sabato 3 aprile 2010

Passi chiusi, passi aperti

Nell'84 e nell'87 salii con gli amici la via “Del Torso-Lezuo”, la meno impegnativa di una bella parete, quella S del Piz Ciavazes che guarda la Strada delle Dolomiti e si raggiunge dalla macchina in pochi minuti. Come tutti coloro che salgono quella parete, ricca di vie diventate uin mito nella storia dell'alpinismo (Micheluzzi, Rossi, Abram, Italia 61 ecc.), anche noi uscimmo disturbati dal continuo rombare di automobili e motociclette che passavano sul rettilineo sottostante. E' un peccato che rumori e odori pessimi rompano l'equilibrio di un pezzo di quello che l'UNESCO ha proclamato patrimonio dell'umanità. Il traffico sui passi dolomitici esiste da tempo ed è una questione complicata, perché interessa l'uomo e l'ambiente coinvolgendo regioni e province diverse e interessi vari. E' altrettanto sicuro che sta crescendo il movimento per contenere l'afflusso dei veicoli, che nel 2009 ha stabilito un record: in una sola giornata d'estate un contatore elettronico sul Passo Sella ha registrato il passaggio di oltre 5.000 veicoli. Il possibile divieto ai mezzi motorizzati è stato analizzato da Andrea Selva su Repubblica, che ha citato il Presidente della Giunta Provinciale trentina Lorenzo Dellai, la SAT, il Cai, l'Alpenverein e Reinhold Messner come promotori di iniziative per regolare il traffico. Le proposte vanno dall'istituzione di pedaggi alla chiusura dei passi in certe fasce orarie (soprattutto Pordoi, Sella, Gardena e Campolongo, ma non sarebbe male neppure Falzarego, Fedaia, Tre Croci), e Messner suggerisce di lasciare "spazio ai ciclisti e agli escursionisti, almeno durante le ore centrali della giornata, per esempio dalle 9 alle 15, per godere al massimo le bellezze naturali". Un giorno o l'altro, si dovrà fare qualcosa Forse non imporre medievali gabelle, forse meglio la fascia oraria suggerita da Messner, forse si dovrebbe convincere il turista che è il caso di usare di più e con intelligenza i mezzi pubblici. Non è impossibile. Per poter camminare in certe zone dell' Austria occorre lasciare l'automobile e prendere l'autobus, e nessuno si lamenta! Sicuramente, di questo sentiremo parlare per molto tempo ancora.

Aggiornamento della guida "Dolomiti Orientali" di Antonio Berti - 1^ parte

Con queste note inizio a proporre qualche spunto per l’eventuale aggiornamento o rifacimento della guida di Antonio Berti “Dolomiti Orientali”, più conosciuta come “il Berti”. Il primo volume della guida fu diviso in due tomi, il più corposo dei quali (il numero 1, 579 pp. ) riguarda le montagne d’Ampezzo, Badia, Braies, Pieve di Cadore e Auronzo. L’ultima edizione risale al 1971, e la pubblicazione si trova ancora in commercio, con la comoda, ma anonima copertina plastificata che ha svecchiato la “Guida dei Monti d’Italia”. Il volume dovrebbe essere integralmente rivisto, considerate le novità escursionistiche ed alpinistiche intervenute in quarant'anni e le nuove forme di godimento della montagna (canyoning, cascatismo, free climbing, rafting, sci alpinismo, sci estremo) introdotte fra le crode che Berti descrisse fin dall’inizio del ‘900. Prima di suggerire gli aggiornamenti, che proporrò in varie puntate a seconda delle fonti dalle quali sono stati tratti, è doveroso fare una precisazione. In un’eventuale riedizione del “Berti” e sulla cartografia che seguirà (in parte già conformata), sarebbe opportuno ripescare anzitutto i toponimi originari ladini o veneti. Si potrebbero così evitare etimologie scorrette tramandate da anni, dovute all’uso della cartografia militare e alla difficoltà d’instillare nei forestieri la conoscenza e l’uso dei dialetti locali. Il primo esempio che mi viene in mente, parlando della nostra toponomastica: a ottantadue anni dalla prima edizione del “Berti”, perdura l’errore sulla Val Montejèla, ai piedi della Croda Rossa d’Ampezzo, il cui nome è divenuto “Val Monticello”. Derivando da “monte/munt”, l'ampezzano “montejèla” (badiotto "muntejèla”)significa certamente “pascolo di ridotta estensione” e non “piccolo monte”, come proposto dalla pubblicistica e da tanta cartografia! Analogo discorso vale per le Muntejèles de Senes, de Fanes e d’Al Plan, sempre in zona. Tradotti addirittura Monte Sella di Sennes, di Fanes e di San Vigilio, i tre oronimi sono ormai entrati a far parte del patrimonio comune (anche del nostro …), ma penso che pochi ne conoscano l’origine corretta.

