sabato 16 ottobre 2010

Ipotesi storico-toponomastiche sulla Punta Fraio della Croda da Lago

Tra le arcinote Dolomiti ampezzane svetta una cima con una certa possanza, che la guida Berti indica con un oronimo proprio e una quota altimetrica, 2611 m. Salvo smentite, non mi pare però che la cima possieda vie di salita: potrebbe essere ancora inviolata o non meritare rilevanza alpinistica. E' la Punta Fraio, appuntito pinnacolo sulla cresta che dalla Croda da Lago si allunga verso NW. Il toponimo è di origine ampezzana e allude al "soragnon de ciasa" di un ramo dei Ghedina, oggi rimasto in valle soltanto nel nome di un'azienda commerciale. “Fraio” dovrebbe riferirsi a due fratelli, guide del periodo pionieristico, di cui non circolano moltissime notizie: Eugenio (1857-1885), che svolse la professione per poco, scomparendo appena ventottenne, e Simone "Scimonuco" (1859-1931), guida dal 1882 al 1903. Propongo un'ipotesi personale ramificata in tre possibilità: che Eugenio e/o Simone abbiano individuato (magari anche salito) la punta durante un'ascensione alla Croda da Lago, dedicandola al loro casato? Che l'abbia individuata (e magari anche salita) Simone, dedicandola con un pensiero degno di onore, al fratello scomparso giovanissimo? Che l'abbia individuata o magari anche salita qualcun altro, dedicandola ad Eugenio Ghedina? Non saprei rispondere a questo quiz: non ho testimonianze documentali o verbali, i testi che ho verificato (esclusa la guida delle Dolomiti Orientali, la quale non cita la Punta, limitandosi ad segnarla sulla cartina topografica del gruppo della Croda da Lago) non ne parlano, e sarei lieto di poter asseverare una delle mie proposte, aggiungendo ancora un'altra tessera al mosaico della storia dell'alpinismo ampezzano. La Punta Fraio, campanile della cresta turriforme che fa da cornice a tante immagini e cartoline di Cortina, costituisce un piccolo mistero storico, vecchio di un secolo e più e ancora insoluto.

venerdì 15 ottobre 2010

Lo Zoo di pietra: i nomi delle Alpi, di Lorenza Russo

In ricordo di una bellissima salita sulla Croda de r'Ancona, 15/10/2006.

