candeline. L’impresa alpinistica più nota di “Zacar de Radéschi”, che fino al 1912 ne realizzò una quindicina di interessanti, è senz’altro il camino che lo ricorda, sulla parete nord della Croda da Lago. Questa via, aperta il 28/8/1895 con l’alpinista torinese Leone Sinigaglia e il collega Angelo Zangiacomi “Pizenin Zacheo”, offriva agli scalatori un bel camino di settanta metri d’altezza, che richiedeva una tecnica raffinata ed era molto di moda nell'epoca dell'esplorazione dolomitica. Penso che oggi gran parte di coloro che frequentano la montagna non sappia neppure dove sta di casa quel camino, che un secolo fa, insieme con altre rinomate ascensioni della zona, convogliava al Rifugio Barbaria (poi Reichenberger, poi Croda da Lago) sulle rive del Lago di Federa alpinisti da tutta l’Europa. Degli itinerari di “Zacar”, famoso perché nei camini strisciava come un gatto, forse un paio ricevono ancora qualche visita nelle belle stagioni. E’ l’inevitabile, amaro destino dell’alpinismo di una volta, che ormai richiede troppa fatica, sacrificio, rischio per essere gustato.

Alpinismo nelle Dolomiti d'Oltrepiave (conferenza tenuta al Circolo AUSER di Domegge, 24.03.2010)

Prima premessa. Sono convinto che la storia dell’alpinismo abbia un ruolo importante nell’ambito della storia generale. Tanto più per chi vive in montagna, e dovrebbe conoscere il territorio, per se stesso e anche per illustrarlo a chi lo vuole visitare. Eppure spesso la storia dell’alpinismo, che - prima di considerare le cime, considera gli uomini che vi sono saliti, vi hanno faticato e sofferto, talvolta vi sono morti – non viene presa sul serio.
Pubblicazioni sulle Dolomiti ce ne sono tante, ma le lacune non mancano. Se da un verso, le notizie sulla storia alpinistica di Cortina, Auronzo e delle zone turistiche più conosciute sono numerose, per una parte del Cadore, il Comelico e la Carnia c’è molto meno. A me piacerebbe un giorno leggere una storia dell’alpinismo da Cortina a Sappada, mi pare che sarebbe importante. Con il libro che dovrebbe seguire la mostra di San Vito e riguardare i pionieri della Valle del Boite, della Val d’Ansiei e di Calalzo, metteremo un mattone per scriverla.
Seconda premessa. Esisteva l'alpinismo, prima della salita sul Monte Bianco per opera di Paccard e Balmat, l'8 agosto 1786? Chi lo sa? Si può solo supporlo, confrontando quanto riportano dal 1500 in poi commentari, resoconti di viaggio, saggi scientifici non solo sulle Alpi ma anche sugli altri continenti. Fu il desiderio di elevarsi spiritualmente verso l'alto, per avvicinarsi agli dei? Fu la curiosità esplorativa e la volontà di conquista? Fu la necessità di sopravvivere, che spingeva ad inseguire le prede anche in luoghi abitati da draghi e mostri? Chissà quali furono i motivi per i quali, spesso temerariamente, si affrontava l'ignoto. I popoli antichi avevano già avuto occasione di sfidare le montagne, ma più per traversarle che per salirle: lo testimoniano storici greci e latini come Senofonte, Sallustio e Strabone. Le prime scalate di cui si ha notizia risalgono al Medioevo: Petrarca sul Ventoux (1336), Bonifacio Rotario d'Asti sul Rocciamelone (1358), Antoine de Ville sul Mont Aiguille (1492), Leonardo sul Momboso, forse Monte Rosa (1511), e via dicendo. Per le Dolomiti valgono gli stessi interrogativi: chi sarà salito su tante montagne cadorine prima del 19 settembre 1857, quando il botanico scozzese John Ball fu il primo ad ammirare il Cadore dalla cima del Pelmo, avviando così l’epoca “pionieristica” della conquista delle vette? E soprattutto, perché lo avrà fatto? Qualche cosa possiamo supporre, ma molte cose mancano. È uno stimolo per cercarle.
