sabato 22 maggio 2010

Santo, Piero o Giovanni?

In “Wanderungen in den Dolomiten” di Theodor von Wundt, bel volume tradotto da Paola Berti De Nat in “Sulle Dolomiti d’Ampezzo” e edito alcuni anni fa dalla Cooperativa di Cortina, il capitolo che riguarda il Rauhkofel contiene la nota immagine di uno strapiombo con un alpinista intento a scendere a corda doppia e un altro intento a guardarlo. A mio giudizio la fotografia, scattata 117 anni orsono durante la traversata della cima, è al centro di un'imprecisione storica che perdura da tempo. Alcune pubblicazioni, i cui autori forse non lessero o non compresero il testo originale tedesco, identificano l’alpinista di destra nella guida Mansueto Barbaria Zuprian (1850-1932). Quello che scende a corda doppia sarebbe invece Santo Siorpaes Salvador (1832-1900), pioniere della scoperta delle Dolomiti. Il fatto è che Wundt non parla di Santo, ma del “Santobua”. “Bua”, soprannome ampezzano estinto, non è altro è la corruzione tirolese di “Bube” (ragazzo, moccioso), e nel testo il termine è reso con “il giovane Santo”. All'epoca della traversata, Siorpaes aveva 61 anni ed aveva chiuso l’epoca d’oro delle scalate, perciò "il giovane Santo" potrebbe anche non essere stato lui, ma uno dei figli: Pietro (1868-1953) o Giovanni Cesare (1869-1909), due ottime guide. Non vorrei mai defraudare Santo del piacere di un’eventuale impresa tardiva, che si aggiungerebbe a quelle del periodo migliore (1864-1882). Rilevo invece che spesso, nella ricerca storica, anche un termine frainteso può stravolgere fatti che agli alpinisti di roccia e di penna interessano da vicino. La traversata dalla Val di San Sigismondo alla Valfonda del Rauchkofel (prima salita alpinistica: Wenzel Eckerth, guida Michl Innerkofler, 2/7/1883), penso non abbia avuto molti seguaci, anche se l’ambiente è molto interessante. Eckerth l’aveva suggerita nel 1891 nel suo libro su “Il Gruppo del Monte Cristallo”: Wundt raccolse la sfida e la realizzò con successo, ma uno dei suoi compagni d’avventura forse non era quello che, leggendo male il tedesco, finora si è creduto.

giovedì 20 maggio 2010

Oliviero, solitario ardito

Nel 1981 morì a Bologna il professor Oliviero Olivo, cittadino felsineo di origini cadorine di Valle. Olivo è sepolto a Cortina, vicino alla moglie e al figlio Franco, caduto nel 1963 dalla Via Miriam della Torre Grande. Oltre che cattedratico nel campo della medicina, fu un ardito alpinista, perlopiù solitario. Fanno fede delle sue capacità alcune vie nuove in Dolomiti, realizzate tra il 1921 e il 1955 negli Spalti di Toro, Duranno e soprattutto Antelao e Marmarole, le cime di casa. Una via Olivo c’è anche a Cortina, ed è quella tracciata il 19 agosto 1923 sulla Punta Marietta, torrione di scarso valore alpinistico che sorge sul fianco E della Tofana de Rozes e guarda Forcella Fontananegra. Classificato di II, il percorso si tiene sul versante N della Punta e sale in vetta per roccia, in verità, non proprio ideale. Nel luglio 1994, rimasti a corto d’idee, gironzolammo anche intorno alla Marietta: dapprima per la via originaria (Műller, guide Angelo Zangiacomi Zacheo e Luigi Bernard), della quale ricorreva in quei giorni il centenario. Non avendola ben identificata, optammo per la Olivo. Nonostante avessimo scandagliato la Punta su ogni lato, ci riuscì difficile intuire anche la seconda via: tutto pareva così maledettamente ripido, umido e friabile, non era possibile che la salita si mantenesse nel ristretto ambito, a noi congeniale, del grado II della scala Welzenbach! Quando pensavamo di aver scovato l’attacco, ci preparammo e partii. Percorsi un tratto della sottile lista iniziale, che subito esce in piena esposizione, ma dopo dieci metri diedi un occhio in su, un occhio già preoccupato all’abisso sottostante e ... voltammo i tacchi. Ricordo che pensai: "... se quello era il secondo grado salito in solitaria dallo spericolato Oliviero settantun anni prima, chissà come saranno stati i suoi quarti sull’Antelao e sulle Marmarole ... "