È la notte dei tempi quando l'uomo incontra le Alpi: il termine esatto è Paleolitico, l'antica età della pietra. Si tratta solo di primi contatti, di escursioni occasionali, sulle tracce degli animali, alla ricerca di piante e erbe salutari. Per una vera umanizzazione dell'immensa regione montuosa bisogna attendere altre decine di migliaia di anni ma, a ben vedere, ne vale la pena. Nel Mesolitico dunque, 10.000 anni fa, i ghiacciai, inquieti, dopo essersi estesi e poi arrestati a ondate alterne, si ritirano, sciogliendosi verso valle e alluvionando la pianura. Allora l'uomo si addentra nel territorio alpino, pressoché sconosciuto, lui nomade, affamato e curioso. Comincia a familiarizzare con l'ambiente, con i secoli lo abita, poi fa suoi i cicli della montagna, alleva capre e mucche, fila la lana, entrando così nel secondo millennio prima di Cristo. Trascorrono altri millenni e con l'avvento dell'alpeggio come pratica territoriale diffusa, nell'Alto Medioevo, il vincolo con la montagna si fa più intenso, trasformandosi in una consuetudine stagionale.
È stato osservato che nessun ambiente naturale esercita sui suoi abitanti una pressione così forte come quello montano: pressione fisica dovuta al clima, fissata nell'espressione "sopportare nove mesi di gelo per averne tre di freddo" -, alle catastrofi e alla povertà. Ma anche pressione mentale dovuta all'isolamento, alla lontananza dal paese più vicino, all'orizzonte sempre chiuso dalla stessa sagoma di montagne. L'oggettiva asprezza dei luoghi ha richiesto un adattamento pratico, ma altrettanto importante è stata la capacità di capire, di possedere dentro di sé lo spazio montano verticale per poterlo affrontare e vivere nel modo migliore. Solo l'invenzione di una "cultura" adeguata alle terre alte ha permesso agli uomini di abitarle, trasformando le primissime escursioni di pastori nomadi in una convivenza permanente. Per secoli la sola montagna interessante è stata la monte, cioè l'alpeggio cui, nella buona stagione, gli uomini salivano con le loro greggi per restarci fino all'autunno. Animali e uomini. Uomini e animali. Animali e uomini. Ma monti niente. Non erano oggetto del loro interesse. Quasi non li vedevano. Nessun divieto, è ovvio, proibiva ai montanari - pastori di un tempo di guardare le pareti, almeno nessun divieto esterno. Forse un impedimento interno. Vale la pena di ricordare che il Monte Bianco, la massima vetta delle Alpi, è stata avvistata solo intorno alla metà del Settecento e conquistata trent'anni più tardi. Cercando di spiegarsi le ragioni di una scoperta così tardiva e tanto più sorprendente quanto imponente e visibile era, per esempio dalla valle di Chamonix, il colosso di ghiaccio e di neve, Charles Durier, storico-alpinista e autore della prima monografia su questa cima, nelle prime pagine scrive: "Come mai alla fine è stata notata? cos'è accaduto? Se sicuramente non è stata la montagna a muoversi, allora sarà lo spirito umano che si è messo in movimento per andare verso di essa". Il caso del Monte Bianco è eccezionale ma lo stesso discorso, con un lieve anticipo - inizio del secolo XVIII, vale per le altre montagne, alte o basse, in ogni modo incombenti: il piccolo uomo davanti all'immensa catena ha avuto bisogno di tempi lunghi per appropriarsene con lo sguardo e con il pensiero, per sentirla come spazio familiare. Quando ha potuto farlo, l'uomo alpino si è appropriato delle Alpi con i nomi: riflesso e risultato della percezione e della comprensione dell'ambiente, creati e scelti per distinguere le cime, oggi riflettono ancora un mondo di idee, l'esperienza quotidiana delle vette ignote, l'immagine che giorno dopo giorno si erano fatti di quelle rocce amiche - nemiche, di quella presenza sovrastante e costante. Questi nomi sono l'espressione più intima del processo di antropizzazione. Se ogni insediamento dà luogo ad un'interiorizzazione del territorio e la casa alpina è una proiezione della persona, non diversamente, credo, scegliere di dare il nome ad una cima implica un rapporto di intimo possesso con questa. I montanari hanno dato un nome alle "loro" montagne solo quando hanno sentito di possederle (1) e lo hanno fatto in un modo particolare, proiettando in esse, attraverso la mediazione simbolica dei nomi, sé stessi e il proprio mondo, le forme del proprio corpo - quante teste, dita, gole, colli... -, ma soprattutto gli animali con cui trascorrevano gran parte della giornata, le mucche, le capre, i galli...