Sull'alpinismo in Cadore manca una storiografia esauriente, e ci sono due motivi per iniziarla. In previsione dei cento anni del Rifugio Padova, il CAI di quella città ha pubblicato da poco il prezioso “Le Dolomiti della Val Talagona”. Stampato nel 1910 dalla Tipografia Pozzato a Bassano a nome dei Fratelli Drucker, fu il secondo lavoro di un giovane medico veneziano, Antonio Berti, insuperato cantore delle Dolomiti e soprannominato “papà degli alpinisti veneti”. In 96 pagine con 21 fotografie Berti, che due anni prima aveva pubblicato la guida “Le Dolomiti del Cadore”, descrisse le cime e le vie fino allora tracciate in Val Talagona, che offre un “fantastico complesso di campanili, di torri e di guglie, belle tra le più belle delle Dolomiti nella varietà delle loro forme, nell'arditezza della loro architettura, (che) rimase avvolto dal più completo mistero fino a che - domati i colossi - l'alpinismo dolomitico si volse alle cime meno alte, ma più belle, più variate e più ardue." Il libro del 1910, ottimo esempio di guida sintetica ma completa, che fu poi utilizzata per “Le Dolomiti Orientali”, uscito nella collana “Guide dei Monti d’Italia” nel 1928 e ristampato tre volte, serve a farci conoscere il modello dell’andare per le montagne di un secolo fa.
Ai primi del Novecento, potevano dedicarsi all’alpinismo solo pochi fortunati, italiani e stranieri, che disponevano di molto tempo e di buone risorse economiche. Per esplorare le montagne, questi benestanti dovettero comunque metterci del loro: ardimento, coraggio, fantasia, piacere dell’ignoto. L'attività dei pionieri, molti dei quali sono rimasti nell'ombra, ha contribuito in maniera fondamentale ad arricchire la storia dell'alpinismo e del turismo in Cadore.
Secondo motivo, legato al primo il centenario del Rifugio Padova, primo ricovero delle Dolomiti d’Oltrepiave, costruito dal CAI di Padova nel Pra di Toro, alla fine della Val Talagona. L’iniziativa trovò subito grande entusiasmo, nei cadorini come negli appassionati di montagna provenienti da fuori. Alla festa d’inaugurazione del rifugio intervennero molte persone, e non mancò neppure la fanfara. Il fabbricato resistette per vent’anni: nel 1929 una valanga lo travolse, ma due stagioni dopo, grazie al lavoro volontario degli abitanti di Domegge, il rifugio - che stava dando un buon impulso al lancio turistico della zona – tornò di nuovo in funzione. Il Cai Padova lo ha condotto per ottant'anni, cedendolo tre anni fa al Comune di Domegge. Da allora è gestito dalla Sezione locale del Cai, e il gestore De Lorenzo si dà molto da fare per renderlo confortevole e farlo apprezzare a chi lo frequenta. Nonostante vi si possa salire in automobile, mi pare che al Padova ci sia ancora l’atmosfera dei rifugi di una volta, e spero che lo distingua a lungo.
