lunedì 22 dicembre 2008

Un altro libro di montagna ... per la Befana

Il volume di Danilo De Martin e Roberto Tabacchi Val Montina - Un’area wilderness intrisa di storia (Cortina d’Ampezzo, giugno 2008, pp. 132 con fotografie in bianco e nero ed a colori) impreziosito da più di 150 immagini di animali, boschi, fiori, montagne, opere industriali, paesi ed uomini che rendono le pagine molto accattivanti, descrive nel modo più esaurientemente possibile una valle montuosa del Cadore, posta in Comune di Perarolo e nota per l'ambiente aspro, severo e in pratica ancora incontaminato, ma poco nota anche agli stessi cadorini. Le caratteristiche uniche della Val Montina, tributaria in sinistra orografica del Canal del Piave, che da Macchietto s’incunea per oltre 1000 metri di dislivello fino ai confini con il Friuli, l’hanno promossa qualche anno fa - prima in tutta la catena alpina – ad “area wilderness“ di tutela integrale, evidenziandone l’eccezionale valore ambientale, botanico e faunistico e dei pochi tragitti che ne permettono la visita anche all’escursionista medio. Del lavoro di De Martin e Tabacchi risulta interessante anche la parte storica, che analizza il territorio del Comune di Perarolo, popolato oggi solo da 300 anime, che in passato si fece conoscere per molte cose: ricordiamo l’epopea del Cidolo e della fluitazione del legname, il lavoro sui magri pascoli e nei boschi e la produzione di carbone vegetale per alleviare le misere condizioni di vita del Canal del Piave, la visita della Regina Margherita. La narrazione si completa con la storia della centrale idroelettrica, costruita allo sbocco della valle negli anni ’50 e sommersa dall’alluvione del 1966, e di Luigi Zampolli, che ne fu il custode e nume tutelare. Portandoci ai nostri giorni, il lavoro dà conto anche di quel capolavoro tecnologico che è il “Ponte Cadore“, dal quale persino l’automobilista più distratto non può non notare lo sbocco della valle, dove l’uomo, in epoche ormai lontane, operò un parziale sfruttamento, ma dove oggi la natura torna prepotentemente in possesso di quanto le appartiene. Con questo lavoro gli autori, già distintisi per altre pubblicazioni fotografiche sul Cadore, esprimono un autentico atto d’amore per un territorio e un’isola ambientale che, nonostante tutto, fino ad oggi sono riusciti a conservare peculiarità che ne fanno un unicum prezioso. In conclusione, crediamo che siano ancora pochi gli escursionisti che conoscono la Val Montina per averne seguito i non facili sentieri, che convergono al bivacco “Sergio Baroni“, inaugurato il 10.10.1976 dalla Sezione di Venezia della “Giovane Montagna“ al posto della diruta Casera Alta di Bosco Nero, sotto il Duranno. A costoro, che già sanno, e a chi non conosce una valle dolomitica paradigmatica per la tutela ambientale alpina e simbolo della situazione ideale per il mantenimento di uno stato di selvaggità e solitudine a beneficio spirituale degli uomini, e vorrà avvicinarsi ad essa col rispetto che la sua condizione esige, questa nuova pubblicazione avrà senz’altro molto da raccontare. Leggetela!

venerdì 19 dicembre 2008

Un regalo per Natale? Un bel libro di montagna!

Il 15 maggio è mancato - sulla soglia degli 80 anni - Valerio Quinz, guida alpina, atleta e imprenditore di Misurina. Da cultore di storia locale quale è, Bepi Pellegrinon ha colto la palla al balzo, dedicandogli una nuova ricerca sull'alpinismo dolomitico. Ne è sortito così un volume (Il cuore dietro lo spigolo. Le montagne di Valerio Quinz, Nuovi Sentieri, Cornuda, ottobre 2008), abbellito da 95 foto d'epoca e 13 immagini a colori, nelle quali Valentino Pais Tarsilia ha eternato le cime della Val d'Ansiei frequentate da Quinz per una vita. Il volume ripercorre l’esistenza di Valerio, figlio di Giuseppe, venuto in Auronzo da Sappada negli anni '20 a fare la guida e compagno di croda, fra i tanti, anche di Dino Buzzati. Già nel 1936 il padre condusse il pargolo lungo la via Casara sul Popena Basso, e due anni dopo lo portò sulla Grande di Lavaredo, instillandogli un amore per la montagna rimasto immutato fino all'ultima vetta, la Cima Cadin di San Lucano nel 2002. Dalle pagine di Pellegrinon, coadiuvato nella stesura del libro da Loris Santomaso, risalta che Quinz fu promosso guida alpina a soli 19 anni, quando aveva già alle spalle una buona esperienza; che arrampicò spesso con gli amici Francesco Corte Colò, Isidoro De Lazzer, Angelo Larese Filon, Alziro e Ottavio Molin, Armando Vecellio Galeno, e s'impose all'attenzione del mondo alpinistico il 9.9.1949, superando per primo in solitaria lo Spigolo Giallo della Piccola di Lavaredo, che campeggia in copertina e dà il titolo al libro. In oltre sessant'anni di roccia, trenta dei quali di professione, sono state numerosissime le vette e le vie salite da Quinz. Valerio però ha parlato sempre poco delle sue ascensioni, preferendo lavorare sodo nel turismo, che lo ha visto condurre con i familiari l’albergo sulle rive del Lago di Misurina, fulcro della sua esistenza. Non va dimenticato poi che fu un valente giocatore di hockey ed un ottimo sciatore, attività che incorniciano una passione per la montagna a tutto tondo. Nella storia dolomitica, il nome di Quinz resta legato ad una ventina di vie nuove e alcune importanti ripetizioni sui Cadini, Cristallo, Paterno, Tre Cime, Tre Scarperi. Una via domina tutte, e rimane il suo “monumento”: il diedro E del Pianoro dei Tocci nei Cadini di Misurina: 200 metri, dritti come una fucilata e con difficoltà fino al 6°, scalati il 10.9.1951 con l’amico “Galeno“. "IL cuore oltre lo spigolo“ parla anche di altro: competizioni sportive, soccorsi in montagna, fraterne amicizie con rocciatori italiani e stranieri, della famiglia, di un uomo e un alpinista forte, generoso e riservato. Commuovono, a questo riguardo, la cronaca dell'ultima salita della guida sul Cadin di San Lucano e il dolce “testamento” indirizzato dal nonno ai due nipotini. Un plauso, quindi, a questo impegno editoriale dedicato da Bepi all’amico Valerio. Nonostante alcune imprecisioni toponomastiche, rimane intatto il valore dell’opera, il suo interesse per i cultori della storia dolomitica e il rispetto per uno degli uomini che l'hanno scritta. Parlo di questo volume con piacere, perché è capitato anche a me di conoscere Valerio Quinz: accadde nel 1976, lo stesso giorno in cui strinsi una breve, gradita amicizia con un altro grande alpinista, Severino Casara.

lunedì 15 dicembre 2008

Un anno di montagna e montagne: devo continuare?

Ieri, domenica 14 dicembre 2008, questo blog ha compiuto il primo anno di vita. 365 giorni di montagna, nei quali ho pubblicato più di 130 articoli con cronache, impressioni, inviti, relazioni, ricordi, sentimenti, storie legate all'universo delle crode, che da quarant'anni riempie costantemente una parte del mio tempo. Mi era balenata l'idea di cancellare il blog, ritenendo che commentare, commuoversi, rievocare, scrivere di montagna serva soltanto a me stesso e spesso non faccia altro che rinfocolare nostalgie, ricordi e qualche rimpianto. Ma poi ho cambiato idea, e spero di riuscire a mantenere il blog così com'è, magari svilupparlo e arricchirlo di idee e proposte e ottenere anche la collaborazione di chi lo segue e lo apprezza. Intanto, vista la neve alta che ricopre cime, forcelle e valloni ma anche i miei pensieri, ho deciso di riposarmi per un po' e fare qualche programma, in attesa di poterlo attuare. Un saluto a tutti.

sabato 13 dicembre 2008

Un alpinista

In autunno se n'è andato a 81 anni l'ingegner Augusto Menardi, noto a Cortina come “Siro del Royal”. Da giovane Menardi non fu Scoiattolo, ma amico e compagno degli Scoiattoli di Cortina. Nella cronaca dolomitica, il suo nome si trova almeno quattro volte, consecutive e legate a un'unica stagione, l'estate 1948. Il 3 settembre infatti, con Luigi “Bibi” Ghedina e Ugo “Suplein” Samaja, Siro salì lo spigolo SE dell'inviolato e oggi dimenticato Campanile Marino Rosada, antistante la parete est della Tofana di Mezzo (150 m, V+). L'8 settembre, la cordata superò la parete S della Torre Silvano Buffa, nel gruppo di Fanes, anch'essa inviolata (200 m, VI). L'11 settembre, con “Bibi” e Lino Lacedelli, Siro compì in otto ore la seconda salita della parete sud del Castello delle Nevere in Civetta, lungo la via aperta da Alfonso Vinci, Paolo Riva e Camillo Giumelli nell'estate del 1936 (900 m di “roccia friabile e talvolta friabilissima per oltre metà della salita”, VI secondo i primi salitori, V+ secondo i ripetitori). Il giorno seguente, infine, con Ugo “Baa” Pompanin, Ugo “Manni” Illing e Lino Lacedelli, Siro Menardi compì la quarta salita dello spigolo sud-ovest della Torre Venezia in Civetta, via Andrich-Faé (300 m, V+). Dopo gli exploit del 1948, Menardi frequentò le montagne ancora per molti anni, coinvolgendo anche figli e amici; ricordo che seguiva con piacere i miei “Appunti di Montagna” sul Notiziario di Cortina e, quando ne parlammo, nei suoi occhi brillò il piacere del ricordo.

lunedì 8 dicembre 2008

Un ricordo alpinistico di tanti anni fa (utile per questo inizio d'inverno nevosissimo ...)