La vita dell'uomo alpino, regolata dai ritmi dell'alpeggio, alterna lunghi mesi in fondovalle all'estate sui pascoli alti: intorno alla solita cerchia di montagne disegna una linea tormentata ai confini del cielo. Ormai l'uomo quelle montagne le conosce, le vede ogni giorno, ma una sera al tramonto, con il sole alle spalle, i contorni dell'orizzonte sono più nitidi e il profilo della roccia si staglia sull'azzurro limpido e scuro: il profilo, sì, come fosse una persona o un animale. Quasi per gioco prova a sostituire, con lo sguardo, porzioni di roccia con parti del corpo animale o con parti del suo corpo: ecco, che, allora quello spunzone diventa un dente o un becco, quella montagna a punta gli ricorda il corno di una delle sue mucche, quella dorsale frastagliata al confine con l'aria è una cresta, non troppo diversa da quella del gallo che gli fa iniziare le giornate. Il gioco funziona. E non solo perché le somiglianze si trovano facilmente, basta un po' di fantasia, ma perché lo aiuta a vedere le montagne in modo diverso. La metafora, animale o umana, agisce in due sensi: innanzitutto trasforma una cosa in un’altra, una montagna che fa paura, cui si deve guardare con rispetto, nelle forme di un corpo vivente, note e rassicuranti. Ma stabilendo un rapporto di somiglianza tra i suoi animali e le montagne, l'uomo alpino ottiene anche un secondo risultato: annulla la differenza, indiscutibile, di dimensioni. Di fronte alle pareti immense non è che un piccolo punto, ma se le vede in una prospettiva diversa, riconoscendoci figure corporee, allora le cime gli sembrano più basse, meno imponenti, meno opprimenti. La sua visione si trasforma in linguaggio e alle montagne vien dato un nome. Questi nomi ci raccontano un pensiero. Chissà per quanto tempo gli uomini hanno osservato le montagne prima di trovare una chiave di lettura, prima di vederci i loro galli, le mucche, i cavalli, prima di poterci "giocare": gli Sherpa dicono che il primo gioco da praticare in montagna è quello di stare al gioco della montagna, luogo metaforico per eccellenza. Gli uomini delle Alpi sono riusciti a farlo. Vedere figure animali nelle montagne quotidiane, ma pur sempre ostili, ha risposto alla loro esigenza inconscia di renderle benevole per non subirne la smisurata grandezza e per poterci convivere serenamente. In epoca medievale la cultura alpina aveva popolato le Alpi di esseri soprannaturali e fantastici, di mostri alati nascosti nelle caverne o sul fondo dei laghi. Queste creature, materializzazione di angosce ancestrali, "vivevano" ancora nel Settecento se il medico, naturalista e gran viaggiatore alpino, Johann Jacob Scheuchzer nel suo Itinera per Helvetiae alpinas regiones del 1723 poté censire e illustrare con belle incisioni tutti i draghi della Svizzera. Un bestiario favoloso, basilischi che pietrificano con lo sguardo, serpenti alati o con due paia di piedi e altri mostri. Da sempre sede degli dei, luogo sacro, spazio negato all'uomo, sfera ignota e lontana, irraggiungibile e intoccabile, la montagna era carica di insidie, era lei stessa un grande mostro pronto a dare una zampata. Ma i nomi delle montagne nascono ancora più tardi, nell'Ottocento, quando forse questi animali fantastici non ci sono più o fanno meno paura: gli animali che allora i montanari vedranno nelle cime rocciose sono ben diversi, non hanno nulla di mostruoso. Galli, cavalli, capre, mucche. Sono assolutamente innocui, anzi sono utili e giorno dopo giorno, nei secoli, sono diventati una grande compagnia, la sola compagnia. L'attenzione e la cura per gli animali, il desiderio di proteggerli da malattie (l'afta epizootica, soprattutto), dal morso di vipera o da attacchi demoniaci è confermata anche dalle pratiche magiche pagane, poi fuse con quelle del Cristianesimo, tuttora vive in alpeggi della Svizzera centrale. Tra offerte e altre invocazioni si ricordano preghiere intonate al tramonto e urlate dentro gli imbuti per il latte - megafoni rudimentali - perché le disgrazie venissero allontanate fin dove arrivava la voce; oppure l'usanza di aspergere il bestiame con acqua benedetta il giorno dell'Epifania. Ma processioni religiose all'inizio e alla fine della stagione dell'alpeggio sono diffuse pure negli altri settori della catena. E la benedizione dei pascoli e delle bestie da parte del prete, salito apposta dal paese di fondovalle, è una pratica solo da poco dimenticata. La consuetudine con gli animali al pascolo iniziava per gli uomini fin dalla giovinezza: tra i pochissimi giocattoli dei bambini sono stati trovati pezzetti cilindrici di legno, ancora ricoperti di corteccia, e intagliati ad un'estremità a raffigurare una mucca o una capra con le corna. I ragazzini radunavano queste modeste statuine in recinti in miniatura, come avveniva all'alpeggio con le mucche vere. Proprio a questi animali, il loro bene più prezioso, i montanari hanno pensato quando hanno scelto di dare i nomi alle montagne, quando con le montagne hanno potuto "giocare". Forse le hanno guardate con gli occhi disincantati dei bambini, per i quali avevano intagliato quei giocattoli, e ci hanno rivisto le forme che per loro avevano riprodotto nel legno.