Cito ora alcuni fatti di storia delle Dolomiti della Val Talagona, la porzione delle Dolomiti che si estende fra Pieve, Calalzo, Domegge e Lorenzago. Oltre al libro citato, ne abbiamo un altro che le descrive, ed è un valido sussidio, anche se un po’ datato, per conoscere la zona: “Dolomiti d’Oltrepiave”, iniziato dall’infaticabile Berti, pubblicato dal figlio Camillo nel 1961 e aggiornato nel 1982. Tornando indietro, nel 1910 Berti coniò il nome “Dolomiti della Val Talagona”, per descrivere i gruppi fra il Cadore, la Carnia e la Valcellina: il Cridola, gli Spalti di Toro e i Monfalconi. Le cime più importanti del primo gruppo sono il Cridola stesso, il Montanel, la Torre Cridola, il Miaron sopra la Mauria; ce ne sono poi altre che non elenco, anche perché gli alpinisti riescono a scoprirne sempre di nuove, battezzando anticime, cime secondarie o semplici spuntoni. Gli Spalti di Toro si dividono invece in tre rami: Vedorcia, Castellato e Toro, e comprendono il bellissimo trittico formato da Cima Cadin degli Elmi, Cima Cadin di Vedorcia e Cima Cadin di Toro; il Campanile Toro, che proporrei come simbolo di Domegge, e poi Punta Pia, Cima Emilia, Cima Both. I Monfalconi continuano gli Spalti di Toro verso il Friuli, e contano anch’essi numerose cime e torri, fra le quali posso ricordare Cima Giaf, Croda Cimoliana, Monfalcon di Cimoliana, Monfalcon di Forni. Per importanza storica e notorietà alpinistica, su tutti emerge il Campanile di Val Montanaia, la cui salita fa parte del curriculum di scalatori di tutto il mondo.
Credo che le guglie cadorine sulla sinistra orografica del Piave siano un mondo a sé, in grado di attrarre i romantici che non si spaventano davanti ad enormi ghiaioni, lunghi avvicinamenti, fitte distese di mughi e spesso nebbie che si tagliano col coltello. Quando furono scoperte dagli alpinisti, su queste montagne si viveva e si lavorava già da secoli. Nella fascia tra la Mauria e il Canal del Piave, le comunità del Centro Cadore possedevano molti boschi e pascoli, e gestivano decine di casere e malghe. Cito alla rinfusa il Casel de Montanel, quello de Vale, le Casere Laghet, Cavalet, Cercenà, Dalego, Malauce, Pra di Toro, Tamarì, Vedorcia, senza dimenticare tutti i fienili intorno ai paesi. In questa zona l’alpinismo di roccia inizia negli anni '80 dell’Ottocento, quindi un trentennio dopo la salita del Pelmo e quasi vent’anni dopo l'arrivo a Cortina dell’uomo che per primo comprese e descrisse il fascino delle Dolomiti Orientali: l’avvocato viennese Paul Grohmann, che fu il primo salitore delle tre Tofane, del Sorapis, del Cristallo, della Cima Grande di Lavaredo.
Le carrarecce e i sentieri che solcavano boschi e pascoli collegando casere, fienili e malghe (Berti ne cita 22, sul Col de le Saete, la Forca del Cridola, Forcella Scodavacca, Forcella Spe, sul Montanel, nella zona dei Romiti, in Val Anfela, Val Meluzzo, Val Talagona) sono generalmente antiche, e servivano ai valligiani per monticare il bestiame, trasportare la legna, cacciare, facilitare i contatti fra valle e valle. Chi le frequentava, conosceva il territorio a menadito, e non è escluso che alcune cime siano state salite da valligiani che certamente alpinisti non erano. Su vette come il Cadin degli Elmi, il Miaron, il Montanel si avventurarono cacciatori, pastori e topografi, ma abbiamo pochissime informazioni utili su quella fase, il cosiddetto prealpinismo.
La storia stabilisce che la prima salita alpinistica ufficiale nel Medio Cadore fu quella del Cimon del Froppa, la cima più alta delle Marmarole, compiuta il 19 ottobre 1867. La cima salita non è sicura, ma sono sicuri i salitori: il Capitano Giuseppe Somano e Giovanni Battista Toffoli “Tita Petoz”, guardaboschi e cacciatore che conosceva le montagne come le sue tasche, e fino alla fine dei suoi giorni (nel 1918) per esprimere il suo amore per le crode diceva “Le Marmarole le é mee!” Nel 1872, salendo la cresta NE del Cimon del Froppa con Baur, Treumann, Utterson Kelso e le guide Salcher, Siorpaes e Orsolina, De Falkner notò un ometto di sassi su un contrafforte del Cimon proteso verso NE. Anche se all'inizio del '900 “Tita Petoz” mostrò a Luisa Fanton la via per la quale sosteneva di essere passato trent’anni prima, il dubbio rimase e così il merito della conquista se lo attribuì De Falkner.
