sabato 31 gennaio 2009

Montagne mie: cronaca di quarant'anni

Non sono così vecchio, né ho fatto imprese tali da indurmi a scrivere la mia autobiografia. Non vivo di montagna né sono un recordman; quanto ho da raccontare rientra nell’attività media di un appassionato della propria valle e delle montagne che la rendono famosa nel mondo.
Alcuni anni fa un paesano mi definì “un modesto escursionista”: allora me ne ebbi a male, oggi la definizione mi lusinga, e la utilizzo per ripensare a tutti i vagabondaggi compiuti sui monti d’Ampezzo e ricostruirli con la fantasia.
Certo, non ho vissuto avventure epiche né ho collezionato prime, invernali, solitarie di rilievo, bivacchi nella tormenta. Sto soltanto camminando da anni per le montagne e, giunto nella fase in cui si tira qualche somma, mi piace farlo anche per l’attività escursionistica e alpinistica.
Il primo ricordo “alpino” è una passeggiata con i miei genitori lungo la strada sterrata che costeggia il Boite, di fronte all’ex aeroporto di Fiames. Dal Ponte de ra Sia la strada porta alla Piencia dei Cazadore, gira e torna a Fiames. Oggi è un giro molto in voga soprattutto nelle sere estive, da fare a piedi o in bicicletta. Per un bimbo di cinque anni fu la scoperta del mondo alpestre, ancora ignoto.
Il mio primo “test” di valore fu però la salita della via ferrata della Punta Fiames, compiuta a nove anni. Di essa andai e vado tuttora orgoglioso, perché mi parve di essere stato promosso di colpo uno scalatore. Sarà per quel motivo che in seguito ho ripercorso l’itinerario una cinquantina di volte e, potendo, lo rifarò ancora!
Immagino ora di partire dall’estremo sud della conca d’Ampezzo e fare un giro a volo d’uccello, osservando le cime sotto i miei piedi e assegnando a molte un ricordo, una storia, una sensazione. Quest’espediente letterario è di moda: l’ha fatto Mauro Corona con le case di Erto, e a me piace poterlo applicare alle montagne.
Comincio dalle Rocchette, dove mio nonno affermava che il bosco nascondeva crepacci e che avventurarsi lassù da soli era pericoloso. Posso assicurare che non ho mai trovato crepacci, ma un recesso dimenticato e selvaggio, dove si respira l’odore autentico della montagna. Delle quattro cime me ne manca la metà, regolarmente iscritta nel carnet degli appuntamenti futuri.
Becco di Mezzodì: fu la mia prima scalata a diciassette anni e anche l’ultima, trent’anni dopo. È una cima che ha segnato la storia dell’alpinismo, ma oggi è abbandonata. Croda da Lago: per lei vale lo stesso discorso, perché ebbe notevole fama nell’800, ma oggi è deserta. Per arrivare ai suoi piedi c’è troppa strada, la roccia è quello che è, le difficoltà sono modeste e non è trendy. In ogni modo ne ho calcato la vetta più volte, e quelle occasioni mi restano nitidamente impresse.
Un posto a parte meritano il piccolo ma non banale Beco d’Aial, meta di varie passeggiate e ricordi, e la Cima Cason de Formin, con lo splendido “diedro del Naza”.
Cinque Torri: ho forse dimostrato che le prediligo in modo particolare, giacché ho già dedicato loro diverse pagine. D’estate e d’inverno, sono salito tante volte su quelle cime, ancor oggi palestra di emozioni per schiere di appassionati.
Fra tutte, la torre che ricordo più spesso è la Trephor, quella che non c’è più, la torre “che volle morire” dove, volenti o nolenti, non potremo mai più salire. Non dimentico la Gusela, l’Averau, la Croda Negra e il Becco Muraglia, alpinisticamente irrilevante ma ricco di storia per Ampezzo e il Cadore.