A distanza di tanti anni, quando su riviste e libri di montagna trovo le relazioni di vie che conobbi, mi viene spontaneo chiedermi quale fosse la molla che mi spingeva a scegliere proprio quelle vie per compiere con gli amici le nostre modeste avventure alpine. E’ il caso della Pala Sud Ovest di Misurina nel Gruppo del Cristallo-Popena, uno dei due rilievi più elevati della breve e poco marcata dorsale che scorre sopra il Lago di Misurina, tra la Sella dell'ex Rifugio Popena e il Passo delle Pale. Verso nord-ovest, entrambe le cime incombono sulla Val Popena Alta con pareti alte oltre 250 metri, e riservano alcune vie di difficoltà classiche, che possono rivestire un discreto interesse. L?11 settembre 1986 fu una di queste, lo spigolo nord-ovest della Pala Sud Ovest, la più bassa delle due, che colpì la mia attenzione. Percorso da una via aperta da Sandro Del Torso e Gianfranco Pompei nell’agosto 1938, nella parte bassa lo spigolo offre una salita su roccia non proprio eccelsa, ma piacevole. Posso confermarlo, anche se – delle sei lunghezze che risalgono il pilastro arrotondato che caratterizza lo spigolo - ne ricordo soltanto una di un certo interesse, esposta e con passaggi variegati. Il resto fu abbastanza banale: le tre lunghezze superiori non superano il secondo grado e si svolgono in un largo colatoio poco solido e altrettanto poco godibile, ma a noi piacquero lo stesso, come ci piacque molto l’uscita in vetta e la traversata all’antistante Pala Nord Est. Nonostante sia molto vicina a Misurina, la Pala è una cima solitaria e poco frequentata: ricordo la croce di vetta che trovammo, ottenuta da un segmento d’antenna TV, che chissà chi ebbe la fantasia di portare lassù! Al tempo, a me e ad Andrea che mi seguiva con entusiasmo, la Via Del Torso - Pompei parve discreta: almeno, non ritenemmo di aver sprecato la giornata, pur essendoci trovati su una parete tutt’altro che solida e su una via che non è passata alla storia. Perlomeno, avevamo trascorso la giornata in un angolo solitario, su un percorso che, oltre alla nostra, probabilmente avrà avuto poche altre ripetizioni ma dove, sicuramente, nessuno venne a disturbarci.

lunedì 17 novembre 2008

In ricordo di Tullio Trevisan

Grazie al comune amico Luigi Brusadin, nel giugno 2005 - data del mio ingresso nel GISM, durante il consueto incontro sociale che si teneva a Siusi - ebbi modo di conoscere Tullio Trevisan di Pordenone, di cui avevo sentito nominare un importante studio storico sull'esplorazione delle Dolomiti Clautane, ormai irreperibile; fu subito simpatia reciproca. Ci scambiammo alcune pubblicazioni, ci sentimmo telefonicamente, lo rividi con piacere a Cimolais nel 2006 e a Valbruna solo un mese fa; nel settembre scorso, inoltre, abbiamo partecipato entrambi alla giuria del Premio letterario “Antonio Berti” a Mestre. Dunque soltanto quattro incontri, nei quali ho avuto comunque modo di apprezzare l'esperienza e le conoscenze, soprattutto storiche e toponomastiche, di Trevisan, e la sua comunicatività. Mi ero affezionato a questo appassionato cantore delle Alpi friulane, e mi auguero di poter visitare alcune cime e valli, fra quelle che lui descrisse con tanta competenza e passione. Da ultimo, ci eravamo dati appuntamento al raduno 2009 del GISM, che si terrà nel prossimo giugno a Cortina: purtroppo lui non ci sarà, e mi dispiace davvero.

sabato 8 novembre 2008

Passeggiando in Val Popena Alta, prima che l'inverno sia qui

Nella porzione orientale del gruppo dolomitico del Cristallo, sul versante sud-est della Val Popena Alta, alla base del costone che degrada dal Corno d’Angolo, a 2214 metri di quota si apre una larga ed agevole insellatura, che pone in comunicazione la valle con il Passo Tre Croci e Misurina. La sella è incoronata da vette maestose, fra le quali risalta il Piz Popena, uno dei “Tremila” più grandiosi e meno frequentati delle Dolomiti, salito per la prima volta nel giugno 1870 delle guide Santo Siorpaes e Christian Lauener con Edward R. Whitwell.
Ai suoi piedi, il bonario Corno d’Angolo, che espone verso sud un caratteristico spigolo giallastro; seguono la Croda di Pousa Marza, le Torri Sud-Ovest e Nord-Est di Popena e poi la Punta Michele, dove nel 1944 Dibona realizzò la sua ultima via nuova con Casara, Cavallini, Menardi e Trenker. Seguono il Cristallino di Misurina, visitato già nel 1864 da Paul Grohmann, ignorato nell’epoca d’oro dell’alpinismo e trasformatosi in sanguinoso campo di battaglia durante la I Guerra Mondiale; il trittico formato dal Campanile Dibona, Guglia di Val Popena Alta e 3a Punta di Val Popena Alta; le Pale Sud-Ovest e Nord-Est di Misurina, con itinerari quasi “di palestra” aperti da Del Torso, Quinz e ancora da Molin.
Oggi ci ripromettiamo di raggiungere la panoramica insellatura, che dista pochi passi dal confine fra Auronzo e Cortina e dal limite orientale del Parco Naturale delle Dolomiti Ampezzane, e sulla quale campeggiano da anni i ruderi di un piccolo rifugio, costruito nel 1938 e battezzato semplicemente Rifugio Popena, con cui s’intendeva arricchire la valle (che dalla sella si ammira in tutta la sua austera bellezza) di un punto d’appoggio per scalatori ed escursionisti, e promuoverne anche la frequentazione invernale. Il rifugio non ebbe fortuna, perché un incendio lo rese completamente inutilizzabile negli anni della II Guerra Mondiale, e fino ad oggi nessuno ha deciso di ricostruirlo. Le macerie sulla Sella non servono nemmeno come bivacco di fortuna, e non fanno certamente onore al valico, un belvedere dolomitico naturalisticamente prezioso e ricco di storia. La sella, inoltre, costituisce un crocevia di importanza fondamentale per alpinisti e per escursionisti; forse lassù una struttura potrebbe anche starci bene, pur dovendo sempre fare i conti con la mancanza d’acqua. Seppure il Lago di Misurina si stenda soltanto a poco più di un’ora di distanza, l’ambiente intorno all’ex Rifugio non ha mai subito pesanti invasioni, pur trovandosi molto vicino ad un circondario amato dal turismo di massa. Se il valico e le superbe e silenziose cime che l’incoronano saranno risparmiate da valorizzazioni artificiali, chi le frequenta potrà godere sempre del piacere di aprire da lassù la miglior porta d’ingresso al grande gruppo dolomitico del Popena.
Per visitare la zona, possiamo partire dal Ponte sul Rudavoi o da quello sul Ruvieta, che incontriamo salendo lungo la strada 48bis delle Dolomiti fra il Passo Tre Croci e Misurina, oppure dall’agriturismo di Malga Misurina. Noi vogliamo invece consigliare l’accesso classico alla valle, dal tornante posto a quota 1659 sulla strada che risale la Val Popena Bassa, fra Carbonin e Misurina. All’interno del tornante, imbocchiamo subito la traccia (il segnavia bianco e rosso del CAI è il n. 222) che rimonta un prato e, di fianco alle acque solitamente tranquille del Rio Popena, inizia a risalire la valle. A destra incombe il grandioso castello del Cristallino di Misurina, a sinistra la Costa Popena, coperta di boschi. Ben presto la traccia si perde un po’, a causa dell’acqua del torrente che spesso esce dalla sua sede: poi d’improvviso ricompare, rassicurandoci con segni rossi e ometti. Man mano che si sale, l'ambiente si fa via via più selvaggio e solitario, anche se siamo ancora abbastanza vicini al fondovalle. Superato un tratto sassoso in cui il sentiero sparisce, giungiamo ad una zona di mughi, presso una forra: il sentiero rimonta con qualche svolta il fianco destro della valle, in vista delle
Pale di Misurina, che su questo lato mostrano due belle pareti. Dopo aver tagliato un canale e lo sbocco basale della Val delle Baracche, che sale a destra verso il Cristallino, giungiamo alla base del circo terminale della valle: in fondo si eleva il Piz Popena, di fronte le Torri di Popena chiudono la testata. Ignorato il sentierino che, oltre il torrente, porterebbe a Forcella delle Pale di Misurina per poi scendere al Lago, seguiamo ancorala nostra traccia, che per prati e mughi supera una bella conca. Rimontato a sinistra l’ultimo ripido pendio, arriviamo infine alla Sella e ai ruderi del rifugio. La salita ci ha richiesto poco meno di due ore; non è molto faticosa ed è molto frequentata anche d’inverno, con gli sci o le racchette. Da quassù, il panorama che possiamo godere è semplicemente straordinario, e chi lo desidera potrà esercitarsi a riconoscere, vicine o più in lontananza, alcune delle più famose vette delle Dolomiti Orientali. Se non siamo troppo stanchi e vogliamo vedere cosa c’è “al di là” della sella, potremmo avventurarci alla scoperta del Corno d’Angolo, una cima panoramica che richiede una salita breve e non troppo impegnativa, in una zona incontaminata con poche tracce. La salita è alla portata di quegli escursionisti che sono in grado di procedere su terreno non segnato e un po’ friabile; se però ci dà fastidio l’esposizione, forse il Corno non fa per noi. Dalla sella ci inoltriamo nel silenzioso circo sulla destra orografica della testata di Val Popena Alta. Lo rimontiamo sul fondo, affiancando a destra le Torri di Popena e scegliendoci il percorso più comodo fra erba, ghiaie e grossi massi, fino a raggiungere una caratteristica, piccola forcella della cresta, che sul versante opposto sprofonda inaccessibile verso il Rudavoi, fra il nostro Corno a sinistra e la Croda di Pousa Marza a destra. Dall’erbosa selletta, seguendo tracce sulle ghiaie ed alcuni ometti verso sinistra, saliamo per una cinquantina di metri di dislivello, con qualche breve e facile passaggio su roccia (possiamo restare in cresta o anche sotto cresta, verso la valle), fino all’esposto mucchio di blocchi che costituisce la cima del Corno, segnalata da un bastone. Quando torneremo sui nostri passi, seguiremo attentamente la via di salita, cercando di non smuovere sassi su chi ci sta davanti, e in pochi minuti riguadagneremo il circo sassoso, dal quale potremo tornare alla base soddisfatti per aver conquistato una bella cima dolomitica. Chi è rimasto ad aspettarci alla Sella, se ne ha voglia, in una mezz’oretta può salire ai piedi della Torre Nord-Est di Popena, per vedere le tavole di pietra recanti gli stemmi del Tirolo e della Repubblica Veneta, sistemate lassù nel 1754 dagli incaricati dei due governi per marcare il confine fra gli imperi.
Pur essendoci, come detto, anche percorsi alternativi, per il ritorno seguiremo in senso inverso l’itinerario di salita, ed in circa un’ora e mezza raggiungeremo nuovamente le nostre vetture.