Per il Cridola e gli Spalti, invece, dobbiamo attendere il 4 agosto 1884. Quel giorno Julius Kugy, un goriziano benestante di genitori austriaci e vissuto a Trieste, tanto affezionato alle Alpi Giulie da salirne tutte le cime con le migliori guide dell'epoca e descriverle in alcuni bellissimi libri, tocca per primo con Pacifico Orsolina, guida d’Auronzo detto l’“uomo dei 600 camosci”, la cima della Cridola da E. Ho ripetuto per cinque volte la via, che offre la curiosità geologica dell’”uovo del Cridola”, un grande, stranissimo masso appoggiato su una cresta che sembra ribellarsi alla legge di gravità. Oggi, anche se la salita è segnata con bolli di vernice e non si oltrepassa mai il 2° grado, la via non è per niente banale. Lassù come su tante altre montagne, viene spontaneo ammirare l’intuito e la bravura degli avi. Limitati nell’attrezzatura e nella documentazione, ma dotati di mezzi fisici straordinari, coraggio e fantasia, riuscirono in imprese che oggi sembrano normali, ma all'epoca si consideravano del massimo livello, Teniamo anche conto che, il giorno prima, Kugy e la sua guida erano saliti sul Cimon del Froppa scoprendo un percorso nuovo, l’attuale via normale che nel primo tiro di corda oggi è facilitata da chiodi!
Nell’ultimo decennio dell’'800 e nel primo del '900, il Cridola, gli Spalti e i Monfalconi furono sottoposti a sistematiche esplorazioni, soprattutto per merito di turisti venuti dall’estero. Ricordiamo Steinitzer e Reschreiter, primi a descrivere le Dolomiti d’Oltrepiave, le guide Both (al quale è dedicata una torre sul Cridola) e Hechenbleikner, Hubel (che ha lasciato il suo nome sulla Torre Cridola) e Uhland, i membri della “Squadra della Scarpa Grossa” Von Glanvell, Von Saar e Domènigg, e poi Patera, Schuster, i triestini Cozzi e Zanutti, Bleier e Schroffenegger che nel 1913, con Umberto e Luisa Fanton, piantò senza successo i primi chiodi sugli strapiombi N del Campanile di Val Montanaia. Arrivati in Cadore, i pionieri mettevano la tenda nei valloni fra le cime e bivaccavano per giorni come in alberghetti d’alta quota, salendo e scendendo ogni cima possibile e utilizzando le giornate di maltempo per pianificare scalate e traversate da un crinale all’altro e compilare le prime cartine topografiche. Anteriormente alla Grande Guerra, momento nel quale terminerò questa chiacchierata, si mossero i primi alpinisti italiani; ricordiamo le guide Luigi e Alessandro Giordani a Claut, padre e figlio, Tita De Santa Barbe di Forni, i Fanton di Calalzo, Feruglio e Ferrucci di Udine, fino a Berti, così ammaliato da queste montagne che fino al 1909 vi aprì quattro vie e dedicò loro il volume che ho già citato. Mentre a Calalzo emersero fin da fine Ottocento diversi valenti rocciatori e guide (Toffoli, Bertagnin, De Carlo), credo che nei paesi vicini non siano mai sorti gruppi autonomi di guide o portatori autorizzati,
Un momento magico per le crode d’Oltrepiave è la conquista - nel 1902 - del Campanile di Val Montanaia, “il monte più illogico”, “la pietrificazione dell'urlo di un dannato”, “il Campanile più bello del mondo”. Della straordinaria guglia alta duecento metri, Berti scrive: “Strano, mostruoso e imponente, si leva, isolato nel centro del circo terminale della Val Montanaia, dritto, dalla larga fiumana di sassi e di ghiaie. Rassomiglia ad un vero campanile con una fedeltà meravigliosa. Sopra un fusto quadrangolare che si slancia dritto nell’aria per duecento e più metri, un ballatoio; sopra il ballatoio, una cuspide triangolare, alta ed aguzza. ..” I primi a tentarlo furono Cozzi e Zanutti, due triestini formatisi sulle brevi, ma dure pareti calcaree della Val Rosandra. Il 7 settembre giunsero ad un pulpito, superarono un’ostica fessura che ancora oggi ricorda Cozzi e lì si fermarono. La parete strapiombava, ed era troppo liscia per pensare di salirla coi mezzi del tempo. Il giorno dopo, mentre i triestini esploravano il Duranno, arrivarono Von Glanvell e Von Saar. Saliti sulla facile Cima Toro per scrutare il Campanile, videro sul pulpito l’ometto di Cozzi, binocolarono sulla parete sovrastante per assicurarsi che nessuno li avesse preceduti, e intuirono che forse si poteva passare. Scesi a Cimolais, nella locanda dove alloggiavano incontrarono anche i due triestini.