Breve storia del "Riss"

Il 31 agosto 1932 è mercoledì, ed è una giornata piovosa. Tre guide alpine di Cortina fra le più in voga in quel periodo, i fratelli Angelo e Giuseppe Dimai Deo e Celso Degasper Meneguto, superano in due ore la marcata fessura che incide la parete orientale della Cima Sud della Torre Grande d’Averau, proprio a picco sul sottostante Rifugio Cinque Torri. Da quasi ottant'anni, la Via Dimai-Dimai-Degasper è più conosciuta come “Fessura Dimai” o, usando il corrispondente vocabolo tedesco, come “Riss”. Sono soltanto cento metri, ma sempre verticali ed esposti, con difficoltà valutate di V superiore. La Fessura viene subito apprezzata. Il 18 settembre, infatti, si registra la seconda salita, ad opera di tre illustri dolomitisti, Emilio Comici, Ernani Faé e Fosco Maraini. Le visite seguono poi a tamburo battente, da parte di alpinisti famosi e meno famosi. 45 giorni dopo la prima salita, la via contava già dieci ripetizioni. Piacque in maniera particolare a diversi rocciatori locali: fra le prime 50 salite, infatti, sette spettano alla guida Marino Bianchi, quattro a Giuseppe Dimai e Lino Lacedelli, tre ad Angelo Dimai, Piero Apollonio e Emilio Comici, due a Ignazio Dibona, Enrico Gaspari e Attilio Tissi. Fra tutte queste salite, che raggiungono la cinquantesima nel giugno 1946 e fra le quali emergono anche i nomi di Cassin, Del Torso, Devies, Mary Varale e Rudatis, mancano, stranamente, notizie di prime ascensioni solitarie od invernali. Chi scrive, nella lontana estate 1979, ebbe la fortuna di toccare la Cima Sud della Torre Grande dopo aver provato la roccia salda e verticale del “Riss”, e ricorda che quel giorno si sentì, almeno per una volta, un discreto scalatore.

mercoledì 19 maggio 2010

Le montagne negli occhi di Claudio Cima (100° post del 2010!!!)

Nel settembre 2005, nell'alveo di un fiume in secca a Scalon di Mel, fu scoperto il corpo di Claudio Cima, del quale da vari giorni nessuno aveva più notizie. L'amico era caduto da un dirupo, forse mentre era cercava funghi, e stranamente fu recuperato dopo otto giorni dalla scomparsa, a seguito di una ricerca inizialmente non facile. Noto nell’ambiente alpinistico provinciale e non solo, aveva un carattere particolare, che un po’ lo penalizzava nei rapporti umani. Ultimamente, aveva evidenziato autentica bravura nella pittura, e nello scrivere libri di montagna aveva dimostrato vaste conoscenze e competenze. Autore di numerose guide alpinistiche, aveva frequentato personaggi illustri, fra i quali Messner. Lo conoscevo dal 1991, da quando mi aveva contattato per lettera ed avevamo iniziato un fitto scambio d’idee e impressioni. Con lui compii due escursioni: l’ascensione del Sasso del Signore dal Lago di Braies (che Claudio non completò, dovendo rientrare in anticipo a Ferrara, dove ci ritrovammo nel pomeriggio) ed un anello invernale intorno a Ospitale, da Casera Tartana a Casera Valbona. Ogni volta che scendevo a Belluno, cercavo di farmi sentire, e comunque ci scambiavamo spesso scritti e telefonate, incentrate soltanto su questioni d’alpinismo, libri del settore e sulle crescenti difficoltà che uno spirito libero come il suo trovava nell’interfacciarsi con gli ambienti che lo avevano bandito. Oltre alle chiacchiere e ad alcuni libri, anche preziosi, che mi volle cedere, mi restano tre suoi quadri, che campeggiano in casa da qualche anno; ho sempre davanti agli occhi un Becco di Mezzodì quasi impressionista, ma anche un Collalto color di sogno ed un’enigmatica Torre Pian di Cengia, unica del trio che mi manca. Quando avrò occasione di salirla, penso che da lassù rivolgerò certamente un pensiero di simpatia all’amico Claudio, che troppo presto ha abbandonato questo mondo.