Il "sentiero selvaggio" del Busc de r'Ancona

Nell'agosto 1977 per la prima volta, e poi in altre occasioni, scesi con gli amici l'imbuto roccioso nel quale scorre il Ru de r’Ancona, che dall'omonimo Busc (luogo della leggenda ampezzana del diavolo, che sarebbe scappato dalla valle forando la parete a cornate, perché non era stato capace di convertire a suo vantaggio gli abitanti) scende a incrociare la strada d’Alemagna all’altezza del Ponte de r’Ancona. L’imbuto caratterizza un bell'angolo del Gruppo della Croda Rossa, e scende per circa 500 metri di dislivello. Con un po' di disinvoltura, dato che il letto detritico è sconnesso e non ci sono tracce, è tutto transitabile, a parte un breve tratto. Abbastanza in basso, infatti, il torrente si espande in una piccola pozza, oltre la quale uno strapiombo di almeno 15 metri, percorso da una cascata, blocca l’ulteriore discesa. La chiave del problema risiede sul versante destro del canale. Tracce nel bosco raggiungono un vecchio cippo forestale e poi scendono nel solco sassoso del Ru, permettendo di scansare comodamente l’ostacolo e riprendere il percorso. Il canale, risalito da pochi anche perché è piuttosto franoso e faticoso, fu sceso con gli sci intorno al 1984 da Nina Ford, sola: l’avventura scialpinistica fu descritta sul semestrale “Le Dolomiti Bellunesi”. Tra le escursioni selvagge ancora possibili a Cortina, questa è consigliabile a persone esperte e disincantate, munite di buoni garretti e robuste calzature. Salire al Busc per la traccia militare che fiancheggia il canale a sinistra (qualche segno rosso), traversare il singolare arco roccioso e poi destreggiarsi tra i massi e le ghiaie fino alla strada: è un grande “sentiero selvaggio”, che non compare nei libri e permette di vivere un'esperienza di wilderness altrove ormai sparita.

lunedì 3 novembre 2008

Croda d'Ancona, cronaca della posa di due libri di vetta

Sapendo che mancava, il 22 agosto 2002 portai un libro di vetta sulla Croda de r’Ancona, il “fosco baluardo” nel gruppo della Croda Rossa che domina la Strada d’Alemagna - tra Fiames ed Ospitale - con canali franosi, cenge spioventi su cui regnano i camosci, rocce friabili, mughi e zolle erbose, ed offre una istruttiva escursione, con base di partenza a Ra Stua o in Val de Gotres.
Teatro di scontri durante la Grande Guerra, tracce dei quali sono ancora visibili sulle sue pendici, fino a qualche anno fa la cima non era molto visitata. Oggi, anche se - fortunatamente - non rientra fra le più gettonate delle Dolomiti, conta molte visite in più. Molti salitori sono locali e veneti - che scelgono la Croda anche come destinazione per gite sociali -, mentre sono rari gli stranieri.
Non è una meta per rocciatori, perché non ha pareti o spigoli degni di considerazione, né vie di scalata. La “via normale” è una camminata mediamente lunga, in cui si alternano fasce detritiche, erbose e sassose. Non esposta né difficile, l’ascensione, specie nelle stagioni intermedie, va comunque affrontata con l’attenzione richiesta da escursioni in quota.
Il 15 ottobre 2006, su segnalazione dell’amico guardaparco Giordano, tornai in vetta con un’amica per sostituire il libretto, già logorato dalle intemperie e quasi esaurito. Il nuovo quaderno, che spero duri a lungo senza essere imbrattato da troppe stupidaggini e volgarità, è posto in una scatola impermeabile a fianco della croce, protetto da alcuni sassi, e ben visibile per chi giunge in cima.
Ho sfogliato il ”vecchio” libretto, ma non proporrò statistiche né giudizi sui suoi contenuti. Mancano le firme d’alpinisti famosi e non ci sono grandi imprese, ma solo i segni discreti del passaggio di chi è arrivato fin lassù spesso con fatica e sudore, per godersi il panorama sulle Dolomiti, fino alla Val Badia e ai ghiacciai sudtirolesi. Estrarre un nome o una frase piuttosto che altri non avrebbe scopo. Noto invece che diverse persone sono state colpite dalla bellezza di quei luoghi; molte si affezionano alla cima e vi salgono più volte, anche nella stessa stagione, magari venendo da lontano. La Croda è meta anche di alpinisti in erba, indotti a conoscere la montagna con una salita che fa da efficace banco di prova (fu così anche per me, salitovi per la prima volta coi miei genitori a circa dieci anni di età).
Non mi avventuro quindi in deduzioni storiche o di altro tipo dai contenuti del libro di vetta, oggi custodito nell’archivio della Sezione CAI di Cortina. Auspico che la cima, nota ab antiquo ai cacciatori per la ricchezza d’ungulati della zona, e ai pastori, poiché domina la Monte de Lerosa, costituisca una piacevole meta per un momento di svago.
Per alcuni sarà un traguardo sofferto e importante, per altri un tirocinio in vista di altri cimenti, ma dovrebbe conservare sempre integro il fascino di cima selvaggia, teatro di cruenti episodi in guerra ed oggi simbolo di pace alpinistica. Sarebbe bello che la Croda restasse sempre fuori da iniziative di valorizzazione, e si mantenesse come la conosciamo: una vetta facile, praticabile fino a stagione inoltrata, che offre un gran panorama e vari motivi d’interesse, anche non atletico, per essere conosciuta.
Coloro che sceglieranno la Croda de r’Ancona per una salita dolomitica, potranno apporre con piacere il loro nome sul libretto di vetta, lasciando un segno della presenza su una cima interessante per il panorama che offre, le testimonianze storiche che custodisce e l’atmosfera di solitudine che avvolge i suoi versanti.

domenica 2 novembre 2008

Ra mè Ponta Fiames - 21 anni dopo una delle tante ripetizioni, 2 novembre 1987

Avrò salito la Punta Fiames almeno 70 volte, circa 50 per la ferrata Albino Michielli Strobel e una ventina per la via Dimai della parete sud-est. Alla fine degli anni ’80, giunsi al punto di battezzare la cima “ra mè Ponta Fiames” e citarla sempre e dovunque come una montagna amica e confidente. Fino all’8 maggio 1988. Quel giorno, infatti, stavo salendo con un amico la via Dimai. Giunti alla penultima lunghezza (la più delicata, caratterizzata da una parete con piccoli appigli, che permette di uscire fra i tetti visibili anche dal basso), mi stavo impegnando sul passaggio più duro quando fui impaurito dagli schiamazzi provenienti da una cordata che sopra di noi stava smuovendo alcuni sassi. Scivolai indietro sulla roccia, sbattendo un piede sul terrazzino dove l'amico faceva sicura, e mi procurai - per fortuna - una distorsione ad una caviglia. Fui costretto a risalire comunque la parete, superare l’ultimo tiro e mezzo con un piede solo, uscire in vetta, traversare in Forcella e scendere il ghiaione. Giunto nel bosco ai piedi del Pomagagnon, ottenni un passaggio da due ragazzi saliti con noi che mi avevano aiutato a togliermi da quella situazione, e giunsi a casa con loro. L’incauto incidente mi costò 35 giorni di gesso e un bel po’ di riabilitazione. Mi rimisi in piedi in fretta, tanto che a fine giugno feci già un'altra salita, ma per un lungo periodo della Fiames non volli più sentir parlare. Dopo d’allora ho salito ancora la Dimai e la Ferrata ma, chissà perché, il ricordo del malaugurato incidente che poteva avere conseguenze molto serie, cancellò per sempre dal vocabolario l'espressione “ra mè Ponta Fiames”.

lunedì 27 ottobre 2008

Per gli amici di montagna che sono andati avanti

Credo che nessuno possa dimenticare gli amici, i compagni, i paesani con i quali ha frequentato le montagne e che non ci sono più, soprattutto quando sono scomparsi in tragiche circostanze. Ricordo spesso forcelle, ghiacciai, montagne, traversate, vie in cui sono stato al fianco di amici che sono "andati avanti", e questi ricordi m'intristiscono sempre un po’. Da Angelo, mito dell'alpinismo dolomitico degli anni '30 che mi condusse su un sentiero attrezzato in Tofana ancor prima che fosse aperto, a Luciano che fu il mio primo capocordata sulla Torre Inglese; e poi Orazio e la lieta traversata ai piedi della Marmolada; Luigi, col quale salii il Teston di Monte Rudo e la Rocchetta di Campolongo; Claudio, compagno di cordata sul II Campanile di Popera, sul Catinaccio e a Forcella Fanis, caduto in montagna; da Alfonso, col quale divisi decine di escursioni e di scalate, a Luciano, che arrampicava meglio di me, ma ebbi l’onore di portare da capocordata sulla "rampa" del Ciavazes. Per non dimenticare mio Padre, che mi ha iniziato alla via dei monti, insegnandomi un cammino che dopo quarant'anni e più continuo ancora a percorrere. Forse le mie constatazioni sono ovvie, ma pensando a queste cose è inevitabile considerare la fragilità della vita e la pregnanza di certi momenti passati, che ci rimarranno vividamente impressi per sempre. Il mondo va avanti, e noi continueremo a frequentare la montagna finché ci sarà possibile, ma ripercorrendo passi già seguiti con gli amici che non ci sono più, sicuramente ci sarà sempre un pensiero anche per loro.

domenica 19 ottobre 2008

Il Santobua non era Santo, ma suo figlio ...

