sabato 27 febbraio 2010

Malga di Tesido, traguardo invernale ed estivo di belle passeggiate e ascensioni

La Malga di Tesido (Neue Taistner Sennhűtte), in Comune di Monguelfo, è un punto di ristoro molto noto ai pusteresi ma anche a tanta gente di Cortina. Situata nel cuore dei Monti di Casies, in un anfiteatro pascolivo dominato dai monti Durakopf, Lutterkopf, Rudlhorn e Eisatz, la malga è aperta sia d’estate che d’inverno. Vi si arriva percorrendo una comoda strada forestale che dal ristorante Mudlerhof, sopra Tesido, traversa un’abetaia e termina proprio davanti al fabbricato. D’inverno la strada viene adattata a pista per gli slittini, dando ospitalità ad un passatempo assai amato in Sudtirolo. La Malga fa da meta a sé per una passeggiata, ma serve anche per salite e traversate estive. Personalmente, avendo un debole per i Monti di Casies, da lassù ho salito tre volte il Rudlhorn, panoramico corno roccioso che domina l’anfiteatro; una volta l'Eisatz, unito al Rudlhorn da una cresta che domina un bellissimo laghetto; quattro volte il Durakopf, panoramico dosso erboso con una grande croce, ed ho compiuto tre volte la traversata Durakopf-Lutterkopf, lungo il displuvio Casies-Anterselva. Si possono scoprire anche altre opportunità, con una cartina e un po’ di fantasia. Soprattutto d’inverno, alla Malga di Tesido (per noi che la frequentiamo, semplicemente “a Tesido”), capita sovente d’incontrare numerosi paesani. L'ultima volta che salimmo lassù d'inverno, per combinazione ci trovammo a pranzo in sette provenienti da Cortina! Benché l’accesso disti 50 km dalla valle d’Ampezzo, merita salire alla Malga di Tesido: con la neve per godersi una slittata, d'estate per conoscere alcune belle cime e nel primo autunno per visitare un'enorme macchia di mirtilli ai loro piedi, che forse i pusteresi non raccolgono.

Dedicato a mio padre, per i suoi novant'anni

Questo post vorrei dedicarlo a mio padre Giuseppe, che fra due mesi compirebbe 90 anni, e alle poche scalate che poté compiere in gioventù. Praticò l’alpinismo di roccia per un periodo assai breve e, dati i tempi, mi sembra con onesti risultati. Conoscente ed amico di Scoiattoli e guide del tempo, non ebbe la possibilità e poi il tempo materiale di fare di più sulle pareti, poiché metà dei suoi vent’anni volò via tra Napoli, la Corsica e la Sardegna con la divisa di Granatiere. Mio padre comunque non si dispiacque mai di non aver salito tante vie impegnative, e continuò ad andare in montagna per tutta la vita, amando i sentieri, le ferrate e i rifugi e raccontando spesso a noi, dapprima piccoli incantati e poi più grandi saputelli, molte emozioni giovanili. Anni fa trovai nei cassetti di casa diverse fotografie d’alpinismo e scialpinismo, risalenti agli anni 1937-1947: d’inverno in Sennes e in Fodara, d’estate sulle normali del Cristallo e della Marmolada, sulla Dimai della Ponta Fiames, sulla Inglese in Tofana di Mezzo, sulla Miriam della Torre Grande d'Averau. Mancavano quelle, se mai esistettero, di una via celebre ai primi del ‘900 ma oggi dimenticata, che mi ha sempre attratto e dove mi diceva di aver provato a salire con un collega d’ufficio: il Camino Barbaria sul Becco di Mezzodì. Il freddo e l’umidità (mi pare di ricordare che fosse il 21 ottobre 1942), la stanchezza o chissà quali altri motivi, li costrinsero a desistere, e da allora non tornò più sul Becco, allora apprezzato e oggi invece deserto. Negli anni '80, il nostro miglior periodo di roccia, mi sarebbe piaciuto salire con lui la classica "paré de ra Fiames", che secondo il libretto di via mio padre aveva salito quattro volte tra il 1940 e il 1947 e di cui ho trovato qualche bella foto risalente al 1941. Non so come sarebbe andata, ma mi dispiace di non aver mai realizzato quella salita, in cui si sono cimentate decine di ampezzani, uomini e donne anche meno appassionati di lui.