Oltre a pecore, capre, mucche e vitelli venivano e vengono alpeggiati i cavalli, usati anche come bestie da tiro. Quanti "Monte Cavallo", soprattutto nelle più morbide Alpi orientali, dove le rocce levigate assumono le forme più varie e più variamente interpretabili? Dalle metafore equine a quelle bovine e caprine: le corna di capre e mucche ritornano in tante cime affusolate e appuntite. Due esempi per tutti - e sono tanti-: il Monte Corno che dà il nome a tutto il Parco Naturale nei pressi di Cavalese in Trentino e la denominazione svizzera del Cervino, il Matterhorn cioè il "corno sul prato". Queste corna sono ben note ai montanari- pastori che se sono sempre serviti per fabbricare rudimentali strumenti a fiato: la musica delle Alpi è sempre stata soprattutto la musica all'aria aperta dei pastori. Serviva a chiamarsi da lontano, a calmare gli animali, ad allontanare gli spiriti maligni e ad attirare quelli buoni; allietava i momenti di riposo e faceva dimenticare la fatica e la durezza della vita di ogni giorno. Quindi tutti questi corni di roccia nei nomi delle Alpi hanno, per così dire, una duplice motivazione: sono parti del corpo degli animali con cui i pastori hanno a che fare ogni giorno, ma sono pure degli oggetti con una valenza molto positiva. A sentire parlare di corna di animali in montagna verrebbe subito da pensare a quelle piccole e appuntite dei camosci, a quelle tornite e pesanti degli stambecchi o al palco maestoso del cervo maschio: invece i montanari hanno inteso quelle delle mucche. Se le popolazioni alpine preistoriche per procurarsi il cibo dovevano ricorrere alla caccia, già nel Medioevo questo non era più necessario in quanto l'allevamento procurava carne a sufficienza. Fatta eccezione per i periodi di grave carestia, la caccia sarebbe rimasta espressione di abilità, mezzo di affermazione e di prestigio sociale: la figura di Guglielmo Tell, leggendario eroe svizzero, con l'immancabile balestra, sarebbe diventata uno stereotipo alpino. Ma se i montanari hanno pensato agli animali che facevano pascolare piuttosto che a quelli che stanavano nelle gole rocciose o nei boschi fitti, questo è accaduto non solo perché la caccia, nell'epoca in cui hanno scelto i nomi, era diventata meno importante, ma perché avevano bisogno di rivedere nelle montagne forme consuete e rassicuranti, di animali preziosi e familiari, insomma di animali non montani.
Tra gli animali presenti fuori dell’abitazione di fondovalle del montanaro il gallo ha avuto e ha un posto di rilievo. E con il gallo le galline. La carne di pollo è sempre stata tenuta in grande considerazione perché veniva riservata ai malati, essendo più leggera e digeribile di quella di manzo. Caratteristica del gallo - animale spesso presente anche sulle cime dei campanili delle chiese di montagna - è la sua cresta, rossa e seghettata. Quante volte i montanari l'hanno rivista sul bordo estremo delle montagne, sulle frange di roccia ai limiti del cielo? Così tante che è la parola è entrata nell'uso comune a indicare la linea di congiungimento di due opposti versanti: la cresta del Monte Bianco, della Tofana e così via.
E del gallo i montanari "usano" anche il becco, per definire certe cime appuntite: se per gli abitanti di Zermatt è il "corno sul prato", per la gente di Valtournenche il Cervino è la Gran Becca, il rostro immenso di un fantastico volatile giurassico, ma gli esempi davvero non si contano, dal dolomitico Becco di Mezzodì alla Becca di Nona della Val d'Aosta, al Bec a l'oiseau sul Monte Bianco molti altri becchi sono rivolti verso il cielo. Ecco che le montagne diventano enormi volatili, sembrano meno inaccessibili, o almeno non vengono più percepite in tal modo, come luoghi sacri negati all'uomo: paragonando porzioni di monte a parti del corpo animale la gente perde quella soggezione ancestrale e quasi le addomestica, familiarizza con esse, muovendo un primissimo passo verso l'alpinismo. Le Alpi offrono molti esempi di uccelli di roccia, sono un’enorme voliera pietrificata, ma la trasfigurazione assoluta, forse la più perfetta, è nelle Dolomiti orientali: sopra il Lago di Alleghe dispiega le sue ali immense dal piumaggio screziato la bellissima Civetta. La metafora è ancora più notevole se si pensa che questo rapace, nella realtà, è poco più grande di una mano, insomma non è l'aquila reale: in queste metafore davvero la differenza di dimensioni non conta più: scegliendo termini di paragone di esigue dimensioni gli uomini rimpiccioliscono le montagne. L'enorme muraglia striata che chiude a sud l'orizzonte di Caprile è sempre maestosa, ma diventa più piccola, più umana.
Rispetto alle Alpi occidentali, più massicce e meno frastagliate, le Dolomiti si sono prestate meglio a questo gioco di trasformazioni, con le loro forme diverse, le torri, i pinnacoli, le gobbe e i seni, vera e propria plastilina per la fantasia dei montanari. L'abitante dell'Oberland, comunque, ha pensato, ha visto le stesse cose del montanaro delle Dolomiti e pur senza essersi mai incontrati, ai due estremi del "continente Alpi" hanno scelto di usare nomi concettualmente uguali. Perché la montagna che avevano davanti era, ed è, una sola, una montagna che ha fatto paura e preteso rispetto per secoli. La scelta di certi nomi "animali" (e antropomorfi) è arrivata quando la coltre di paura si era dissolta, ma forse è stata proprio la causa di questo rasserenamento. Ha allentato la tensione, lasciando il posto ad una visione più positiva e distesa di quelle montagne enormi.
Riuscire a guardare un problema con occhi diversi a volte può voler dire risolverlo.