Fanis: dal Sas de Stria al Valon Bianco, passando per la Torre Lagazuoi, la Cima del Lago, il Piz Lavarela, le Torri Falzarego e il Col dei Bos, ho spuntato dall’elenco un bel po’ di cime. La più bella? La Torre Fanis, una cima avvolta da un silenzio assordante, dove i cordini di calata marciscono senza che vi si appenda tanta gente. Lode al grande Dibona che conquistò lo spigolo per il quale, sessant'anni dopo, Enrico mi guidò in vetta, concretando una delle più belle avventure di gioventù.
Le maestose Tofane mi piacciono “un po’ meno”, forse perché sono molto addomesticate da funivie, seggiovie, piste di sci e c’è tanta gente sempre e dovunque. Questo però non vuol dire che le abbia escluse dalle mie gite, che oggi si rivolgono in prevalenza alle cenerentole, come il Col Rosà o i Tonde de Cianderou.
Per il Gruppo della Croda Rossa ho ereditato la passione di mio padre, e lo frequento con molta soddisfazione. Dopo la Muntejela de Senes, il Col de Ricegon, la Cima Cadin di Sennes, la Croda del Beco, la Piccola Croda Rossa, la Ponta del Pin, negli ultimi anni ho riscoperto le Lainores e la Croda de r’Ancona, mete di un escursionismo non scontato e soprattutto meno faticoso.
Nel gruppo c’è la nostra “ultima Thule”. Sono le Ciadenes, o meglio il dosso alberato con due casematte di cemento dove di anno in anno saliamo, anche più volte, per passare una giornata tranquilla, in silenzio, a tu per tu con una natura malinconica che, dopo le intrusioni belliche, ha visto ben pochi interventi umani.
Un angolo di questo grande gruppo fra Ampezzo e la Pusteria che apprezzo molto è la zona del Col Bechei, dove si ergono due cime sempre appaganti: il Taé e il Taburlo, veri regni dei camosci e di un escursionismo faticoso ma di classe.
Delle venti elevazioni del Pomagagnon, me ne mancano tre, anch’esse debitamente iscritte nel carnet delle cose da fare. Dopo la “mia” Punta Fiames, sulla quale sarò salito forse 70 volte, assegno la medaglia d’argento alla Costa del Bartoldo con il suo diedro levigato che cala sui Casonate e la croce della vetta, dalla quale si schiude una panoramica meravigliosa su Cortina.
Negli ultimi tempi sono salito tre volte anche sulla misconosciuta Pala Perosego, la cui sommità erbosa, sottile e malferma, costituisce un’autentica sfida all’equilibrio e alla mancanza di vertigini.
Nel gruppo del Cristallo, dopo le grandi cime del Cristallo stesso e del Piz Popena, ho frequentate molte sommità “minori”, dalla Punta Michele al Rauchkofel, dal Corno d’Angolo al Popena Basso, dove le vie di Mazzorana invitano ad arrampicare in un ambiente bucolico e paesaggisticamente affascinante.
Ricordo con piacere la salita della Croda de Pousa Marza, una cima calcata da nomi illustri come Innerkofler, Eckerth, Alberto Re dei Belgi, Buzzati, Casara, gli Scoiattoli Valleferro e Dallago, l’amico scomparso Claudio Cima e Luca Visentini.
L’anello è quasi chiuso: manca il Sorapis. Oltre alla cima principale, “il punto delle Dolomiti Orientali più vicino al cielo” secondo Berti, fra le cime che ho salito ritrovo le remote Tre Sorelle, la Punta Nera, la selvaggia Zesta, l’erbosa Cima di Marcoira. Ne restano alcune che ancora non conosco, dall’arcana Cima di Valbona alla Croda Rotta.
Se questa rapida cavalcata fra le cime d’Ampezzo è parsa una vanteria, scendo subito a terra; altrimenti potremo riprendere il volo e perlustrare altre vette, forcelle, valli battuti in tante belle giornate alpine, con fatica e sudore ma sempre con passione e voglia di conoscere.