Complice una buona bottiglia, i carinziani memorizzarono l'ingenuo racconto dei colleghi, e andarono a coricarsi. Con la vittoria in pugno, tornarono il 17 settembre, per concludere una delle più brillanti imprese della storia dolomitica. Chiave della via, sopra la Fessura Cozzi, una traversata molto esposta, lunga quindici metri e larga cinquanta centimetri, che aggira lo spigolo e finisce in uno stretto camino, cui è rimasto il nome di Von Glanvell. Lungo la traversata, per la verità non estrema ma che corre a centocinquanta metri d’altezza come la grondaia di un tetto gigantesco, tanti anni fa uno spiritoso aveva inchiodato una targhetta staccata dal finestrino di una carrozza ferroviaria, sulla quale c'era scritto “È pericoloso sporgersi”.
Un altro fatto interessante per la Val Talagona accadde il 22 luglio 1903. Karl Berger di Innsbruck, che pochi anni prima con Otto Ampferer aveva salito il difficile Campanile Basso di Brenta e cadrà in guerra nel 1915, salì con Hechenbleikner il Campanile Toro, che Berti descrive così: “Si leva, meravigliosamente ardito, meravigliosamente bello, dritto come un obelisco, tra Forcella Le Corde e Forcella Cadin. La cima non è più ampia di un comune tavolo da salotto. Il Campanile, salito dall’O, per quanto interessante, non è così difficile come potrebbe far supporre la vertiginosità della sua forma: l’ultimo tratto richiede attenzione.” Il Campanile Toro si nota già dalla strada nazionale, nei pressi di Vallesella. Se lo conoscete, forse avrete presente come si vede dirigendosi dal Rifugio Padova verso la Val Cadin, dalla quale spunta come un’enorme lancia appuntita. Nel 1952, un gruppo di appassionati cadorini vi issò una campana, che è una simpatica tradizione far suonare quando si tocca la vetta, così piccola che ha posto solo per due persone. Sette anni fa, Domegge ha ricordato con alcune manifestazioni e la stampa di una cartolina il primo centenario della conquista. Quell’estate sul Campanile si registrarono oltre 160 salite, quando in precedenza (e anche adesso), se ne contavano una decina l’anno.