venerdì 26 febbraio 2010

II morbido praticello fiorito della Punta della Croce

Alcune splendide lastre dell'archivio della grande guida Antonio Dimai, mostrate a Cortina, in chiusura delle manifestazioni per i 100 anni della parete S della Tofana di Rozes, riguardavano la parete S della Punta della Croce, che affianca sulla destra la nota Punta Fiames. La via ebbe un certo credito negli anni aurei dell’alpinismo. Aperta il 24 agosto 1900 dal solito Agostino Verzi, con Giovanni Siprpaes e il cliente Felix Pott, si sviluppa lungo l'alta parete per 20 tirate di corda, un terzo delle quali ha difficoltà di rilievo alpinistico. La salita attraversa diverse cenge ghiaiose ed erbose, per cui diventa abbastanza delicata in caso di pioggia o nevischio. Le guide di oggi non la gradiscono perché, mi dissero tempo fa, “non si arrampica tanto, e bisogna trascinarsi dietro la corda per un sacco di lunghezze”. Eppure un secolo fa la “Pott” era in auge: la salivano gli aspiranti, con le guide esperte per imparare le vie, la ripeterono Orazio De Falkner, il Re Alberto dei Belgi e tanti altri. A parte la “Pott”, chi scrive ha salito la Punta della Croce per la semplice via normale di soli 122 metri di dislivello, che da Forcella Pomagagnon permette di accedere da nord a una cupola erbosa e sassosa dal panorama suggestivo. La croce che le diede il nome, issata lassù dallo sfortunato Giuseppe Ghedina prima del 1883, è sparita da molto tempo; non c'è il libro di vetta, e solo un ometto di pietre fa compagnia. Anzi, all’ometto si aggiungono anche gli sguardi perplessi di chi anima la prospiciente Punta Fiames, dopo aver percorso la ferrata Strobel o qualche via di roccia, e si chiede che ci facciamo noi su quel mansueto rilievo, che ha poca storia da raccontare e poco futuro da sognare. E pensare che quaranta-cinquant'anni fa, sulla Punta le guide organizzavano anche gite accompagnate! Se qualcuno dei visitatori di questo blog volesse fare un salto sulla Punta della Croce, a mio parere non dovrebbe restare deluso: turisti fracassoni non ne troverà di certo, e potrà magari abbandonarsi anche ad un pisolino ristoratore sul morbido praticello fra i sassi della cima, mille metri sopra la valle d’Ampezzo.

Terza Cengia, solo, in discesa

Dieci anni fa, una domenica di fine settembre, stufo deisoliti giri volli provarne uno originale, che però oggi non so se ripeterei. Salii sull’ultimo autobus della stagione per Misurina, scendendo al Passo Tre Croci. In meno di un'ora ero a Sonforca, dove imboccai il sentiero di Forcella Zumeles fino a metà. Da qui salii per la prima volta la Pala Peroşego, dove lasciai una scatola di plastica con un libro di vetta, purtroppo distrutto da un fulmine poco tempo dopo. Scesi in Forcella, da ove continuai per il bel sentiero, segnato ma senza numero, che aggira i Crepe de Zumeles per inerpicarsi poi - ripido e con un tratto franoso - sulla silente Punta Erbing. Qui giunto, tirai il fiato. Suonava mezzogiorno: mangiai qualcosa, al telefono assicurai chi mi attendeva a casa che tutto filava liscio; sui due piedi decisi quindi di scendere per la Terza Cengia del Pomagagnon. Ho la sensazione che pochi lo facciano, perché la cengia non è certamente un itinerario da seguire al contrario: in ogni modo, una volta imboccatala, ritenni inutile titubare, anche perché la cengia è faticosa in salita, ma in discesa sembra straordinariamente breve. In un punto esposto incrociai due padovani, stupiti di vedermi effettuare la gita dall’alto al basso. Scambiammo due parole, poco più in là scivolai sulla ghiaia e caddi seduto in uno dei tratti più stretti della rampa. Mi sembrò utile eclissarmi in fretta, per non fare proprio la figura del "zanpedón". Alla base delle rocce, m’infilai nel bosco e, quasi correndo, passai al Codivilla, a Cademai e per la ferrovia giunsi a casa, rigorosamente a piedi. Fu un’escursione piuttosto lunga e divertente, che mi servì per verificare lo stato della Terza Cengia, una ”passeggiata di croda” che ho seguito molte volte, la prima con mio padre nell’ormai remoto 1976. Le intemperie l’hanno piuttosto danneggiata, e qualche tratto è diventato un po' ostico per la ghiaia che rende i passaggi scivolosi. Sulla cengia, sotto uno strapiombo , scoprii anche un grosso pezzo della croce del Pomagagnon, che nella primavera precedente il vento aveva divelto dalla vetta e scaraventato lungo la parete.