Lo spunto per questa nota è nato da un'immagine, pubblicata su “Wanderungen in den Dolomiten” di T. von Wundt, tradotto da P. Berti De Nat in “Sulle Dolomiti d’Ampezzo” (Cooperativa di Cortina, 1996). Nel capitolo dedicato alla traversata del Rauhkofel, si vede un gradone roccioso dal quale scende a corda doppia un alpinista: a destra, un compagno l’osserva. Secondo chi scrive l’immagine, scattata nel 1893, è al centro di un “qui pro quo”. In alcuni testi, i cui autori forse non lessero o capirono bene tutto il capitolo del testo originale, l’alpinista a destra è Mansueto Barbaria, guida ampezzana (e su questo concordo). Quello che scende a corda doppia, invece, sarebbe Santo Siorpaes, uno dei padri delle guide di Cortina e delle Dolomiti. Wundt però non parla di Santo, ma di “Santobua”. “Bua” è che la pronuncia tirolese di “Bube”, e significa “ragazzo, moccioso”: la traduttrice ha reso il termine con “il giovane Santo”. Al tempo, Siorpaes aveva 61 anni e si era ritirato dalle montagne, quindi il giovane Santo potrebbe essere stato suo figlio Pietro, classe 1868, o il fratello Giovanni, più giovane di un anno, entrambi valenti guide. La precisazione non toglie a Santo il gusto di un’eventuale impresa senile, che si sommerebbe a quelle compiute nel periodo migliore. Vuol significare che spesso. nella ricerca storica, una parola mal compresa può travisare elementi che agli appassionati interessano dappresso. La traversata del Rauhkofel o Monte Fumo (la cui conquista fu compiuta da W. Eckerth e M. Innerkofler il 2/VII/1883) dalla Val di San Sigismondo verso Valfonda, non la fa forse nessuno, anche se l’ambiente è affascinante. Nel 1891, Eckerth la suggeriva nel suo libro “Il Gruppo del Cristallo”: Wundt raccolse la sfida e realizzò la traversata con successo, ma quasi certamente uno dei suoi compagni non era quello che, leggendo male il tedesco, si è sempre supposto.

mercoledì 15 ottobre 2008

Mille e più pecore: uno spettacolo antico e sempre nuovo

Ai primi di giugno, tornando a Cortina, lo trovammo all'uscita dall'autostrada vicino a Pian di Vedoia; stava risalendo il Canal del Piave, verso i pascoli più alti. Doenica scorsa l'abbiamo ritrovato a Castellavazzo (era quasi sicuramente lo stesso), mentre scendeva in pianura. In ambedue le occasioni, un oceano lanoso, un migliaio e più di batuffoli bianchi con qualche isolata macchia marrone invadeva la trafficata Strada d'Alemagna, costringendo autobus, automobili, biciclette, camion, motociclette a rallentare, a fermarsi, dapprima a brontolare e poi magari a sporgersi dai finestrini per fotografarli e fissare un attimo di vita inusuale. Siamo nel 2000, e lo spettacolo cui possiamo ancora assistere in occasione della transumanza di dannunziana memoria ha un gusto d'antico, primordiale, vero. Aprono la sfilata cavalli ed asinelli trotterellanti (se ne vedono ancora, oggi, liberi come loro?); segue una coorte chilometrica di pecore ed agnelli bianchi e marroni, a fianco dei quali latrano i cani fieri del loro ruolo di guardiani, ed i pastori col viso cotto da sole lanciano stentorei fischi e richiami per controllare quel mare bianco. Ringalluzzito dall'erba e dai fiori brucati sulle nostre montagne, il gregge quasi si precipita, allegro ed impaziente, verso gli stazzi della pianura, dove aspetterà al chiuso un altro inverno, prima di riprendere (forse, chissà ...) la lunga, faticosa anche se asfaltata strada della montagna. E noi, costretti a sostare solo per qualche minuto sull'asfalto spesso scivoloso in attesa che mille pecore passino con la loro andatura, ancora una volta rimarremo a bocca aperta, davanti ad una processione antica, rumorosa, quasi commovente, che si ripete immutata da secoli e sembra sempre nuova.

martedì 14 ottobre 2008

34 escursionisti al "Giro de le casere de Ospedal"

Domenica 12 ottobre il CAI Cortina ha chiuso la stagione escursionistica 2008, organizzando insieme agli amici di San Vito di Cadore il “Giro de le casere de Ospedal”, un'escursione di mezza montagna alla scoperta degli antichi alpeggi del Canal del Piave, non più utilizzati ma ristrutturati e lodevolmente mantenuti in efficienza dal Comune di Ospitale di Cadore e dai volontari. All’appuntamento alle falde del Bosconero hanno partecipato 34 persone, che in una splendida giornata autunnale rallegrata da una temperatura molto gradevole, hanno compiuto l’anello delle tre casere, sostando brevemente in ognuna e pranzando al sacco presso la Casera Pra de Bosch. L’appuntamento, primo organizzato in sinergia con la Sezione del CAI più vicina a Cortina, ha conseguito un lusinghiero successo, e già si pensa all’organizzazione d’iniziative per l’anno prossimo.

sabato 11 ottobre 2008

Bepi Degregorio (1889-1978) e le sue montagne (in ladino ampezzano)

Ai 4 de noenbre del '78 - inze un dì che l fejea lujì ra crodes come l oro – moria Bepi Degregorio, del 1889, ruà da Predazo a Cortina poco dapò ra Prima Guera a fei l Maestro de Posta e 'sì in croda, epò restà ca. Par Anpezo, Degregorio l a fato tropo: dal '24, par cuarantasié ane, l é stà Presidente del CAI; l à scrito un grun de articole e doi libre, “Cortina e le sue montagne” e “Andar per Dolomiti”; l à fato l cronometrista, e soralduto l i à vorù ben a ra val che ra l aea azetà. Dal '24 al ’32, con Fritz Terschak e outre l à zarpì duta ra crodes d Anpezo e ciatà fora via noes. Ra prima, ai 8 de 'sugno del ’24, su ra Tore Anbrizora, un spizon outo solo cuaranta metre ma catio. Ai 13 de jenaro del an dapò, par el sò dì natalizio, l à darsonto da solo (fosc par prin) el Bèco de Mesodì. Senpre in chel an, Bepi e Fritz i s à ranpinà su par un camin del Aerou e una su par el paré est del Popena. Del 1926, con Erwin Merlet da Bolsan, el s à ranpinà su par el paré del Cianpanin de Federa che varda 'sò ra Val Formin. Del ’27, Degregorio e Merlet i à daèrto ra “Direttissima” su par el spigo sud-est de ra Còsta del Bartoldo; del ’31, Bepi e outre i à daerto na via duta al incontrare sul Sorapisc, e de setenbre del an dapò ancora una sul paré de ra Zima d Anbrizora che varda i Lastoi del Formin. Dapò d incraota, Bepi e Terschak i no s à pì ciatà a fei via noes, i à fato doa “primes” coi schie sul Dürrenstein e su ra Cresta Bianches, e Degregorio l à seguità a 'sì in croda, ai tende ai prime inpiante da schie e a scrie par anes. Del '47, de sessanta ane, l ea ancora su par ra Fiames, leà con sa pare de ci che scrie, e fin i ultime dis el s à godù ra conpagnia dei amighe che i vienia vorentiera a l ciatà inze ra sò ciaseta sote ra stazion, bateada Villa Soreghina.

mercoledì 8 ottobre 2008

Quattro ragazzi e un sasso sassone

Qualche anno fa, tre o quattro di noi partirono a piedi da Cortina, equipaggiati con un’attrezzatura alpinistica primitiva e con l’idea di dare la scalata ... al Sas Peron. Questo roccione, dall’oronimo tautologico di “Sasso Sassóne”, sorge lungo la sponda destra orografica del Boite a Nighelònte, proprio di fronte alla fabbrica “Lacedelli”. Se ne lambisce la base percorrendo il sentiero che congiunge Fiames (o meglio, il Ponte de ra Sia) con Cortina (o meglio, Ciadin de Sora). La sua sommità, piatta e quasi indistinguibile dalla strada, si raggiunge in un minuto dalla carrozzabile ex militare che dal citato Ponte de ra Sia sale al Lago Ghedina. Ovviamente, la prima ascensione della parete, giallastra e forse friabile, che volevamo compiere, non andò a buon fine, e fu certamente meglio così. Quello che ricordo e quasi mi commuove, era la sfrontatezza con cui, armati di ciarpame e scarsa tecnica ma tanto entusiasmo, avremmo voluto crearci, con almeno quindici anni d’anticipo sulle scoperte di Son Pouses e dei Crepe d’Oucera, una piccola “palestra” di arrampicata abbastanza vicina a Cortina, a bassa quota, dove speravamo di riuscire a progredire nelle nostre nozioni. Esse progredirono comunque, con risultati abbastanza diseguali per ciascuno dei membri del gruppo, tramite un semplice rimedio: salire, salire montagne vere e proprie, mirare in alto senza impegolarsi su sassi e sassoni disgregati in mezzo ai boschi dove, se nessuno si era mai avventurato prima di noi, ci sarà pure stato un motivo ...

giovedì 2 ottobre 2008

75, ma non li dimostrano!

L’estate 2008 riservava tre illustri anniversari della storia dell’alpinismo, legati alla stessa persona. Il 14 agosto, infatti, sono caduti i settantacinque anni da quando il triestino Emilio Comici e gli ampezzani Angelo e Giuseppe Dimai, dopo tre giorni d'impegno, domarono la superba parete nord della Cima Grande di Lavaredo, cinquecento metri di verticale che allora rappresentarono un “salto di qualità” per l’arrampicata dolomitica, e oggi sono ancora meta di scalatori provenienti da tutto il mondo. Meno di un mese dopo, ancora Comici - con Mary Varale e Renato Zanutti - realizzò un’altra importante prima salita sulle Tre Cime: lo spigolo sud dell’Anticima della Cima Piccola, denominato “Spigolo Giallo” per il colore della roccia e anch’esso divenuto una classica, oggi quasi usurata da migliaia di passaggi. Alla fine dell’estate 1933, comunque, Comici si aggiudicò una terza nuova ascensione, meno appariscente delle altre due ma certo non meno impegnativa: lo spigolo nord del Corno d’Angolo, nel sottogruppo del Popéna. Sono duecentoventi metri di roccia giallastra e friabile, che Comici salì il 20 settembre con Sandro Del Torso, trovando anche un passaggio di VI. Riguardo a queste conquiste dell'alpinismo dolomitico, a me rimane una piccola soddisfazione: essermi trovato indirettamente a ricordare la maggiore con uno dei protagonisti, all’epoca l’ultimo ancora vivente. Il 14 agosto 1983, infatti, ero diretto al Rifugio Auronzo alle Tre Cime di Lavaredo, deciso a salire da solo la via normale della Grande, cosa che riuscii a fare con successo. Davanti a me, nell’autobus, sedeva Angelo Dimai, ottantatreenne ma sempre in gamba, che si apprestava a compiere un’escursione in quella zona, con parenti e amici (quando si dice la coincidenza…) Non osai chiedergli nulla: ero certo che si dirigesse verso la “sua” parete nord, per contemplarla e rimembrare con emozione la bella conquista di cinquant’anni prima.

domenica 28 settembre 2008

Amedeo Girardi, albergatore e scalatore

Nel camposanto di Cortina, sulla lapide che commemora i cittadini benemeriti, compare anche il nome di Amedeo Girardi (1877-1933). Conduttore dell’Hotel Vittoria, alla fine del XIX secolo - mentre svolgeva gli studi ad Innsbruck – s’impegnò in politica a favore dell’irredentismo, cosa che nel paese natale non fu molto apprezzata. In questo momento, però, Girardi interessa poiché, tra le attività svolte nella sua non lunga vita, fu anche un discreto rocciatore. Nella cronaca dell’epoca d’oro dell’alpinismo ampezzano il suo nome appare, infatti, almeno tre volte. Il 17 VIII 1910, con il compagno Leopoldo Paolazzi e le guide Angelo Dibona e Celestino de Zanna (coetaneo del Girardi, dichiarato disperso in Russia nell’estate 1915), Amedeo portò a termine la prima salita assoluta dell’arditissimo Campanile Rosà, ad oriente del Colle omonimo. Alto un centinaio di metri, il torrione fu conquistato a prezzo di grandi sforzi e con l’impiego d’alcuni chiodi. In un giorno imprecisato d’ottobre del medesimo anno, l’albergatore si aggiudicò con le stesse guide la parete nord della Torre Grande d’Averau (Cima Nord): nella prima lunghezza, verticale ed esposta, la via presenta difficoltà di 5° grado, notevoli per l’epoca e superate senza l’uso di mezzi artificiali. Nel settembre dell’anno seguente, sempre con l’amico Dibona, a Girardi riuscì la prima ascensione di ambedue le guglie (Bassa e Alta, oggi molto frequentate) che costituiscono la Torre Quarta d’Averau. I due le scalarono per itinerari di difficoltà classiche. Altre notizie certificate sull’attività in montagna dell’albergatore Girardi per il momento non ne possiedo: certamente nel primo ventennio del secolo, florido di successi per l’alpinismo ampezzano, egli portò a termine altre imprese sulle cime di casa, contribuendo a valorizzare la storia locale e a far sì che il suo nome non fosse dimenticato.