Povero Becco! Storia di quattro spits che non c'erano.

In una relazione, aggiornata al 21/6/2009, della via normale del Becco di Mezzodì, sulla quale trentacinque anni fa iniziò la mia passione per le rocce, mi ha colpito una novità. La relazione cita quattro spits di sosta, infissi al termine della prima e della terza cordata, la più impegnativa. "... Alcune soste sono attrezzate, chiodi di protezione sufficienti ..." è il giudizio finale dei relatori. Ora, non parlo di certo per me perché credo che, dopo la fuga estemporanea del 2005 in occasione dei trent'anni della mia prima salita, non vi salirò forse più. Lungi da me anche il criticare l'infissione di mezzi di sicurezza su vie alpinistiche (l'anno scorso il Becco ha fatto un altro morto), ma un po' mi dispiace che siano comparsi gli spits anche lassù, su una via che Berti giudicava di II (questa relazione la grada, più realisticamente, fino al IV) e dove certamente si riesce a sostare anche su protezioni veloci. Pur non essendo frequentata come un tempo, perché è lontana da ogni punto di partenza, la roccia è mediocre, la via non "fa grado" e la cima non è trendy, la normale del Becco (uno dei gioielli di Santo Siorpaes, che 138 anni fa la intuì e la percorse in scarpe chiodate col capitano Utterson Kelso), è stata già oggetto di esperimenti. Dalla decorazione con strisce di vernice verde in occasione del 200° delle Dolomiti, all'infissione nel camino di un chiodo cementato, che è utile ma più di uno non sa come evitare per non strapparsi la maglietta, agli ultimi spits. Tutto sommato, povero Becco!

martedì 18 maggio 2010

Scalate sui Brentoni: un ricordo di tanti anni fa

Cresta di Val d’Inferno: guglie e spuntoni dal nome severo, che separano il Cadore dalla Carnia e fanno parte della romita dorsale dei Brentoni - Castellati. Montagne fuori mano, di roccia spesso friabile, che riservano angoli ancora incorrotti, dove c’è ancora qualcosa da scoprire. Fra i pinnacoli risalta il secondo Torrione, di forme eleganti se non ardite, che vigila su Forcella Camporosso e sulle abetaie della Val Frison. Lo spigolo S è percorso da una via fra le più interessanti della dorsale, che ho salito due volte nell'ottobre 1985 e nel giugno 1986. L'avevano aperta l'8/6/1938 due grandi alpinisti, Ettore Castiglioni e Bruno Detassis, mentre lavoravano alla stesura della guida "Alpi Carniche". Non offre nulla di succulento dal punto di vista dell’arrampicata, ma la via Castiglioni - Detassis ha alcuni pregi che la rendono un piccolo gioiello, apprezzabile da chi ama un tipo di alpinismo ormai in via di estinzione. Per me fu bello salire al mattino verso lo spigolo dalla strada di Casera Razzo, attraverso Forcella Losco e Camporosso. Abituato ai monti di casa, vedevano panorami insoliti e originali: Carniche, Giulie e Dolomiti, che si offrivano in un rincorrersi di piani diversi, che avrebbe colpito anche l’osservatore più disincantato. Il silenzio riempiva l'altipiano; in autunno, l'epoca migliore per frequentare i Brentoni, è normale. Mi piacque poi salire la via in tranquillità, godendo ogni lunghezza: piccole rampe, brevi pareti, solidi diedri, una crestina esposta. Agognai lo stendermi al sole sulla vetta, frugando con gli occhi fra crode e forcelle, luminosissime in quelle giornate. Ero soddisfatto, quando scesi per la ripida via normale, fra roccette ed erbe pestate dai camosci, lasciando alle spalle la solitudine dell’altopiano. Valeva certamente la visita, il 2° Torrione della Cresta di Val d’Inferno, nei Brentoni. Una volta a valle, mi resi conto che avevo salito quello spigolo quasi sottovoce, per non rompere l’incanto di quella dorsale rocciosa. Ne era valsa la pena.