martedì 23 febbraio 2010

Pezovico, ossia del mistero

Non esiste ancora una relazione dettagliata della salita sul Pezovico, un'aspra e poco nota cima ampezzana. Estremo pilastro angolare del Pomagagnon, il Pezovico domina, dall’altezza non certo eccezionale di 1933 metri, la piana di Fiames e l’ex Ferrovia delle Dolomiti, sulla quale d’inverno le sue pendici scaricano spesso valanghe. Fortificato dagli italiani durante la Grande Guerra, da qualcuno è stato ritenuto, secondo me un po' a torto, faticoso e poco remunerativo. Vi sono salito due volte, la prima nel maggio 1993. Rispondendo a un’idea di Roberto, Antonio – che all'epoca era guardaparco – ci guidò lungo l’impervio fianco E del monte, coperto di mughi alti e fitti ma senza rilevanti difficoltà, che inizia dall’ex sede ferroviaria, in corrispondenza della galleria detta "del Pezovico”. Risalita la ripida e faticosa china del monte, aggirammo a N il tratto finale traversando a Forcella Bassa. Da lì, con un ultimo sforzo su zolle erbose e detriti, fummo in breve sulla disertata cima. Fu quanto di più selvaggio e silenzioso potessi immaginare. In questi anni ho saputo di una sola altra visita, di conoscenti veneti appassionati di divagazioni fuori dalle rotte: io, per non smentirmi, per ora sono salito lassù un’altra volta, nel maggio 1996. Ogni tanto mi vengono ancora in mente le peste di cervi e camosci che solcano la “barancera” inestricabile ma non difficile, torrida e faticosa ma sicura e riparata dagli strapiombi che accerchiano la cima. Una visita al Pezovico la consiglio soltanto a chi sappia trarre gusto da un ambiente aspro, isolato, a tratti sgradevole, privo di soddisfazione che non sia quella dell'accesso ad una vetta erbosa e baranciosa, dove ci si può stendere al sole con i gracchi, l'immancabile roteare dell’aquila, il balzo furtivo del camoscio e il silenzio assoluto. Presto o tardi voglio tornarci.