Pini, montagne e silenzio e ... una pecora

Poco più di mezz’ora sopra la trafficata Strada d’Alemagna, quello fra Cortina e San Vito, c'è un luogo quieto, che sembra quasi immobile nel tempo. Forse il posto è noto soltanto ai locali, poiché risulta che lassù, in una radura alla base della Croda Marcora, un tempo sorgesse un “cason” a servizio di un pascolo ovino. Si tratta della Baita Peniés, citata sulle carte, ma i cui ruderi sono stati sostituiti, una quindicina d’anni fa, da una mangiatoia per ungulati con una spartana stanza ad uso riparo. Oltre la mangiatoia, raggiunta da una scoscesa trattorabile che inizia dove un tempo c'era il Ponte del Venco, a 8 km. da Cortina, e s’inerpica nella magra pineta che fascia i soleggiati fianchi meridionali del Sorapis, c’è una singolare pendice d’erba costellata di massi, che termina a quota 1427. In quel punto, uno dei tanti canaloni del versante si divide in due rami, che convogliano altrove le eventuali scariche di ghiaia e sassi, lasciando così pulito il pendio verde e solitario. All'inizio di aprile del 2006, nella prima gita annuale su terreno asciutto, lassù abbiamo incontrato … una grossa pecora che, visto il folto vello, doveva essere nei paraggi da molto tempo. Dapprima l'ovino pareva impaurito, poi ci ha fatto compagnia, brucando finché non siamo scesi. Peniés è un luogo distensivo, che offre una visuale a 180 gradi dal Penna al Pelmo, le Rocchette, il Becolongo, il Becco di Mezzodì, le Cinque Torri e la Tofana de Rozes. E’ un luogo minore, traguardo di una gita nella quale difficilmente si troverà qualcuno a contenderci il passo.

sabato 27 settembre 2008

Croda de Pousa Marza, conquista di Michl Innerkofler

Quattordici anni fa, condussi l’amico Roberto in un’esplorazione davvero interessante. Da tempo, infatti, mi frullava per la testa l'idea di salire sulla Croda de Pousa Marza, elegante corno dirimpettaio del Piz Popena che si ammira dal Ponte Rudavoi, fra Tre Croci e Misurina. Conquistata da Michl Innerkofler da solo, e subito dopo ripetuta con la giovane cliente boema Mitzl Eckerth il 29 luglio 1884, in centoventicinque anni la Croda è stata scalata anche da noti alpinisti e scrittori, fra i quali Dino Buzzati, Severino Casara, Claudio Cima, Luca Visentini. Si tratta di una salita esposta di 100 metri di dislivello, su roccia abbastanza solida e divertente. Giunti all’attacco dal Ponte Rudavoi per il consueto sentiero della Sella dell'ex Rifugio Popena, salimmo come da istruzioni all’invitante cengia orizzontale chiazzata d’erba e molto esposta, che taglia a metà la parete e permette di schivare il salto iniziale, strapiombante e inaccessibile “by fair means”. Imbragatici per bene in un tratto di cengia stretto ed emozionante, tirai con entusiasmo le tre lunghezze della via, che ci riservò uno strapiombo valutato III grado superiore e una paretina di III, entrambi superati con gustosi movimenti senza l'uso di chiodi. La sommità, friabile ma sorprendentemente comoda e spaziosa, ci offrì un vasto panorama su cime vicine e lontane, e ci rallegrò il fatto di essere fra i pochi saliti su una montagna sicuramente minore, ma non priva d’attrattive. Per scendere dalla Croda, non avendo indicazioni, attrezzai tre corde doppie su altrettanti spuntoni, che ci consentirono di rimettere piede sulla cengia e rientrare ai ruderi del Rifugio Popena, dai quali la strada verso casa é più che nota. Soddisfatto per aver ripetuto uno dei tanti itinerari del pioniere Innerkofler, su una montagna che non soffrirà mai d’affollamento, rumore, sporcizia, mi ripromisi - come sempre si fa con le mete più apprezzate - di ricalcare la vetta della Croda con altri amici. Ci sono passato ancora alla base, ma i miei passi si sono sempre diretti altrove.

mercoledì 24 settembre 2008

Il Becco di Mezzodì: storia e storie di una piccola montagna

Il 5 luglio 1872 la guida ampezzana Santo Siorpaes Salvador, all’epoca quarantenne e all’apice della forma, conduceva il capitano William Emerson Utterson Kelso, uno scozzese molto interessato alle Dolomiti, su una vetta di dimensioni ridotte, ma piuttosto grintosa: il Becco di Mezzodì, fin dai tempi antichi “meridiana” dei valligiani d’Ampezzo, che l'avevano soprannominato "el Bèco de ra Zieta", ovvero della civetta. Prima della conquista, Santo aveva circuito più volte il Becco, il cui unico versante abbordabile con i mezzi di allora non guarda la valle d’Ampezzo, ma la Val Fiorentina. Ciò nonostante, durante l’ascensione, i due dovettero superare, in scarpe chiodate, un camino stretto e liscio alto una ventina di metri, le cui difficoltà rientrano oggi nell’ordine del 3° grado inferiore. La seconda salita assoluta del Becco spettò a Gottfried Merzbacher, nell’estate 1878. Lo accompagnava ancora una volta Siorpaes, che aveva trovato la chiave del mistero. Storiografi cinici affermano che il germanico si trovò abbastanza a mal partito nel superare il liscio camino centrale. Non si sa quando sia stata compiuta la prima salita d’inverno della normale, che potrebbe essere quella dell’ungherese Anton von Csaky, accompagnato dalla guida Angelo Dibona Pilato, il 4 gennaio 1913. Sappiamo invece che la prima ascensione invernale solitaria fu quella di “Bepi” Degregorio, che il 13 gennaio 1925 festeggiò sulla vetta del Becco il suo trentaseiesimo compleanno. Centotrè anni e nove giorni dopo Siorpaes e Utterson Kelso, chi scrive poneva piede sulla friabile cima, realizzando la sua prima, indimenticata salita dolomitica. Trent'anni dopo quella scriteriata avventura adolescenziale, il 14 luglio 2005 ho calcato ancora una volta, forse la sesta, la vetta del Becco, commuovendomi quasi fino alle lacrime ...

lunedì 22 settembre 2008

Popena Basso, una cima rilassante

Ieri, dopo sei anni di assenza, ho rivisto una cima dove, nonostante tutto, non bazzicano in molti. E’ il Popena Basso, storica palestra di roccia di Misurina scoperta da Severino Casara nell'agosto 1926 e oggi cosparsa di vie d’ogni grado. La “via normale” è una poco più di passeggiata lungo una mulattiera militare ben conservata, 480 metri di dislivello che richiedono un’ora e mezzo. Dal Grand Hotel Misurina si sale fra alberi e mughi sino ad un ghiaione. Qui il sentiero, in un tratto erto e piuttosto franoso, lambisce la parete e per uno stretto canale erboso esce sulla dorsale della Costa Popena. Vari ometti aiutano a districarsi fra i fitti mughi e guadagnare la larga sommità che domina il lago e la Val Popena Alta, nonché le cime che l’attorniano. Svetta, possente, il Cristallino di Misurina. Il punto sommitale non viene raggiunto da tutti: le vie di roccia finiscono sull’orlo della parete, e agli scalatori interessa forse più arrotolare le corde e tornare a valle, che non "conquistare" una vetta piatta e mansueta. In cima, c’è un grosso mucchio di sassi ed un morbido tappeto verde, fra cielo e montagne: i cacciatori e i pastori valligiani vi salirono sicuramente in epoche remote, e sorprende che la parete verso Misurina sia stata scoperta solo 82 anni fa dal vulcanico Casara, che vinse il camino all’estrema sinistra. Nel XX secolo vi si sono sbizzarriti Mazzorana, Zanutti e i lecchesi, i nostri Scoiattoli, Molin di Auronzo e altri. Il veronese Cipriani, infine, ha azzerato a spit lo spazio per altre scoperte. In vetta, una cordata era appena uscita dal "diedro a sinistra degli strapiombi gialli”, una via di Mazzorana che anni addietro ripetei diverse volte. Oltre i due ragazzi, non c’era più nessuno: così abbiamo avuto la cima, avvolta dalla nebbia e dalle nuvole, soltanto per noi.

domenica 21 settembre 2008

60 cime per 60 anni, un traguardo originale

60 cime per 60 anni: potrebbe essere lo slogan di una nuova iniziativa, e magari fondare una moda per gli appassionati di montagna. Per ora, è la meta raggiunta da Roberto Vecellio, consigliere del CAI Cortina che gira per le crode da almeno mezzo secolo. Dal 15 settembre 2007 al 17 settembre scorso, momento in cui ha festeggiato il 60° compleanno, Roberto ha salito infatti 60 cime, diligentemente registrate in un taccuino. Con i familiari o con gli amici, cime poco note o fra le più gettonate delle Dolomiti, sommità nevose o pascolive, salite d'inverno con le ciaspe e magari anche la corda o d'estate solo con gli scarponi, montagne raggiunte arrampicando o a piedi, in Italia come in Austria, Croazia, Francia, Slovenia, Spagna. Il traguardo è stato toccato con la salita della Croda Camin, nel gruppo della Croda Rossa d'Ampezzo. Nessun primato, quindi, né concatenamenti sponsorizzati, né quote astronomiche (l'altezza massima raggiunta è quella del Grossvenediger, 3674 m.); nessuna impresa, anche se alcune cime hanno riservato passaggi delicati e d'impegno magari a quello turistico; soltanto, la grande soddisfazione per un fresco pensionato, di dedicare una montagna ad ognuno degli anni di vita che ha felicemente compiuto, sempre in forma e pieno di progetti, logicamente alpinistici, per il futuro. L'augurio è quello di ripetere l'iniziativa fra un decennio; dieci cime in più non saranno un grande impegno, ma dieci anni in più sulla gobba forse un tantino peseranno! Complimenti vivissimi a Roberto dagli amici del CAI Cortina, il sodalizio al quale dedica energie e tempo da quasi trent'anni, con la speranza che possa realizzare tante altre salite sulle nostre montagne.