NOTE

(1) I nomi delle Alpi compaiono tardi e lo spazio alpino resta pressoché anonimo fino in epoca altomedievale quando vengono denominate le zone fertili, e quindi utili, e i corsi d'acqua, elemento indispensabile. Bisogna aspettare l'Ottocento, e volte non basta neppure, per una maggiore ricchezza e precisione toponomastica.

(2) Nel caso di nomi di montagna che ripetono nomi di animali al pascolo si deve tener presente, però, che spesso certe denominazioni possono ricordare la presenza, nella zona, di questi stessi animali, senza avere alcun valore metaforico: per esempio l'Agnèr, una cima dolomitica tra Agordo e Belluno, non ha la forma di un agnello o di una sua parte, ma sulle sue pendici per secoli la gente ha fatto pascolare gli ovini.



giovedì 14 ottobre 2010

14 ottobre 1995: si va sul Becco!

Sabato 14 ottobre 1995. Approfittando di un'incredibile serie di fine settimana di bel tempo, cominciata il 2 settembre e che durerà ancora fino al 29 ottobre (lo ricavo dai miei diari), ho preso accordi con tre amici per una salita: la via normale del Becco di Mezzodì. La conosco bene: vent’anni fa fu il mio esordio nell’arrampicata, e dopo di allora l’ho salita altre volte, traendone sempre sensazioni ed emozioni d'altri tempi. Anche stavolta l’approccio al Becco, notoriamente non breve se fatto tutto a piedi, lo iniziamo dalla strada del Giau, all’altezza di Capanna Ravà. Ci vorrà un paio d'ore per giungere ai piedi della parete SW della “Ziéta”, dove si svolge la normale. Sarà una splendida camminata, dapprima ombreggiata e molto fresca, poi ingentilita dal caldo sole di una memorabile giornata d’autunno. La salita della via ha poca storia. Sono in testa alle cordate e salgo con calma, godendo i singoli passaggi e piazzando qualche rinvio in più dove penso che occorra: in poco meno di un’ora siamo in vetta. Il cielo è di un blu tanto intenso che pare dipinto, il sole scalda parecchio, siamo un po' stanchi e sostiamo sulla sommità per almeno un’altra ora, mangiando e riposando. Dall’alto si sente il generatore del Rifugio in funzione, il che fa pensare che il “Croda da Lago” sia ancora aperto. Scendiamo veloci con due provvidenziali doppie, paghi di aver salito (per i tre amici è la prima volta) la simpatica normale del Becco, con la quale nel 1872 Siorpaes e Utterson Kelso rivelarono al mondo il romantico gruppo della Croda da Lago. Ci portiamo in fretta da Modesto al Rifugio, dove è d’obbligo la birra, e qui trovo l’amica Lorenza, in zona per ricerche sui suoi prediletti toponimi. Quando arriviamo al Ponte di Rocurto è già quasi buio, ed è giocoforza risalire lungo la strada fino a Capanna Ravà per recuperare le macchine. Possiamo dire di aver trascorso un'altra giornata piena, e non immagino di certo che mi ci vorranno altri dieci anni per risalire sul Becco di Mezzodì, la mia prima montagna, il mio primo contatto con l’arrampicata nelle Dolomiti.

mercoledì 13 ottobre 2010

Ahi ahi ahi, caro Viktor ...