lunedì 17 maggio 2010

Le mie cime: diario di (oltre) quarant’anni

Non sono così avanti negli anni, né ho all’attivo imprese tali da indurmi a scrivere un’autobiografia. Non vivo di montagna né sono un recordman, quindi quello che ho da raccontare rientra nell’attività media di un semplice appassionato della propria valle e delle crode che le fanno corona.
Alcuni anni fa un paesano mi definì “un modesto escursionista”: al tempo mi risentii, oggi invece la definizione mi piace, e la sfrutto per ripensare spesso a tutti i vagabondaggi compiuti sui monti d’Ampezzo e ricostruirli con la fantasia.
Certo, non ho vissuto avventure epiche né ho collezionato prime salite, invernali e solitarie di rilievo, bivacchi nella tormenta. Sto soltanto camminando da anni per le montagne e, giunto nella fase in cui si tira qualche somma, mi piace farlo anche per l’attività alpinistica.
Il primo ricordo “alpino” è una passeggiata con i genitori lungo la strada sterrata che costeggia il Boite, di fronte all’aeroporto di Fiames (allora ancora attivo). Dal Ponte de ra Sia la strada porta alla Piencia dei Cazadore, gira e torna a Fiames. Oggi è un giro in voga soprattutto nelle sere estive, da fare a piedi o in bicicletta. Per un bimbo di cinque anni fu la scoperta del mondo alpestre, ancora ignoto.
Il mio primo “test” di valore fu la salita della ferrata della Punta Fiames, compiuta a nove anni. Di essa andai orgoglioso, perché mi parve di essere stato promosso di colpo uno scalatore. Sarà per quel motivo che in seguito ho ripercorso l’itinerario una cinquantina di volte e, potendo, lo rifarò ancora!
Immagino ora di partire dall’estremo S della conca d’Ampezzo e fare un giro a volo d’uccello, osservando le cime sotto i miei piedi e assegnando a molte un ricordo, una storia, una sensazione. Oggigiorno quest’espediente letterario è di moda: l’ha fatto Mauro Corona con le case di Erto, e a me piace poterlo applicare alle montagne.
Comincio dalle Rocchette, dove mio nonno affermava che il bosco nascondeva crepacci e che avventurarsi lassù da soli era pericoloso. Posso assicurare che non ho mai trovato crepacci, ma recessi dimenticati e selvaggi, dove si respira l’odore autentico della montagna. Mi mancano ancora due cime, regolarmente iscritte nel carnet degli appuntamenti futuri.
Becco di Mezzodì: fu la mia prima scalata a diciassette anni e anche l’ultima, trent’anni dopo. È una cima che ha segnato la storia dell’alpinismo, ma oggi è abbandonata.
Croda da Lago: per lei vale lo stesso discorso, perché ebbe notevole fama nell’800, ma oggi è deserta. Per arrivare ai suoi piedi c’è troppa strada, la roccia è quello che è, le difficoltà sono modeste e non è trendy. In ogni modo ne ho calcato la vetta più volte, e quelle occasioni mi restano nitidamente impresse.
Un posto a parte meritano l’ombroso ma facile Beco d’Aial, meta di tante passeggiate e ricordi, e la Cima Cason de Formin, con lo splendido “diedro del Naza”.
Cinque Torri: credo di avere dimostrato che le prediligo in modo particolare, giacché ho già dedicato loro molti articoli e tre libri. D’estate e d’inverno, sono salito tante volte su quelle cime, ancor oggi palestra di emozioni per schiere di appassionati.
Fra tutte, la torre che ricordo più spesso è la Trephor, quella che non c’è più, la torre “che volle morire” dove, volenti o nolenti, non potremo mai tornare. Non dimentico comunque la Gusela, l’Averau, la Croda Negra e il Becco Muraglia, alpinisticamente poco rilevante ma ricco di storia per Ampezzo e il Cadore.