mercoledì 17 settembre 2008

"Fonso Surio", amico di montagna

IL 19 dicembre 2001, a seguito di un imponderabile quanto tragico incidente occorsogli tornando da un concerto, periva Alfonso Colli, per gli ampezzani “Fonso Sùrio”.
Classe 1928 (compirebbe ottant'anni alla fine di settembre), in paese Alfonso aveva una certa notorietà per tre motivi: l’essere uno degli ultimi calzolai di Cortina, professione principale che esercitò fino a settant’anni; l’aver militato, fino al ritiro per cause anagrafiche, nella nostra Scuola Sci; l’aver suonato e sfilato per oltre un quarantennio nel nostro Corpo Musicale.
Io però vorrei ricordarlo principalmente come alpinista, amico e simpatico compagno di tante escursioni sulle nostre vette.
La passione per la montagna lo accompagnò fedelmente per tutta la vita. Più volte mi deliziai ascoltando i sapidi resoconti delle sue escursioni e arrampicate, soprattutto giovanili. Di tutte, me n’è rimasto particolarmente impressa uno, relativo ad una salita che egli compì a vent’anni o giù di lì.
Con l’inseparabile libro del Berti in mano, intorno al ‘50 Alfonso salì da solo la Via Wachtler (aperta ottant’anni prima sul versante ovest della Croda Rossa d’Ampezzo): un percorso che ha messo in crisi fior d’alpinisti, per lo svolgimento lungo e complicato e la roccia spesso insicura.
Negli anni ‘70, già ultra quarantenne, “Fonso” riprese ad arrampicare per alcune stagioni ad alti livelli, legandosi a compagni del calibro di Luciano Da Pozzo, Renato De Pol e Lino Lacedelli.
Nel suo “carnet” poté allora iscrivere itinerari di tutto rispetto: la “Diretta Dimai” sulla Torre Grande d’Averau, lo “Spigolo Giallo” sulla Cima Piccola e la Via Comici-Dimai sulla Cima Grande di Lavaredo, il Pilastro della Tofana di Ròzes, la Via Franceschi-Michielli sul Taé ed altre.
Dopo d’allora, riprese la sua carriera d’appassionato e instancabile camminatore: con lui ed altri amici, ci ritrovammo in decine d’uscite, soprattutto nel periodo che va dal 1984 ai primi anni ’90.
Tra le tante occasioni che condividemmo assieme, mi sovvengono – ad esempio - il Casamuzza in Pusteria, il Cogliàns e la Creta Grauzaria in Carnia, la ferrata del Col Rosà ancora innevata, la via seminuova del 1985 sul versante nord della Croda da Lago, la traversata Forcella Michele - Forcella Cristallino, la Forcella dei Sassi sui Tre Scarperi, la traversata delle Cime di Furcia Rossa per la Via della Pace, la Glődisspitze e la Simonyspitze in Austria, lo “spigolo del Paterno”, la ferrata sulla Pitturina in Comelico, il Pizzocco, il Sasso di Bosconero, il Sasso Rosso di Braies, il Sassolungo di Cibiana, la “nord” della Torre del Barancio, la normale della Torre dei Sabbioni.
Per me, più giovane di lui di trent’anni, il “Surio” fu un compagno affabile, grande innamorato della montagna, sempre pronto alla battuta e allo scherzo, tanto serio e concentrato nelle situazioni difficili quanto spensierato sulla via del ritorno e nelle memorabili tappe in rifugio o a fondovalle.
“Fonso” non amò mai i gruppi numerosi, la confusione, le gite sociali e soprattutto non ripercorse mai per due volte lo stesso tracciato, a parte poche belle cime o ferrate, sulle quali invece tornava volentieri anche da solo.
Negli ultimi tempi c’eravamo persi di vista, almeno in montagna. Oggi, approfitto dell’oc-casione per ricordarlo con molto piacere e gratitudine, attraverso i momenti vissuti insieme sulle nostre crode.

lunedì 15 settembre 2008

Freddo, pioggia e nevischio, ma i 125 anni del Nuvolau sono stati festeggiati ugualmente!

La temperatura drasticamente crollata, una pioggia insistente e una spruzzata di nevischio, non hanno frenato l'entusiasmo di organizzatori e amici per il 125° anniversario dell'apertura del Rifugio Nuvolau, festeggiato domenica 14 settembre a 2575 m. d'altezza, nell'antica struttura di proprietà del CAI Cortina. Una cinquantina di persone ha sfidato la giornata quasi invernale, giungendo a piedi al Nuvolau per intervenire alla celebrazione. La festa si è svolta in un'atmosfera intima e cordiale, ed è stata affiancata da una festicciola informale per i 70 anni di Uberto Alberti “Lelo”, proprietario e gestore del sottostante Rifugio Cinque Torri. Dopo il saluto del Presidente del CAI locale, Federico Majoni, il Parroco Decano Don Davide Fiocco ha officiato la Messa nella “stua” del Rifugio. È seguito un pranzo conviviale, allietato dalla musica e dalla voce di Guido Mainardi; nell'occasione, oltre al Direttivo della Sezione del CAI, erano presenti, fra gli altri, il vice Sindaco di Cortina Paola Valle, il vice Presidente delle Regole d'Ampezzo Roberto De Zanna e il vice Capostazione del Soccorso Alpino di Cortina, Roberto Santuz. Durante la giornata ha funzionato anche un ufficio postale in quota, in cui due gentili signore hanno distribuito un'apprezzata cartolina realizzata da Emilio Bassanin, con l'annullo a ricordo della ricorrenza. Conclusa la stagione, il Rifugio Nuvolau - lodevolmente gestito dal 1973 da Mansueto e Giovanna Siorpaes - si prepara a riaprire nel 2009, per un altro anno di lavoro al servizio degli escursionisti e degli alpinisti, che da lassù possono godere un panorama veramente unico sulle Dolomiti.

sabato 13 settembre 2008

L'albero bucato

Nel 1994 un Regoliere attento, che da anni va cercando fuori dei sentieri battuti preziosità storiche, naturalistiche e alpinistiche, a 1850 metri nella zona della Tofana III scovò una curiosità: l’“albero bucato”, vera e propria garitta con annesso trinceramento, che un soldato ignoto incavò pazientemente all’interno di un tronco sulle pendici degli Orte de Tofana. Da allora l’albero, difficilmente raggiungibile per chi non abbia gambe e non sappia almeno dove iniziare la ricerca, e soprattutto nella stagione calda, quando la vegetazione circostante lo soffoca, è divenuto una “star”. Visitato da moltissimi curiosi locali e non, descritto e fotografato su giornali e riviste, è stato persino munito di un “libro di vetta”, che registra le salite di appassionati. Quando giunsi lassù per la seconda volta (estate 1996), il complicato e poco intuitivo percorso d’accesso era stato addirittura agevolato in parte con spezzoni di nastro colorato da cantiere, annodati su alberi e arbusti! Mi chiedo sempre se questo “cancan”abbia avuto un senso. Sarà anche vero che l’albero bucato costituisce una rarità storica, un prezioso reperto bellico, un interessante monumento naturale, una bella testimonianza dell’ingegno umano, un rifugio nella solitudine che ha pochi eguali, ma forse a questo punto si dovrebbe tacerne. L’impervia pala su cui sorge fa parte di un ecosistema unico e fragile, ha già sofferto in guerra e non merita di essere sottoposta a ulteriori pressioni. Per di più, qualche scienziato, per salvare la memoria del reperto, è giunto a proporre di scalzarlo dall’alloggio naturale (dove resiste da quasi novant’anni) e “trapiantarlo” in un Museo a fondovalle … A mio parere, oggi sull’albero, dopo anni che se ne è parlato,è giusto sia calato il silenzio. Non pubblicizziamolo ancora né pubblichiamone più immagini, non segnaliamolo più di quanto è stato fatto, non costruiamo un divo. Chi lo conosce lo indichi pure ad altri, ma non si vada mai su in tanti, non si faccia baccano, non si sporchi. Chi visiterà quel luogo, sia tutt’uno con l’isolamento degli Orte de Tofana…

giovedì 11 settembre 2008

Bar Pierosà, un balcone sulle Dolomiti (in ladino d'Ampezzo)

Lassù, sote l col che i ciamon “El Picheto”, agnoche fin ‘sà alcuante anes l ea doi gance par se montà, na ostaria che r é deentada un restorante epò un ciasamento de lusso e tanta ‘sente che ‘sia coi schie, propio sun chi “canpete” agnoche ci che scrie, e trope come el, i à inparà a vienì ‘sò a spazagnee par el toco, l inverno passà i à daerto un local. El “Bar Pierosà”, che Paolo Bellodis Smalzo el s à insonià par undesc ane de vede fenì, l à fato ormai ra seconda stajon e l tienarà daerto deboto duto l an (ma via par l istade, Paolo, guida dal 1984, l à dito che el no po fei demanco de ‘sì in croda). Inze l piazal de Pierosà, cuatro pasc sora ra stazion, l é vienù su na ciaseta noa che ra sà da larià, con funestres da agnoche se vede fora ra val intiera. “Ogni funestra ra somea un cuadro” l à dito Paolo, canche l m à fato vede ra so fadia. Inze l Bar, projetà dal architeto Gretchen Alexander e fato su dai marangoi Majoni de Mano, l é toura pizores e cuadrates: sun duta ra plotes l é fotografies de crodes in bianco e negro, una pi bela de cher outra. Cardee de saé assei del mè paes, ma does no son stà bon de capì agnoche es é stades tolestes 'sò, e m à tocià me l fei dì da Paolo, che ra val el ra ’sira da anes anche el! Canche te te scentes, daos t as duto l Pomagagnon, a man dreta Tofana, visavì ra Tores de Potor, co r Ingleje che somea un corno, e pi indalonse Croda da Lago, ra Rochetes, insoma dute chi merle de dolomia che insoasea ra nostra val. Cemodo podone pensà che un sito coscita el no feje ra voia? A Pierosà và su vorentiera forestiere e anpezane; l é piaza da ‘suià pa ra famea, fin che mares e pares i ciapa l sol; l é da magnà e da bee. Ci che i piaje ra crodes el po fei doa ciacoles con Paolo, "Schirata" e ex Capo del nosc Socorso; Corso Italia l é coscita pede che vo esse manco de diesc menute a pè: ma fosc l é meo restà lassù fin che l sol el và a fiorì. Te sos pede ra ciases, ma te somea deboto de esse intrà ra crodes. Brao Paolo, e bon laoro!