venerdì 2 aprile 2010

Ludwig Gillarduzzi, un prete alpinista

Qualche anno fa mi capitò per casa il diario alpinistico “... und immer wieder lockt der Berg”, pubblicato a Monaco nel 1958 (un libro che non ho ancora letto integralmente, considerata la prosa piuttosto impegnativa). Da allora raccolgo notizie sulla figura di Ludwig Gillarduzzi, sacerdote ed alpinista austriaco di chiare origini ampezzane, proveniente dalla famiglia dei Zandeache da Gilardon. Curiosando in Internet, ho scoperto che Don Gillarduzzi era nato ad Innsbruck il 22 settembre 1904. Parroco provvisorio a Schmirn dal 23 giugno al 12 agosto 1940, il 23 ottobre di quell’anno fu condannato a sei mesi di carcere, per “dichiarazioni politiche maliziose”, ed imprigionato ad Innsbruck. Nel libro di vetta rimasto sul Piz Popena dal 1910 al 1981, Gillarduzzi appose la sua firma il 22 agosto 1927, dopo essere salito in solitaria per la “Via Inglese” sulla cresta sud. Due giorni dopo, il suo nome compare nel libro di vetta della Punta Fiames, dove salì - sempre da solo la Via Dimai-Heath-Verzi sulla parete sud. Dalla guida “Alpi Aurine” di Fabio Cammelli e Werner Beikircher (1997), ricavo infine che durante l’estate 1958, già ultra cinquantenne, il sacerdote tracciò con un compagno una via di trecentosessanta metri di dislivello, con difficoltà di secondo e terzo grado, lungo la cresta nord-ovest della Punta Merbe-Merbspitze sui Monti di Predoi, definita “varia e interessante, la più meritevole per accedere alla cima” e forse ancora oggi frequentata da qualcuno. Chissà quante altre belle imprese ha realizzato questo singolare prete scalatore, che sicuramente conservò sempre un affetto per i monti della sua patria d’origine. Forse potrebbe essere interessante gustare la sua autobiografia, se qualcuno si prenderà la briga di tradurla in italiano.

mercoledì 31 marzo 2010

Vita e morte sul Becco di Mezzodì

Allì'inizio della scorsa stagione estiva provai un particolare senso di inquietudine, leggendo della caduta di un sessantacinquenne germanico dalla normale del Becco di Mezzodì. L'alpinista scivolò sulla parte finale della via, precipitando lungo il versante N, che - secondo le informazioni propinate dalla stampa - presentava "... ripidi salti di roccia innevati, a circa 2.300 metri di altitudine, 300 metri sotto la cima. " A parte il marchiano errore altimetrico, giacché l'attacco della normale, sul lato S, si trova a 2.450 metri circa, e trecento metri sotto la cima ci sono ghiaioni su entrambi i versanti, non salti di roccia innevati, al momento dell'incidente l'alpinista percorreva, slegato, con un connazionale la cresta che precede la cima, vicino al pilastro da dove iniziano le calate a corda doppia. Ho salito il Becco per la via normale, che gronda di storia, risalendo al 1872, almeno mezza dozzina di volte: l'ultima volta era il 14 luglio 2005, esattamente trent'anni dopo la prima visita. Di conseguenza, sono passato sei volte o forse più sulla cresta che precede la cima, vicino al pilastro da dove partono le doppie. La cresta non è difficile, ma friabile e un po' insidiosa; a mio parere, legarsi in cordata e piazzare anche una buona protezione non è certamente superfluo. Il Becco di Mezzodì, dunque, ha fatto un'altra vittima, dopo il mio professore di liceo Don Luigi "Pippo" Frasson (caduto il 23.VII.1992). Peccato: quella è proprio la "mia montagna", il teatro del battesimo in roccia di un sedicenne che già mangiava la dolomia con gli occhi, e mi piange il cuore pensare che lassù, sui quei centocinquanta metri di roccia un po' solida e pulita e un po' friabile e ghiaiosa, si possa anche morire. Ringrazio il cielo per la fortuna che mi è sempre stata data: poter godere la breve e divertente scalata con gli amici, e giungere sulla spianata della vetta per ammirare una visuale d'eccezione, respirando la storia che le rocce trasudano e infine tornare a casa contento.