Fanis: dal Sas de Stria al Valon Bianco, passando per la Torre Lagazuoi, la Cima del Lago, il Piz Lavarela, le Torri Falzarego e il Col dei Bos, ho spuntato dall’elenco un bel po’ di cime. La più bella in assolito? La Torre Fanis, avvolta da un silenzio assordante, dove i cordini di calata marciscono senza che vi si appenda tanta gente. Lode al grande Angelo Dibona che conquistò lo spigolo per il quale, quasi sessant'anni dopo, Enrico mi guidò in vetta, concretando una delle più belle avventure di gioventù.
Le pur maestose Tofane mi piacciono “un po’ meno”, forse perché sono addomesticate da funivie, seggiovie, piste di sci e c’è tanta gente sempre e dovunque. Questo però non vuol dire che le abbia escluse dalle mie gite, che oggi si rivolgono in prevalenza alle cenerentole, come il Col Rosà o i Tonde de Cianderou.
Per il Gruppo della Croda Rossa ho ereditato la passione di mio padre, e lo frequento con molta soddisfazione. Dopo la Muntejela de Senes, il Col de Ricegon, la Cima Cadin di Sennes, la Croda del Beco, la Piccola Croda Rossa, la Ponta del Pin, negli ultimi anni ho riscoperto le Lainores e la Croda de r’Ancona, mete di un escursionismo non scontato e soprattutto meno faticoso.
Nel gruppo c’è anche la mia “ultima Thule”. Sono le Ciadenes, o meglio il dosso alberato con due casematte dove sono salito circa trenta volte, solo e in compagnia, per passare una giornata tranquilla, in silenzio, a tu per tu con una natura malinconica che, dopo le intrusioni belliche, ha visto ben pochi interventi umani.
Un angolo di questo grande gruppo fra Ampezzo e la Pusteria che apprezzo molto è la zona del Col Bechei, dove si ergono due cime sempre appaganti: il Taé e il Taburlo, veri regni dei camosci e di un escursionismo faticoso ma di classe.
Delle venti elevazioni del Pomagagnon, me ne mancano tre, anch’esse debitamente iscritte nel carnet delle cose da fare. Dopo la “mia” Punta Fiames, sulla quale sarò salito forse settanta volte, assegno la medaglia d’argento alla Costa del Bartoldo con il suo diedro levigato che cala sui Casonate e la croce della vetta, dalla quale si schiude una panoramica meravigliosa su Cortina.
Negli ultimi tempi ho calcato diverse volte anche la cima della Punta della Croce e quella della piccola Pala Perosego, la cui sommità erbosa, sottile e malferma, costituisce un’autentica sfida all’equilibrio e alla mancanza di vertigini.
Nel gruppo del Cristallo, dopo le grandi cime del Cristallo stesso e del Piz Popena, ho frequentate molte sommità “minori”, dalla Punta Michele al Rauchkofel, dal Corno d’Angolo al Popena Basso, dove le vie di Mazzorana invitano ad arrampicare in un ambiente bucolico e paesaggisticamente affascinante.
Ricordo con piacere soprattutto la salita della Croda de Pousa Marza, una cima calcata da illustri alpinisti come Innerkofler, Eckerth, Casara, gli Scoiattoli Valleferro e Dallago, l’amico Claudio Cima e Luca Visentini.
L’anello è quasi chiuso: manca il Sorapis. Oltre alla cima principale, “il punto delle Dolomiti Orientali più vicino al cielo” secondo Berti, fra le cime che ho salito ritrovo le remote Tre Sorelle, la storica Punta Nera, la selvaggia Zesta, l’erbosa Cima di Marcoira. Ne restano alcune che non conosco, dall’arcana Cima di Valbona alla Croda Rotta.
A questo punto, potrei sconfinare in, Val Badia, Cadore, Comelico, Carnia e Pusteria, ma il giro sarebbe lungo e la penna correrebbe da sola, annoiando i lettori.
Se questa rapida e incompleta cavalcata fra le cime d’Ampezzo è parsa una vanteria, scendo subito a terra; altrimenti, nelle prossime occasioni, possiamo riprendere il volo e perlustrare altre vette, forcelle, valloni che ho battuto in tante belle giornate alpine, con fatica e sudore ma sempre con passione e voglia di conoscere.