In diverse occasioni mi è occorso di intraprendere con entusiasmo la visita a cime poco note nei dintorni di casa, confidando su relazioni il più delle volte terribilmente obsolete, e di tornare a casa con le pive nel sacco per non aver trovato l’attacco, aver frainteso lo sviluppo degli itinerari, aver riscontrato difficoltà inaspettate dovute a modifiche morfologiche che al relatore della via erano ovviamente ignote. Ricordo bene il tentativo di ripetere l’itinerario, aperto dalla nota “Squadra della Scarpa Grossa” di Viktor Wolf von Glanvell nell'estate 1899, per la prima salita della Cima Campestrin N, che insieme all’adiacente Cima Campestrin S rappresenta l'angolo forse più remoto del Gruppo di Fanes. Seguendo la descrizione del “Berti” (forse compilata ancora da Glanvell), quel giorno prendemmo una solenne cantonata. Secondo la descrizione pareva che, tra l’Armentarola e l’Alpe di Fanes, all’altezza del Plan de Ciaulunch, dovessimo risalire il potente e friabilissimo ghiaione che sostiene il castello della cima. Da qui, per una serie di camini e cenge valutati di I o poco più, si sarebbe potuto raggiungere la vetta, che - secondo il caro amico Claudio Cima, alpinista e scrittore scomparso nel 2005 – un secolo dopo la conquista era stata salita sì e no 2-3 volte. Eravamo i soliti quattro, era un giorno caldissimo di agosto: giunti spossati alla sommità del bestiale pendio detritico che dalla Cima scende verso la Val Badia, due rinunciarono alla vetta accomodandosi in un anfratto sotto alcuni massi, e gli altri due, con il fido “Berti” in mano, cercarono la via degli austriaci. Ansimando e ponendosi mille dubbi, gli intrepidi superarono senza alcun'attrezzatura un lungo camino con difficoltà forse superiori a quelle previste, che scaricava senza posa. Quando l’ennesima frana sfuggì loro sotto i piedi puntando diritta ai due rinunciatari, pensammo che forse il caro Viktor non era passato proprio di là, che forse il camino era un altro, che forse una via così infida non poteva essere solo di I e deliberammo all'unanimità che era meglio lasciar correre.

martedì 12 ottobre 2010

5 x Cridola

Una via normale gradevole, che ha il pregio di tenersi un po’ al margine del circuito dolomitico, ritengo sia quella del Cridola, castello roccioso che domina l’Oltrepiave, a cavallo fra Lorenzago e Forni di Sopra. La via, segnata con bolli rossi che si palesano indispensabili in caso di maltempo, sale dall’angusta Tacca del Cridola, faticosamente raggiungibile dal Rifugio Padova o dal Rifugio Giaf attraverso Forcella Scodavacca. Salire dal Cadore all’attacco è già una bella galoppata, se non altro per i 1000 m di dislivello che si devono coprire, di cui un quarto lungo un canale di detriti instabili e faticosi. Fatto questo, restano 300 m di I e II, con alcuni passaggi per nulla banali (ricordo lo spigolo iniziale e il camino in alto, largo e liscio) e con una meraviglia naturale, l’”uovo del Cridola”. Ad un certo punto, salendo, si para davanti un macigno ovoidale, che non si capisce come rimanga da secoli in bilico su una cresta così sottile: bello da fotografare, un po’ meno da avvicinare, calamita in ogni caso lo sguardo. Terminata la salita, svoltasi per la maggior parte su roccia insicura, si è su una cima panoramica e ricca di storia. Primi a salirla, con invidiabile intuito dato l’andamento arzigogolato della via, furono il triestino Julius Kugy e Pacifico Zandegiacomo Orsolina, guida di Auronzo (“l’uomo dei 600 camosci”), il 4/8/1884. Il giorno prima i due avevano scalato il Cimon del Froppa per l’odierna via normale, che presenta un tratto di III! Nelle cinque occasioni in cui sono salito sul Cridola, lasciammo sempre la corda a casa, perche su quella normale non avremmo saputo dove ancorarla e avrebbe rischiato di esserci più di danno che di utilità. Per scendere occorre quindi un supplemento di prudenza, soprattutto se si fosse in comitiva, ma la gioia di aver scalato una vetta così particolare, isolata e solitaria, compensa qualsiasi disagio.

lunedì 11 ottobre 2010

Asfalto sì, asfalto no, asfalto forse ...