Sulla stessa guglia, famosa nel periodo d’oro dell’alpinismo e ritenuta da molti la più bella scalata nei pressi del Rifugio Padova, facendo così ombra ad altre cime importanti e meritevoli, si svolse un altro episodio memorabile. Premetto che nel 1906 gli Spalti erano stati scelti per una campagna esplorativa da una guida “foresta”, Tita Piaz, detto “il Diavolo delle Dolomiti” per il suo carattere burbero e infiammabile. Piaz era fassano, quindi tirolese, e non si accontentava di esplorare i monti di casa. Non era l’unico, e cito un altro personaggio importante. Il primo a salire il Duranno nel 1874 fu la guida Santo Siorpaes da Cortina, con il capitano Utterson Kelso. I due avevano visto il Duranno dalla piazza di Valle, e secondo me ebbero un gran fegato ad avventurarsi in una zona remota e selvaggia, frequentata solo dai pastori e cacciatori della Valcellina. Siorpaes maturò poi una certa passione per i monti “italiani”, e salì tre cime a Sappada, lo Schiara, il Pizzon, il Sasso di Bosconero. Tornando a Piaz, Tita portò con sé l’amico Bernhard Trier, e in tre diverse campagne realizzò un gran numero di salite, Campanile Olga, Campanile Domegge, Castellato da N, Pala Grande, Punta Pia, Cima Toro ecc.
La scalata di cui parlarono le cronache fu però la parete NE del Campanile Toro, compiuta il 21 settembre 1906. Piaz e Trier impiegarono quasi cinque ore per salirla, vincendo difficoltà valutate di 5° grado. Sul Campanile, disse la guida, “Lavorai per la prima volta coi mezzi artificiali”, cioè piantando chiodi.
Piaz fu protagonista di un altro simpatico aneddoto. Quando arrivò per la prima volta a Domegge, chiese subito agli abitanti qualche notizia sui luoghi che si vedevano dal paese. Per loro “la valle si chiama Toro, la cima si chiama Toro, la forcella si chiama Toro”. Piaz pensò allora di stabilire un bivacco in quota, per orientarsi ed esplorare le valli, le cime e le forcelle che i locali non sapevano distinguere. Reclutò una giovane per portare i bagagli e fare da cuoca, e un giorno volle portarla a cercare un passaggio fra la Val d’Arade e la Val Montanaia, che separa la Cima Both dal Monfalcon di Montanaia.
Il passaggio fu trovato, ma Piaz lo sconsigliò, perché se da un lato si sale con fatica ma senza difficoltà, per un vallone ghiaioso e un canale di neve, dall’altro un salto di 20 metri presenta qualche difficoltà per i visitatori non esperti. Scendendo per ultima dal salto, la ragazza implorò il sanguigno Piaz di girarsi dall’altra parte e non guardarla mentre lo raggiungeva. Non perché non se la cavasse su quelle rocce, ma perché sotto le cotole non portava le mutande! Alla forcella, dove in un secolo penso sia passata ben poca gente, rimane il nome di “Forcella Teresa”, in ricordo della ragazza che, senza nemmeno saperlo, entrò nella storia alpinistica degli Spalti di Toro.
Sino al 1910, il traffico di turisti in Centro Cadore e il ritardo accumulato nella conoscenza dei gruppi che lo coronano, erano condizionati dagli accessi lunghi e scomodi alle montagne. Per compiere escursioni, scalate, traversate sugli Spalti, Monfalconi e Cridola (ma anche sulla destra orografica del Piave) bisognava portarsi la tenda o appoggiarsi a casere di solito poco ospitali e pulite, Giaf, Meluzzo, Pra di Toro, Vale, Vedorcia.
Una spinta decisiva al turismo fu data dall’apertura a Calalzo dell'Hotel Belvedere, e soprattutto del Marmarole, che in breve diventò un punto d’appoggio famoso per gite e scalate. Grazie alla grande esperienza, i proprietari Augusto, Arturo, Luisa, Paolo, Teresa e Umberto Fanton - pionieri dell'alpinismo senza guida sulle Dolomiti e dell'industria alberghiera del Cadore - potevano dare a chiunque validi consigli e suggerimenti. Considerata la lontananza delle cime e i forti dislivelli da superare per salire dal fondovalle, divenne urgente il bisogno di avere un ricovero in quota, per spezzare gli avvicinamenti, invogliare a visitare la zona e qualificare la vocazione turistica del Centro Cadore.