mercoledì 10 settembre 2008

Piero de Jenzio, Bergfuehrer

Quest'anno è ricorso il centenario della scomparsa di un protagonista dell'alpinismo dolomitico fra il XIX e il XX secolo: Pietro Antonio Dimai Deo, noto in Ampezzo come Piero de Jenzio. Intento di queste righe è ricordare la bella figura di un pioniere della montagna, al quale sono attribuite 12 prime ascensioni, due prime invernali e molte salite su tutte le Dolomiti. Piero era nato a Chiave, ai piedi del Pomagagnon, l’8 settembre 1855 da Fulgenzio Dimai Deo e Maria Francesca Apollonio, in una famiglia donde uscirono ben 7 guide alpine. Il padre e lo zio Angelo, consacrati da Paul Grohmann, furono fra gli antesignani della scoperta dei nostri monti e il 28 settembre 1864 guidarono il viennese sulla più alta cima dolomitica, la Marmolada. Divennero guide anche Arcangelo (nel 1877) e Antonio (nel 1888), figli di Angelo, Angelo junior (nel 1922) e Giuseppe (nel 1925), figli di Antonio. Pietro viene autorizzato ad esercitare la professione nel 1874. Sarà il primo ampezzano a conseguire il traguardo a soli 19 anni: dopo di lui toccherà a Pietro Siorpaes (nel 1887), Celso Degasper (nel 1922), Bruno Verzi (nel 1945), Modesto Alverà (nel 1976), Massimo Da Pozzo (nel 1986). Con il padre, lo zio, il cugino, Santo Siorpaes (suo futuro suocero), Alessandro Lacedelli, Giuseppe Ghedina, Angelo Menardi e Angelo Andrea Zangiacomi (manca Giovanni Barbaria, patentato nel 1875), Piero compare nel primo elenco delle guide d’Ampezzo, pubblicato il 1° marzo 1876. Grohmann però lo aveva ritenuto degno d’attenzione già da tempo: “Devo ricordare i figli di Angelo e di Fulgenzio Dimai e cioè Arcangelo e Pietro Dimai, due bravi giovani. Penso che soprattutto il primo potrà diventare una guida eccellente”. Dimai fu attivo in montagna fino a tre mesi prima della scomparsa, avvenuta per malattia il 5 gennaio 1908. Riscosse numerosi successi, ed oggi il suo nome rimane scolpito a chiare lettere nel libro d’oro dell’alpinismo ampezzano e dolomitico.

lunedì 8 settembre 2008

Cronaca di un salvataggio fortunato

27 anni fa di questi giorni, ai primi di settembre 1981, alcuni ampezzani salirono sul Piz Popena con l'intenzione di recuperare il libro di vetta, posto lassù nell'estate 1910 e ricco di firme di illustri scalatori. Il documento è oggi custodito gelosamente negli archivi del CAI Cortina: oltre ad esso, gli ampezzani portarono a valle anche una bella serie di biglietti da visita, lasciati in vetta da alpinisti, in prevalenza stranieri, dalla fine del XIX secolo. Scorrendo i biglietti, molti dei quali, purtroppo rovinati dalle intemperie, si leggono a stento, ne individuai numerosi di guide locali. Il più curioso, scritto in francese, fu lasciato nel 1906 da “Ange Gaspari, guide du Club Alpin”, Angelo Gaspari Moròto, caduto sul Cristallo nel 1911 per salvare il cliente in difficoltà. Bortolo Barbaria Zuchin, che salì sul Popena ancora nel 1939, “speaks English”; Angelo Colle Neno è “guida del CAI”. Un altro apparteneva a Florindo Pompanin de Checo, guida dal 1905 al 1914, un altro interessante fu lasciato il 26 agosto 1899 da “Bruno Wolf cand. Iur.” (laureando in giurisprudenza), condotto in vetta da Alessandro Lacedelli da Melères, al tempo l’unica ancora in attività tra le guide che avevano operato al servizio dei pionieri delle Dolomiti. Nel 1899 Lacedelli aveva 63 anni, ed evidentemente, ammaliato dal fascino della roccia, saliva ancora le sue montagne. Dai biglietti, oltre a tanti nomi interessanti sia di guide sia di clienti, si evince che tra il 1800 e il 1900 il Piz Popena – montagna non semplice, la cui ascensione rimane sempre un’avventura lunga e complessa – era abbastanza frequentato. Le vie seguite allora (ma ancora oggi) erano due: quella tracciata da Whitwell con Santo Siorpaes Salvador e Christian Lauener nel 1870, e la “Via Inglese”, aperta nel 1898 da Phillimore e Raynor con Antonio Dimai Deo, Zaccaria Pompanin de Radeschi e Michl Innerkofler jr.

venerdì 5 settembre 2008

Caro prof, educazione, altro che consumismo! (Lettera al "Corriere delle Alpi, 5/9/08)

Il CAI Cortina, direttamente chiamato in causa come proprietario del Rif. C. Giussani a Forcella Fontananegra (Tofane), replica alla lettera indignata del “Prof. Oliviero Piccinelli Albino – Bergamo”, apparsa sul Corriere il 30/8. Il professore lamenta di aver dovuto pagare ben 3 euro per “sedersi al tavolo e consumare i propri panini al Rifugio, mentre fuori imperversava un tremendo temporale”. ”Rifugio alpino a 2600 e devo pagare 3 euro per mangiare al sacco? Ma dico scherziamo? La Sezione replica che, a 2600 come a 700 m. di quota, un rifugio alpino, gestito per passione ma soprattutto in vista di un introito, non è certamente a disposizione di chi entra, magari si accomoda con le proprie mercanzie davanti alla stufa e poi consuma dal proprio sacco, ma soprattutto pretende di farlo gratis! Il professore poteva certamente accomodarsi al tavolo, riparandosi dal temporale e godendo della stufa accesa, ma ordinare magari un caffè, per accompagnare i propri panini. Questo non è “il consumismo più becero, la sindrome dell’accumulo di denaro”, ci pare semplice educazione e rispetto del lavoro altrui. Qualsiasi rifugio alpino, dalle Alpi Marittime alle Giulie, si comporterebbe nella stessa maniera: il tariffario è stabilito ogni anno dal CAI Centrale in accordo con le Sezioni, è esposto al pubblico e funge da regola per tutti, sia per chi contribuisce alla gestione dei rifugi pranzando o soggiornandovi, sia per chi pretende di fruirne gratuitamente occupando i tavoli con i propri panini.
Respingiamo, ovviamente, l’ironia del professore, invitandolo - in caso d’altre soste in rifugi del CAI – a collaborare al funzionamento delle strutture anche con 3 euro, che comprendono le spese di riscaldamento, l’occupazione del posto a sedere, la pulizia dei pavimenti e quant’altro: altrimenti, esistono i bivacchi fissi, dove ognuno può accomodarsi al riparo dai temporali e consumare i propri panini senza nulla dovere a nessuno.
Distinti saluti.
CAI Cortina d’Ampezzo

giovedì 4 settembre 2008

Chiare, fresche, dolci acque ... a 2273 metri

Su questo blog (v. notizia del 4.02.2008) e su "Ciasa de ra Regoles", notiziario delle Regole d'Ampezzo, ho posto un quesito sulla nascita e la durata della straordinaria pozza d'acqua limpida e trasparente, che occupa una grotta artificiale al sommo dei Tonde de Cianderou, sulle pendici della Tofana III. L'articolo indusse alcuni lettori, che conoscono il sito per averlo visitato, a cercare una risposta all'interrogativo, che però - da un punto di vista strettamente scientifico - non ho ancora avuto. La gentile amica Silvana mi ha confermato che ha visitato da poco la pozza, che è sempre al suo posto, limpida e trasparente, e che il livello dell'acqua si attesta oggi sui 30 cm. circa. Sarà a causa dell'estate piovosa, o delle supposizioni ragionate sulla presenza di vasi comunicanti, o chissà per quale altra ragione storica o scientifica; il fatto è che i Tonde de Cianderou conservano una perla naturalistica d'indubbio interesse, e facciamo voti che a nessuno venga mai in mente di danneggiarla!

lunedì 1 settembre 2008

Successo per l'escursione del CAI Cortina del 31 agosto

I coordinatori dell'escursione ringraziano i soci e gli amici che domenica 31 agosto hanno preso parte alla salita del Corno d'Angolo, poco nota cima del sottogruppo del Popena: per l'ottima riuscita della giornata, che ha visto la ripetizione di un breve itinerario inedito per tutti i partecipanti, escluso uno; per l'affiatata ed allegra compagnia, formata da 19 persone venute anche da lontano; per la conclusione dell'escursione a Malga Misurina e a Pierosà.
Auspicando per il futuro altri incontri di questo genere, con l'occasione il CAI Cortina segnala l'ultima escursione di questa stagione, in compagnia degli amici di San Vito di Cadore.
Domenica 19 ottobre è previsto il "giro de le casere de Ospedal" (Pra de Bosch, Girolda e Valbona, gruppo del Bosconero), una gita senza difficoltà, nell'ambiente pastorale ormai abbandonato della mezza montagna in Canal del Piave. Info: segreteria@caicortina.org

sabato 30 agosto 2008

Eckhorn, chi ti salì per primo?