lunedì 22 febbraio 2010

Ponta del Pin: una montagna scomoda

La Punta del Pin, massiccia elevazione che svetta in territorio ampezzano a ridosso del confine con Dobbiaco, non ha molto da offrire ai rocciatori. Tuttavia nel 1999 l’indomito Marino Dall’Oglio vi scoprì persino una via nuova sul lato del Cadin di Croda Rossa, e l'aprì con due guide sudtirolesi: trecento metri di difficoltà classiche in un ambiente ineguagliabile. La via normale, liquidata dalla guida delle Dolomiti Orientali di Antonio Berti in quattro righe, fu salita anche dall’autore con il figlio Camillo adolescente. Essa inizia nel Cadin di Croda Rossa, noto agli sci alpinisti, al quale a sua volta si sale dall'altopiano di Pratopiazza. Per verdi e ghiaie, s’imbocca un canale di blocchi, che porta ad una forcella di cresta, vicino al grande foro, da dove appare Cimabanche. In obliquo a destra per placche e canali di roccia rotta, seguendo tracce di camosci si giunge su un’anticima e, con un passaggio un po’ esposto, in vetta. La prerogativa della Ponta, oltre a quelle consuete ed amabili delle cime fuori mano e dimenticate, è il superbo colpo d’occhio sulla parete nord dell’antistante Croda Rossa, dove s’individuano le vie di Winkler e di Innerkofler. Di fianco si scorge lo spigolo Terschak, forse mai ripetuto; in alto appare la croce di vetta e a destra, infine, spiccano le Cime Campale, visitate di rado dopo le esplorazioni di von Glanvell di fine ‘800. Il sottoscritto non poteva certo ignorare una cima fuori dei sentieri e dalle mode! Infatti, ho visitato l’ometto di vetta per sei volte. La gita sulla Ponta del Pin è piuttosto lunga, faticosa e scomoda. Il panorama, il silenzio, il mistero di quelle rocce sgretolate, la bellezza dell’anello che si compie scendendo nel Cadin di Croda Rossa, scavalcando una forcella di cresta e calando a Cimabanche per un morbido ghiaione che s’innesta in quello di Forcella Colfiedo però hanno ben pochi uguali.

Avventure di croda di sessant'anni fa: in omaggio a Ettore, Mario, Luigi e Ugo

Fino all'estate 1946, chi passava nei dintorni sicuramente avrà osservato un torrione posto circa cinquecento metri a nord-ovest di Forcella Travenanzes, ben visibile perché staccato dal Lagazuoi Sud che gli sta dietro. Ma a nessuno doveva essere ancora passato per la testa di provare a salirlo. L'idea fu di Ettore, che organizzò un quartetto con Mario, Luigi e Ugo e andò a curiosare sul versante al sole di quella stuzzicante guglia, alta poco meno di duecento metri e con un bello spigolo proprio in vista. Dopo un'ora e mezza di scalata, lasciando lungo il percorso tre preziosi chiodi, i quattro ragazzi giunsero senza intoppi in vetta alla guglia, che battezzarono Torre Lagazuoi, in omaggio alla zona. Per scendere si buttarono dalla parte opposta, prima con una lunga calata per corda e poi lungo una serie di neri camini. Trentacinque anni più tardi il sottoscritto, guidato da Enrico, giunse anche lui felicemente su quella cima, dove trovò i chiodi di Ettore e compagni, l'ometto di vetta ancora intatto e coperto di licheni e una solitudine assoluta. Al tempo non m'interessavano i nomi delle montagne, m'interessava molto di più salirle per sperimentare le mie capacità. Quella torre è un buon 4° grado, e so che qualche anno dopo fu abbastanza frequentata da alpinisti curiosi (all'attacco si scende in poco tempo dalla funivia ...). Ho riposto la Torre Lagazuoi nel cassetto delle avventure giovanili, ma ogni tanto salta fuori, per ricordarmi una bella giornata. E stavolta anche per ricordare i primi salitori: non so le vicende di Mario, ma Ettore, Luigi e Ugo sono tutti scomparsi da tempo, e quella fu soltanto una delle loro grandi avventure di croda.