Dopo approfondite verifiche, fu scelta la radura della Casera Pra di Toro, che distava tre ore a piedi da Calalzo e Domegge, tre ore e mezza da Pieve. La casera si raggiungeva con una mulattiera, ampliata e resa carrozzabile nel 1951, che risaliva la Val Talagona, rivestita da boschi di conifere. In Talagona non c’erano altre casere o malghe, e soltanto il torrente rompeva un gran silenzio. Chi la percorreva per portarsi sotto le crode, si accorgeva che la suggestione della valle aumentava man mano durante la salita, e i boschi preparavano uno scenario magnifico: cinquanta guglie, che si svelano bellissime arrivando in Pra di Toro. Vicino alla casera sorse il Rifugio Padova, voluto fermamente dal primo Presidente della sezione patavina Antonio Cattaneo, al quale quell’estate fu dedicata una punta che guarda la radura.
All'inizio del sentiero che della Val Cadin, conosciuto dagli scalatori perché costituisce l’ingresso al Campanile Toro, vicino alla Casera che conservò comunque la sua vocazione pastorale, l’ingegner Giuseppe Palatini di Pieve progettò gratuitamente il primo rifugio dell’Oltrepiave, seguendone poi con impegno la costruzione. Inaugurato il 14 agosto 1910, il rifugio aveva una pianta rettangolare di 7,50 per 9,90 m; i muri di pietrame si alzavano per 3,70 m, e l’interno era diviso in un piano terra e un primo piano meno ampio, con due stanze, una da otto letti per gli uomini, l’altra da quattro per le signore. A piano terra un’ampia stanza fungeva da tinello e cucina; c’erano altri quattro letti e un ripostiglio. Quasi tutti i locali erano rivestiti di legno, per mantenere una buona temperatura.
Per vent'anni il Padova è stato l'unico rifugio delle Dolomiti d’Oltrepiave; nel 1930 fu affiancato dal Pordenone nella friulana Val Meluzzo e soltanto nel 1947 dal Giaf, sul versante carnico del Cridola.
Al tempo dell’apertura del rifugio, la Val Talagona era già abbastanza conosciuta dai frequentatori della montagna, e numerosi alpinisti-scrittori, sia in Italia che all’estero, ne avevano decantato le bellezze. Sette anni dopo la conquista, il Campanile di Val Montanaia, che si raggiungeva dal Rifugio Padova dopo quattro ore di marcia passando per Forcella Montanaia, era stato salito 14 volte e ne era stata fatta tre volte la traversata, con la discesa a corda doppia per 34 m nel vuoto lungo la parete N, inaugurata dal vulcanico Tita Piaz il 28 luglio 1906. Nell’estate del 1903 erano tornati in cima per la terza ascensione i primi salitori, il trentaduenne Von Glanvell e il venticinquenne Von Saar, legati con Mary Von Luschin Ebengreuth, moglie di Glanvell, e Titty Angerer, futura consorte di Saar. Berti, che frequentava la zona da due stagioni, aveva già raccolto sufficiente materiale per compilare la prima guida alle valli, forcelle e cime della sua Val Talagona.
L'attività esplorativa sui monti del Centro Cadore proseguì fino a tutta l'estate 1914; protagonisti incontrastati furono sempre i fratelli Fanton, ma la storia fu segnata irrimediabilmente dalla scomparsa del più giovane dei sette, Umberto, quello che aveva osato tentare gli strapiombi N del Campanile di Val Montanaia. Umberto cadde con il suo aereo nei cieli del Grappa nel 1918: aveva ventotto anni, ma sulle vette cadorine aveva già aperto almeno cento nuove vie!
Al Padova il movimento degli scalatori, invece, si era già fermato il 3 ottobre 1913, dopo la conquista, per merito di Luisa e Umberto Fanton, Bleier e della guida Schroffenegger, della Torre Calalzo, ben visibile dall’Hotel Marmarole. Il chiodo sulla parete strapiombante della Torre, sotto la cima del Crodon di Scodavacca, è l’ultimo piantato dai pionieri sulle Dolomiti di Val Talagona.