martedì 30 marzo 2010

Una Piccola, grande cima

Nell’agosto 1981, salii per la prima volta una via normale dolomitica, quella della Cima Piccola di Lavaredo. All’amico Mario, che quell’anno mi seguì in diverse piacevoli scoperte, l'itinerario non parve granché: a me invece piacque molto, tanto che vi tornai alcune altre volte con gli amici. La via, tracciata dai fratelli Michel e Hans Innerkofler il 25 luglio 1881 e rettificata pochi anni dopo dai fratelli Zsigmondy, è un gioiello, se non sotto l'aspetto ”arrampicatorio”, almeno sotto quello storico. Alcuni passaggi sulla parete si attestano sul terzo grado, mentre il camino finale, ormai consunto da migliaia di passaggi, rasenta il quarto. La via quindi, pur essendo una “normale”, non è una soluzione proprio banale per salire la Piccola, che comunque accessi più facili non ne offre. Al tempo, si saliva e si scendeva slegati lungo il primo tratto della via, l’“avancorpo” che si vede dalla strada fra il Rifugio Auronzo e il Lavaredo, per non perdere tempo con le laboriose corde doppie che depositano poco lontano. Il resto della salita, oggi penso battuta perlopiù da chi scende da altre vie, presenta numerosi passaggi interessanti (la “traversata” immortalata nella fotografia di Wundt con Jeanne Immink in guanti e tenuta da cavallerizza, il diedro seguente, l’unto camino finale, che non è quello originale degli Innerkofler). Poi, l’arrivo sull’esile vetta: tre blocchi orizzontali appaiati, che sembrano quasi piallati a mano ... La sensazione che provai appollaiandomi lassù su quel terrazzo, la ricordo sempre con emozione. Sommando la salita e la lunga discesa a corda doppia, la Piccola non era certamente una gita da sottovalutare. Anch'essa mi diede ogni volta una grande soddisfazione, facendomi sentire pienamente partecipe del magico universo dolomitico.

lunedì 29 marzo 2010

Eremo dei Romiti al Monte Froppa, una piacevole scoperta

Riporto un componimento in ladino cadorino che l'amico Irlino ha dedicato all'Eremo dei Romiti sul Monte Froppa, nel Gruppo del Cridola, traguardo della nostra prima escursione in condizioni "estive" di questo 2010. L'eremo, ricostruito dal Comune di Domegge e riaperto pochi mesi orsono come piacevole rifugio alpino, sorge proprio di fronte al paese, sulla sommità dell'erto e boscoso Monte Froppa (m. 1167), dove nel 1720 un gruppo di frati guidati da Giovanni Maria Pinazza si ritirò in eremitaggio. Un sentiero piuttosto ripido e senza pause (434 m di dislivello), accompagnato da una Via Crucis, ci ha portato in poco più di un'ora in un posto che avevamo soltanto sentito nominare, consentendoci una gita breve ma ricca di storia e di spiritualità, in un circondario boscoso di bassa quota ed assai interessante. La discesa per il scivoloso "Troi de Maricona", che passa dal pascolo della bella Casera Malauce, ha consentito di chiudere un bell'anello, da tenere magari come alternativa per la bassa stagione, quando più in alto non si può andare a causa delle condizioni sfavorevoli. Da ultimo, voglio ringraziare l'ospitalità del gestore Livio De Bernardo, che ha accettato la sfida di vivere ai Romiti.
I Romiti (Irlino Doriguzzi Bozzo)
Chi che varda chel punto bianco da cadò/
no se imagina la pas che se ciata lassú./
È dura ciapà l troi dreto che và su/
ma na ota che te sos ruà, na zoca t invida a sentà do./
N silenzio tel cuor e ntorno duto scuerde,/
siento solo le ciantade dei uziei che se disperde./
Par no perde el vizio vardo do al Cador tel bordel/
ma nbota giro i goie e vardo su Montanel./
E pensà che bel tel milesetezento Fra Pinazza s era tirà cassú/
cuante al dí de incuoi golarae piantà duto e iení su./
Col tenpo chel punto da le piante ienirà scuerto/
però la dente no perdarà pi l orientamento./
Ma le foie de fagher che il vento ca e là remena/
me ricorda che calche nuvol sora la testa mena./
Ledier par avé s-ciareà el nervos cassù,/
ciapo danoo el troi a tornà do./