Cinque guide ampezzane e cinque modi di vivere la Tofana di Rozes

Forse tra le guide alpine ampezzane della mia generazione e la Tofana de Rozes, una delle più maestose montagne dolomitiche, intercorre un “feeling” particolare. L’ho pensato notando che cinque guide, oggi intorno alla cinquantina, in Tofana hanno fatto tutte qualcosa di singolare, e spesso per conto proprio. Iniziando dai primi di ottobre del 1980, quando il primo di loro - al tempo ventunenne e non ancora guida - chiuse la stagione alpinistica salendo da solo e in due ore la classica Via Dimai. Sempre in quel periodo il secondo, al quale avevo chiesto in pizzeria se non ripetesse mai qualche via da solo, mi disse di aver fatto da poco il I Spigolo di Rozes per l’Alverà-Pompanin, una rinomata via di 5° grado. Vent’anni dopo, la medesima guida si è aggiudicata anche la (prima?) solitaria invernale della Via Dimai, pernottando in parete e godendosi un tramonto e un’alba su Cortina senza dubbio memorabili. Al terzo del quintetto, anni fa spettò una conquista ancora più difficile: si fece, infatti, senza compagni la Costantini-Apollonio sul Pilastro, uno dei più celebri sesti gradi delle Dolomiti. Il quarto, che oggi ha cambiato continente e mestiere, esplorando nei primi anni '80 la fascia rocciosa sovrastata dal grande anfiteatro della parete sud, vi scoprì in una settimana due difficili itinerari. Nel 1997 il quinto del gruppo ha trovato una via sulla parete SSO, accanto alla Tridentina di Bonatti, e nella stesso settore ne aveva ideato un'altra, che avrebbe dovuto avere alte difficoltà. Anche se il versante sud è avvolto da una ragnatela sempre più ampia di vie (l'ultima è dell'estate scorsa, opera di due carnici), la Rozes offre ancora qualche possibilità a chi intendesse scoprirle. Mi piace comunque che tante salite lassù se le siano accaparrate le nostre guide e Scoiattoli, per i quali da sempre la Tofana è un gran terreno di gioco, di lavoro e di passione.

domenica 21 febbraio 2010

Il Re del marzo: appunti di una traversata in solitaria

Un’avventura alpina nella quale ho sperimentato una sensazione di vera solitudine, risale al 1995, anno in cui si svolgeva una delle fasi più impegnate del mio vagare per crode. All’epoca, alcuni amici mi avevano assegnato l’iperbolica qualifica di “Re del marzo” (intendendo con marzo la roccia friabile). Non so perché, nelle uscite in gruppo tendevo a proporre spesso obiettivi di difficoltà limitate, ma con roccia infida e non immuni da rischi oggettivi che, peraltro, la buona sorte ci permise sempre di evitare. In luglio ero in ferie: non trovando nessuno per andare in montagna, il 26 progettai di godermi da solo una traversata abbastanza “marza”, che avevo già effettuato in compagnia. Partito da Tre Croci, salii la Zesta per la normale e scesi per la Casara da S.O. al Rifugio Vandelli, tornando a Tre Croci. Non si trattò, invero, di una prestazione d’impegno esorbitante. La normale della Zesta da nord è valutata di I grado, anche se - a mio parere - l’aggiramento del gendarme nel primo tratto di cresta, data l’esposizione e l’instabilità del terreno, oppone difficoltà di II. La Casara sul versante opposto è anch’essa giudicata di I, e questo coincide, perché il camino sotto la cima (unico passaggio delicato) si può aggirare, il resto è poco più di un erto pendio di rocce sgretolate. L’ambiente impervio e isolato in cui si svolge la salita e ancor più la discesa, nonché la natura della roccia (palesemente scadente in tutta l’area), resero la traversata un po’ scabrosa anche per un amante della solitudine, per quanto preparato, attrezzato e veloce potesse essere. Quel giorno mi sentivo in forma, ma fui veramente solo, soprattutto scendendo a S.O., dove indovinai il varco giusto per riguadagnare il sentiero grazie alle peste dei camosci. Dopo d’allora sono salito sulla cima ancora una volta, il 6 settembre 1997. Ero in dolce compagnia, e ritenni più prudente tornare a Forzela del Ciadin per la normale, eludendo la placca iniziale della cresta con una rapida variante, della quale fino a quel giorno mi era sconosciuta l’esistenza. Ripensandoci, la traversata del 1995 si dimostrò un’escursione molto appagante: oggi la ripeterei ancora volentieri, anche non in solitaria...