lunedì 22 marzo 2010

Cinque morti sotto altrettante valanghe: è stato un inverno terribile in provincia!

I soccorritori hanno scavato per ore, e alla fine hanno rinvenuto ormai morto lo scialpinista veronese sepolto da una valanga venerdì scorso in tarda mattinata sul Col Bechei, in territorio comunale di Cortina ma presso il confine con Marebbe, in provincia di Bolzano. Lo scialpinista, veronese, si chiamava Mariano Innino e aveva 41 anni. I soccorritori lo hanno individuato solo perché, nella zona della disgrazia, emergeva un braccio dalla neve. In questa stagione è la quinta vittima di valanghe in provincia di Belluno. Innino era partito al mattino da Fiames con un compagno, ed aveva con sè l'Arva, lo strumento che consente di essere rintracciati in casi come questo, ma l'ampiezza della valanga non gli ha dato scampo. Secondo quanto comunicato dal CNSAS, i due stavano salendo per la Val di Fanes verso il Col Bechei, quando hanno deciso di accorciare l'itinerario portandosi sul versante sud, che guarda la Val d'Antruiles. Dopo essersi levati gli sci per proseguire con maggiore sicurezza, si sono affacciati su un anfiteatro. La valanga si è staccata a blocchi non appena iniziata la traversata dell'anfiteatro, trascinando il primo sciatore in un canalino e poi per 350 metri tra salti di roccia. Il compagno, il cinquantunenne Stefano Governo, sfiorato dalla slavina, ha lanciato l'allarme poco dopo mezzogiorno. Si è salvato perché ha fatto in tempo a ripararsi dietro un costone roccioso, cosicché la valanga l'ha solo lambito.

Primo giorno di primavera al Rifugio Baranci

Ieri, Iside e io abbiamo accolto la primavera salendo ad un rifugio che si potrebbe giudicare "poco escursionistico", poiché si trova al centro di un comprensorio di sci alpino, è molto grande e frequentato, ma a noi piace, perché la camminata per raggiungerlo è gradevole e non troppo lunga, e d'inverno troviamo sempre poca gente che vi sale a piedi. E' il Rifugio Baranci - Haunoldhuette, sopra San Candido. Il Rifugio sorge a 1499 metri d'altezza, in posizione panoramica su un promontorio del versante N della catena che dalla Cima Nove di Dobbiaco si estende fino alla Rocca dei Baranci. Da San Candido in quattro minuti vi si sale in seggiovia, ma noi andiamo sempre a piedi, dalla strada San Candido - Sesto. Ad un certo punto, un bivio a destra indica i Bagni di San Candido. Per una forestale poco ripida (ieri era molto ghiacciata, perché a quella quota la neve si trasforma in fretta e di notte fa ancora freddo) si giunge allo spettrale edificio dei Bagni, stazione termale abbandonata dopo la Grande Guerra. Qui merita una visita la vicina chiesetta di "San Salvatore ai Bagni", del 1594. Sempre per la forestale, si risale la Valle di Sotto, ai piedi della Rocca dei Baranci, per poco più di un chilometro. Ad un cartello su una steccionata, di solito lasciamo la strada per un sentiero nel bosco, pistato anche con la neve, che passa da un grande masso usato come palestra di roccia e in un'ora e qualche minuto dalla partenza porta al Rifugio. Lassù si mangia bene, il servizio è organizzato, veloce e cordiale, d'inverno l'atmosfera è animata da molti bambini ma nonostante tutto, a nostro parere, il luogo invita al relax. D'estate ci siamo passati per salire le soprastanti cime della Piccola Rocca e della Pausa Ganda, due mete escursionistiche molto consigliabili per l'ambiente, il panorama, la soddisfazione che dà la salita. Insomma, non volevamo fare pubblicità al Rifugio Baranci a San Candido, ma alla fine dovremo chiedere ai gestori la percentuale!