Correggendo le bozze del penultimo notiziario delle Regole d'Ampezzo, del quale sono direttore responsabile, mi ha colpito l'immagine della recente asfaltatura della strada Fedarola - Rifugio Angelo Dibona. Da profano senza cognizioni ingegneristiche ma amante del camminare, non mi sfugge che le strade montane bianche, sterrate, in terra battuta o come dir si voglia, col movimento odierno dei veicoli e i costi della mano d'opera, per l'ordinaria manutenzione richiedono spese e impegni non più convenienti. Diventa quindi risolutivo ammantarle di bitume e asfaltarle, ponendosi al riparo da interventi più costosi finché la neve, il ghiaccio, l'esondazione di torrenti, le frane non le danneggino e vi si debba rimetter mano. Ma l'idea che le ultime strade alpestri del territorio d'Ampezzo, da bianche siano diventate dapprima nere e poi grigie, restando comunque faticose per il camminatore, soprattutto al ritorno da lunghe escursioni, urta un po' i miei sentimenti romantici e forse sorpassati. Ricordo qualche decennio fa, quando a Malga Ra Stua salivamo ancora su sterrato, e l'amico Giorgio ci superò con la sua Lambretta mentre con mio padre arrivavamo al crocifisso, facendoci mangiare un bel po' di polvere. Rivedo strade fatte rigorosamente a piedi: San Vito di Braies - Pratopiazza, San Vigilio di Marebbe - Pederù e altre del circondario, ghiaiose e assolate, prive di deiezioni equine e solchi di carri e carrozze del tempo andato, ma inserite più armonicamente in contesti alpini ineguagliabili. E poi, all'Assemblea dei regolieri di qualche anno fa, riferendosi alla strada Campo - Malga Federa (oggi asfaltata) l'ex Presidente Ugo Pompanin non ammonì forse, con voce ferma: “Tendéi, a ašfaltà i bošche!” ("Attenzione, nell'asfaltare i boschi")? Una notizia interessante su questo fronte viene da Alano di Piave, nel Feltrino. Quel comune prealpino sta portando avanti con l'aiuto dell'Unione Europea un progetto che prevede una forma innovativa di asfaltatura. Una ditta di Fonzaso sistemerà la strada silvopastorale Bivio Malga Camparona - Malga Domador (2 km) con un conglomerato ecologico e “biologico” speciale,  certificato e brevettato, di produzione germanica. Finiti i lavori la strada trattata col conglomerato d'oltralpe apparirà sì asfaltata e compatta, ma bianca e somigliante ad una strada sterrata. Mi chiedo se sia soltanto un'illusione ottica o non piuttosto una soluzione futuribile, economica e rispettosa dell'ambiente, e se sarebbe utile prenderla in considerazione in futuro per altre nostre strade o piazzali, dove oggi serpeggia l'asfalto fra i larici e i rododendri.

domenica 10 ottobre 2010

Incontri ravvicinati con gli stambecchi

Non è (o perlomeno, fino a qualche annetto fa, non era) poi così raro incontrare gli stambecchi a Cortina, per chi frequentava determinate plaghe un po' fuori mano, soprattutto nel gruppo della Croda Rossa. Ovviamente, il sottoscritto si è aggirato spesso in molte di queste plaghe, e ricorda un incontro di qualche stagione fa con due "locomotive con le corna", che ebbe davvero del singolare. Una mattina d'agosto salivamo, l'amica Lorenza e io, lungo i dossi d'erba e rocce che dalla pozza, ahimè quasi asciutta, del lago de Remeda Rosses adducono alla cima omonima, antiporta della "grande" Piccola Croda Rossa. Ero in testa sul ripido pendio e cogitavo, quando sentii un fischio possente e prolungato, tipo treno-che-arriva-in-stazione, a brevissima distanza. Alzai la testa e me lo vidi ad un metro. Era un bell'esemplare, con un palco degno di un fotoservizio. Mi stava di fronte e mi osservava tranquillo, con l'aria tra il sornione e il beota che è tipica di quegli ungulati. Lo guardai: mi guardò: ci guardammo, e per un paio di minuti rimasi imbambolato, quasi estraniato, a considerare uno degli animali selvatici più alteri e misteriosi delle nostre montagne. Poi se ne andò, lasciando il posto a un altro. Per fissare anche quello (non avevo la digitale ...) mi sedetti, e rimasi altri due minuti, immobile, ad ammirare quel congegno naturale così possente e potente. Per me e Lorenza, in quel giorno d'agosto, uscire in vetta alla Piccola Croda Rossa fu più piacevole, sapendoci in compagnia.