sabato 26 gennaio 2008

Ricordo di mio padre, a dieci anni dalla scomparsa

Quest'estate saranno dieci anni che mio padre Giuseppe Majoni non c'è più. Vorrei dedicargli queste righe, a ricordo delle poche salite che gli fu possibile compiere in gioventù. Si destreggiò in roccia per un breve periodo e, visti i tempi, anche con onesti risultati. Conoscente ed amico di “Scoiattoli” e guide, non ebbe l'occasione prima e il tempo poi di fare di più in parete, giacché cinque anni della sua vita volarono via con la divisa addosso. Non si dispiacque comunque mai di non aver salito grandi vie, e andò in montagna per tutta la vita, amando i sentieri e i rifugi, soprattutto del gruppo della Croda Rossa, e comunicando a noi, prima piccoli incantati e poi più grandi saputelli, tante emozioni e scoperte giovanili. Anni fa trovai in casa varie immagini, risalenti ad escursioni degli anni a cavallo del 2° conflitto: d’inverno ai rifugi Sennes, Fodara e Fanes, d’estate sulle vie normali del Cristallo e della Marmolada, sulla Via Dimai-Verzi della Fiames, sulla Via Inglese della Tofana di Mezzo, sulla Via Miriam della Torre Grande. Mancavano quelle, se ce n’erano, di un’altra via nota ai pionieri e poi dimenticata, dove mi disse di aver provato a salire nel 1942: il “Camino Barbaria” sul Becco di Mezzodì. Il freddo e l’umidità dell'autunno, la stanchezza o chissà cos'altro, obbligarono i due giovani a desistere, e mio padre non tornò più sul Becco, all’epoca ricercato per alcune vie che offriva ed oggi messo da parte. Intorno al 1985, il nostro miglior periodo di roccia, a me e mio fratello era balenata l'idea di salire insieme la “paré” della Fiames, che, secondo il libro di vetta, mio padre aveva salito quattro volte tra il 1940 e il 1947, lasciandoci alcune fotografie risalenti al 1941. Chissà come sarebbe andata: sento che fu un vero peccato non aver realizzato la salita, nota ed amata da decine d’ampezzani, tra cui anche Giuseppe Majoni!

lunedì 21 gennaio 2008

Nel ventre del Castello: ipotesi archeologiche a Cortina

Da un amico studioso, ho saputo che a San Vito di Cadore si sta scavando per riportare alla luce i resti di una chiesa antica a Chiapuzza, dedicata a San Floriano. I risultati delle ricerche sembrano soddisfacenti, in questi anni in cui da Auronzo a Calalzo, da Pieve a San Vito, il Cadore sta schiudendo numerose finestre sul passato delle nostre comunità. Lo studioso si chiedeva però perché nessuno abbia mai pensato di avviare una campagna di studi archeologici anche sul nostro Castello di Botestagno. Edificato intorno al 1100 dal Patriarca d’Aquileia sulla rocca che strapiomba per un centinaio di metri verso il Ru Felizon, e cancellato definitivamente dalla topografia nel 1865, il Castello è un monumento fondamentale di storia ampezzana. Di esso sono già state scritte numerose e interessanti pagine, e lassù forse sarebbe utile avviare i primi studi archeologici su Cortina. Di fatto, escludendo le due monete trovate nel 1914 a Cadin, delle quali si ha solo una vaga notizia, finora la conca ampezzana non ha mai fornito grandi attrattive agli studiosi del passato remoto. Non potremmo includere anche l’archeologia, nei futuri programmi culturali da avviare in Ampezzo? Forse la rocca di Botestagno, che oggi svela solo scarsi e muti ruderi, avrebbe molto da raccontare sul tempo che fu.

1985: con Gianni e Paolo sulle Crode dei Longerin

(Ricordi della Via Bulfoni-D’Eredità sul Torrione Ezio Culino, 8.9.1985)

Accadde tanto tempo fa, una domenica di settembre. Ero arrivato ad A. da poco, non conoscevo quasi nessuno e mi fu consigliato di fare visita a Gianni che, come me, era un grande appassionato di montagna. Detto e fatto: recuperai uno zaino e un imbraco e l’indomani Gianni, Paolo ed io eravamo già in marcia … per tentare una via nuova. Avevo fatto molte salite, ma la via nuova era un’esperienza che ancora mi mancava. Ogni perplessità si sciolse, pensando che ero abbastanza allenato, che sette giorni prima avevo salito il famoso “Spigolo Dibona” delle Tre Cime di Lavaredo, e soprattutto che mi stavo affidando a due rocciatori navigati ed entusiasti. La via nuova non ci riuscì: dopo un paio di lunghezze, fummo bloccati da una parete così marcia che avrebbe richiesto fittoni più che chiodi, e a malincuore dovemmo rientrare alla base. Non era però tutto perduto: l’instancabile Gianni propose di consolarci, ripetendo una via del suo amico Marcello, su un torrione lì vicino. Dopo tanto cammino non potevamo certo sprecare la domenica, e quella via doveva essere piuttosto simpatica. La parete costituì un’esperienza senza infamia né lode: dopo quattro cordate ci slegammo, ed ognuno salì per suo conto sull’aguzzo torrione, che sorge al centro di un anfiteatro delizioso, al tempo a me ancora ignoto. Per alcuni minuti respirai a pieni polmoni la gioia della scalata, dell’ottima compagnia, del fatto che il mio “battesimo” alpinistico con gli amici di pianura si era svolto così in fretta e felicemente. La discesa fu quasi più complessa della salita, ma tutto andò come doveva e nel pomeriggio rientrammo allegri alla malga per il “tai” di rito. Ero al settimo cielo: avevo ripetuto una via di Marcello e proprio nel suo regno, le solitarie Crode dei Longerin. Sono tornato lassù diciassette anni dopo: il torrione sul quale Gianni e Paolo mi offrirono la loro corda e la loro amicizia per una bella salita in compagnia, mi è parso quasi familiare. Da allora sono trascorse molte stagioni, ma tutto sommato mi pare ancora ieri!