venerdì 30 gennaio 2009

Torre Wundt, il sole della mia giovinezza

Una delle creature più note della guida Piero Mazzorana (1910-80), bella figura della storia dolomitica, è la fessura che solca la parete SE della Torre Wundt, nei Cadini di Misurina. Si tratta di una via nota, una delle oltre 40 aperte dalla guida nel gruppo, dove gran parte delle cime ha una "via Mazzorana", alcune delle quali classiche. Detta in antico Popéna Piciol, la torre fu conquistata da Theodor von Wundt con le guide Mansueto Barbaria e Giovanni Siorpaes di Cortina, nel 1893. Sulle sue pareti salirono poi alpinisti celebri come Angelo Dibona, ma la fessura fu affrontata solo il 7 settembre 1938, da Mazzorana col Conte Sandro Del Torso. Il pregio, e contemporaneamente il difetto della via (“elegante, aerea, varia e su roccia molto compatta” secondo Goedeke, che alle crode d’Auronzo, Comelico e Sesto ha dedicato nel 1983 un bel volume in tedesco) è che l’attacco dista 5 minuti dal Rifugio Fonda Savio. Anche se in parete non è scontato trovare altre cordate, il pericolo dei sassi smossi dagli scalatori è sempre reale. Alla base della Torre si sale dal Pian dei Spiriti in un’oretta; la via si concentra in 7 lunghezze, per un dislivello di 200 metri. Le difficoltà fra il III e il IV la rendono fruibile anche da scalatori di medio rango; l’attrezzatura è buona, e il rientro è veloce e non complesso. Tutti questi fattori, ineccepibili per una scalata dolomitica, anche se spesso convogliano su alcuni itinerari decine di alpinisti contemporaneamente, mi hanno indotto a ripetere spesso la Mazzorana-Del Torso, anche più di una volta in una stagione. Cercando un percorso nuovo e, se possibile, comodo dove condurre un amico di Bologna, giunsi per la prima volta sulla Wundt il 12 agosto 1981. Fino al 1996 ho poi rifatto la Mazzorana altre diciotto volte, sempre traendone piacere e soddisfazione. La ricordo con nostalgia, giacché riuscivamo a salirla anche in un pomeriggio e in essa trovavamo il “mix” ideale per le nostre capacità e preferenze estetiche. Il diedro iniziale, verticale e articolato, la fessura stretta e obliqua dove una volta volli passare con lo zaino sudando sette camicie, il camino che adduce alla fotogenica grotta visibile anche dal Rifugio, la traversata centocinquantametri sopra le ghiaie, la rampa dove si tirava il fiato e le roccette terminali, dove acceleravamo sempre l'andatura per giungere presto in cima, godendone al massimo. La firma sul libro di vetta, poi, era un rito atteso e gioioso! Negli anni '80, sulla via trovavamo due soli chiodi, e non ne aggiungemmo mai altri! Nell'estate 1986, vista la crescente popolarità del percorso, ne furono cementati altri, migliorando senz’altro la sicurezza degli scalatori ma privando la fessura di quel po' di avventura, che aveva conservato per molti anni. Oggi, passando alla base della via, mi è capitato di notare cordate all’opera. Le ho seguite con “competenza” e un po’ di commozione, pensando ai miei vent’anni. Mi consolo però pensando che – se mai riuscirò ad innalzarmi ancora nel diedro "chiave" senza imbottigliarmi – avrò ancora la gioia di firmare il libretto sulla panoramica Torre Wundt, una delle vette dolomitiche che mi sono rimaste più care.

domenica 25 gennaio 2009

L'onda dei ricordi colpisce ancora!

L'altro ieri, parlando con alcuni amici, raccontai loro la prima volta in cui salii la Punta Fiames per la Via Dimai da sud, aperta nel 1901 e divenuta una classica. I fatti risalgono al 27 maggio 1976 e mi coinvolsero con l’amico e coetaneo Ivo, poi divenuto guida alpina. Essendo venerdì, è evidente che avevamo fatto “plao” per andare “in croda”. Col motorino giungemmo ai piedi del Calvario (il tratto finale dell’accesso alla parete, chiamato così per il terreno ripido e franoso: da provare soprattutto in agosto …), muniti soltanto di una bottiglia d’acqua, di una scatola di zuccherini e della Gazzetta dello Sport. Per l’occasione Ivo mi aveva dato un imbrago di pelle casalingo di suo padre Arturo, guida degli anni ‘60. Io indossavo il giubbetto con il quale andavo a scuola! Particolari della salita non ne ricordo molti: ebbi un attimo di titubanza nel sormontare il “naso giallo”, dove lasciai un moschettone a due tedeschi che ci seguivano; graffiai l’orologio nel “Busc de Frasto”, allora asciutto e scalabile, ma quando giunsi in vetta toccavo il cielo con un dito. Non ero neppure maggiorenne e avevo già fatto la “paré”! La scalata mi piacque tanto che vi tornai con Carlo il 12 di settembre. La seconda volta però non andò bene come la prima, a causa di un disguido occorso ad altri del gruppo, risoltosi fortunatamente bene, anche se con l’intervento di due Scoiattoli, che ci costò una ramanzina severa e indimenticata. Percorsi poi ancora spesso la via, per un totale di 19 salite, in ogni stagione e con compagni diversi. Da ultimo, eravamo lassù in tre nell'agosto 1996. Vista l’ora in cui toccammo la cengia sopra la “prima parete”, proposi una prudente ritirata: fu l’ultima volta in cui sfiorai la dolomia amica della parete della “mia” Punta Fiames, anche se vi sono tornato per la più semplice via ferrata in numerose altre occasioni.