Chi mai sarà salito per primo sul Corno d’Angolo, e perché? La cima in questione, pilastro del gruppo del Cristallo, sorveglia dall’alto dei suoi 2430 metri la Strada 48 delle Dolomiti all’altezza del torrente Rudavoi. Si consegue dal lato nord, salendo dalla Sella di Val Popena Alta per un vallone erboso e sassoso e da ultimo per facili roccette, che in una cinquantina di metri adducono all’esile vetta. Fino agli anni ‘30, il Corno non interessò alpinisticamente nessuno, anche perché le sue pareti, pur problematiche, non promettono rocce molto solide. L’unico che ebbe il coraggio di affrontarle fu Emilio Comici, che il 20/IX/1933 superò verticalmente, con Sandro Del Torso, lo spigolo sud, realizzando una via di V grado con un passaggio più difficile e “pericoloso, perché difficilmente i chiodi tengono” … Bel biglietto da visita! Nel 1955 poi, due austriaci aprirono un itinerario sul lato sud-ovest, del quale non esistono notizie dettagliate. Potrebbe comunque essere migliore dello spigolo Comici, ma nessuno ha mai avuto l’interesse e l’ardire di andarselo a cercare. Dicevo, chi sarà mai giunto per primo sul Corno d’Angolo, Eckhorn in tedesco, e perché? Cacciatori, penso; forse anche il valoroso Michele Innerkofler, che centoventicinque anni fa si aggirava inquieto tra quelle vette, dove salì da solo la vicina Croda de Pousa Marza e una delle due Torri di Popena. Lo spigolo era fuori della sua portata, ma sul Corno da nord poteva arrivarci eccome, magari seguendo le tracce di sangue lasciate da un camoscio ferito! Questo del Corno d’Angolo, la cui “via normale” – peraltro intuitiva: per trovarla, basta seguire gli ometti e le tracce - nelle guide alpinistiche circolanti non si trova , è uno dei piccoli “vuoti” della storia alpinistica dolomitica, che non è facile dipanare.

giovedì 28 agosto 2008

Rifugio Nuvolau: 125 anni di storia e una statua

E' ricorso da poco il compleanno del Rifugio Nuvolau, primo ricovero costruito in quota nel territorio d’Ampezzo, eccettuato il più antico Ospizio Falzarego sulla strada del Passo omonimo.
Il genetliaco è particolare, forse più familiare agli ambienti alpinistici dell’area germanica: non si ricordano, infatti, né i cinquanta né i cento, bensì i 125 anni del Rifugio, che aprì i battenti agli escursionisti l’11 agosto 1883.
Facciamo subito un po’ di storia. All’inizio degli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, il colonnello Richard von Meerheimb di Dresda, che era riuscito a debellare una penosa malattia alle gambe trasferendosi in Ampezzo, volle tramandare ai posteri la sua riconoscenza alla valle che l’aveva ospitato, e la cui aria benefica aveva potuto respirare per lunghi mesi.
Il generoso Meerheimb elargì quindi alla locale Sezione del Club Alpino Tedesco e Austriaco, sorta da pochi mesi ma già dedita con fervore alla valorizzazione del territorio di competenza, una discreta somma di denaro, fissando l’obbligo d’impiegare il contributo per costruire un ricovero alpino.
Sotto la presidenza di Giuseppe Ghedina Tomasc, il celebre pittore che nell’occasione realizzò una splendida carta dei sentieri della valle, sorse così il primo rifugio di Cortina, autentico nido d’aquila edificato sulla sommità di un monte, rinomato per il panorama a giro d’orizzonte che offre: il Nuvolau.
Già Paul Grohmann, infatti, aveva decantato il Nuvolau nelle sue “Wanderungen in den Dolomiten” del 1877, con queste parole “… Un mare di montagne è davanti a noi, e sarebbe inutile volerle elencare o descrivere. Soltanto la macchina fotografica potrebbe fissare le nostre impressioni. Alla nostra destra e sinistra abbiamo, ben nitide, le due cime del Nuvolau (l’Averau e la Gusela, N.d.A.). Imponente e grandiosa, davanti, la vedretta della Marmolada, tutta intera, ed i selvaggi contrafforti di Serauta e del Vernel. Più a destra, il gruppo del Catinaccio, il Sella col Boè, la Gardenaccia e la Croda Rossa. Altre montagne si levano davanti a questa cerchia possente, la catena del Monte Cappello (il Sas Ciapel) fra Fedaia e Livinallongo, il verde Passo del Pordoi, il Sasso di Stria, i Settsass, il Col di Lana ecc. … A sinistra, oltre la Marmolada, il gruppo delle Pale di San Martino con un piccolo ghiacciaio, poi il Pelmo, e via via l’Antelao, il Sorapiss, la Punta (la Cima) Bel Pra, i Cadini, il Cristallo, le tre Tofane. In fondo, lontano, il Duranno e cime nevose a intervalli. E questi ora citati non sono che i giganti che ci circondano …”
Memore del gesto del colonnello, la Sezione Ampezzo battezzò la costruzione “Sachsendankhütte”, ossia il “rifugio del ringraziamento del Sassone”. La festosa giornata inaugurale, purtroppo, fu rattristata dalla scomparsa della guida alpina Giuseppe Ghedina Tomasc, omonimo del Presidente del Club Alpino e primo salitore della Torre Grande d’Averau, il 17 settembre 1880. La guida appena quarantunenne precipitò, infatti, per motivi non molto chiari, dalla terrazza antistante il Rifugio, che cade a piombo sul Masarè dell’Avoi.
Trovandosi in prossimità della prima linea del fronte italiano, durante la Prima Guerra Mondiale il rifugio fu pesantemente danneggiato. La Sezione del CAI Cortina, riconfermata proprietaria al termine del conflitto, lo rimise a nuovo, con un lungo lavoro e sopportando ingenti spese, e soltanto nel 1930 riuscì ad offrire agli alpinisti una capanna più grande e accogliente di prima.
Circondato e quasi oppresso da altri rifugi, impianti di risalita e piste, oggi il Nuvolau è ancora uno degli edifici d’alta montagna più apprezzati delle Dolomiti. Vi si sale sempre e soltanto a piedi, la gestione trentennale della famiglia di Mansueto e Giovanna Siorpaes è preparata e cortese, e anche se il rifugio non è un punto di partenza per affrontare scalate di rilievo, il grandioso colpo d’occhio che si schiude dalla cima del monte, soprattutto in occasione della levata del sole, rende sempre emozionante l’ascensione lassù.
Una curiosità: fra i massi poco lontano dal rifugio, campeggia una singolare scultura bronzea, che reca l’iscrizione “Per la 800^ salita al Nuvolau – “Non fatica ma gioia” 1975”, e vanta una storia interessante e perlomeno curiosa.
La statua, opera dell’artista Natalino Sammartin di Montecchio Maggiore, fu fatta installare nell’estate 1975 da Riccardo Dalla Favera di Alano di Piave, che intese celebrare la sua … ottocentesima visita alla panoramica montagna, festeggiata coi gestori e gli amici agordini, e in occasione della quale lasciò anche un contributo al CAI per la ristrutturazione del rifugio.
Il generoso donatore aveva salito il Nuvolau per la prima volta negli anni ’30, durante il servizio militare volontario con i bersaglieri. Al Rifugio, riaperto da poco dopo la ristrutturazione postbellica, il giovane era arrivato salendo in bicicletta da Cortina attraverso il Passo Giau, e scendendo poi a Caprile.
Dalla Favera ebbe una vita movimentata. Laureato in agraria e veterinaria, appassionato ciclista, corse anche con Gino Bartali. Fu prigioniero per sei anni in India e al rilascio, quasi cadavere, fu ospitato per due mesi dal medico condotto a Colle Santa Lucia. Affezionatosi al paese, dal 1946 ogni anno vi trascorse le vacanze, eleggendo a cima preferita proprio il Nuvolau.
Dopo la posa della scultura, Dalla Favera non l’abbandonò, salendovi ancora per molti anni, fino a toccare l’incredibile primato di 1129 ascensioni. A Colle era ospite dell’Albergo Posta, fino al 1976, quando poté costruirsi una dimora assai originale, abbellita con numerose statue dell’amico Sammartin.
Nel 2000 si stabilì in paese in modo definitivo, perché era suo desiderio chiudere lassù l’esistenza, e vi morì novantenne nel giugno 2002. Riposa nel cimitero sul colle, e soltanto la chiesa gli toglie la vista del suo amato monte.
Nel ricordo di lo chi conobbe, Dalla Favera rimase un atleta fino a tarda età; saliva al rifugio in calzoni corti, amava bere una grappa zuccherata e pranzare sempre allo stesso tavolo. Spesso i clienti lo riconoscevano, per averlo visto pedalare sui passi dolomitici. I libri del Nuvolau riportano tutti i suoi passaggi, e molti collesi lo ricordano con simpatia e con ammirazione.
(da Rivista Cortina, Estate 2008, modificato: grazie!)

Un gradito incontro

Ieri, dopo molti anni da quel 22 agosto 1991 al Brandenburgerhaus (il più alto rifugio del Tirolo austriaco, ai piedi della magnifica Weisskugel), ho rincontrato Fabio. L'infaticabile alpinista e prolifico scrittore di montagna sta lavorando ad un nuovo libro sul Cristallo, al quale assicurerò con piacere tutta la collaborazione possibile. Intanto, in questa strana estate Fabi0 e un amico pusterese si sono "macinati" tutte le venti e passa vie di roccia e ghiaccio - oggi in gran parte neglette - del Monte, più il Popena. Mi ricorda il leggendario Michl Innerkofler, che salì sul Cristallo, peraltro quasi sempre a pagamento, venti volte l'anno per un quindicennio ... Un po' di invidia la nascondo, da "autoctono" salito finora lassù "solo" cinque volte! Con Fabio ci seguiamo a distanza: io mi servo dei suoi preziosi libri sui monti dell'Alto Adige per le mie scorribande, lui tiene d'occhio il blog e quanto scrivo in giro. L'anno prossimo ci siamo ripromessi di tornare insieme a quota 3216, dove manco dal 1996!

Amarezze

Qualche volta mi pare di essere un po' nauseato dalla Montagna. Una certa pigrizia, forse colpa degli anni che corrono; qualche acciacco, che insorge magari proprio d'estate; gli impegni legati al lavoro e al volontariato, sempre più spesso m'impediscono di realizzare determinati progetti, che tempo addietro studiavo e attuavo con determinazione ed entusiasmo. Un tempo scrivevo poco e giravo molto: oggi, parlare e scrivere di montagna mi fa sempre bene al cuore, ma spesso non basta più, perché le stagioni volano. Che fare? Una cosa comunque è sicura: quando sopporto troppo a lungo certe miserie del mondo, la bassezza e la mediocrità di qualcuno, "mi basta un sasso tra le mani e sono felice" (Renato De Pol, 1972).

mercoledì 27 agosto 2008

Piz Popena '95

Domenica 27 agosto 1995, con l’amico Carlo salivo per la prima e unica volta la via normale del Piz Popena, uno dei “tremila” più affascinanti delle Dolomiti. Più che le difficoltà tecniche, non ho dimenticato la lunghezza e l'impegno dell'itinerario, nonché l'ambiente severo e complesso, da consigliare a chi ama ascensioni solitarie e “primigenie”. Dopo d’allora sono passato altre volte ai piedi del vasto versante orientale del Piz, scalato dal “mio amico” Santo Siorpaes Salvador con il collega Christian Lauener ed il cliente Edward R. Withwell il 16 giugno 1870. Scrutando dal basso le lunghe cenge e le ampie pareti della montagna, ho provato una grande soddisfazione per la giornata d'allora, mista all'inevitabile e ricorrente pizzico di nostalgia per l'unicità del momento.

venerdì 22 agosto 2008

22 agosto 1905: Antonio Dimai Deo

Cento e tre anni fa, il 22 agosto 1905, le guide alpine ampezzane Antonio Dimai Deo e Agostino Verzi Sceco salivano con le sorelle ungheresi Ilona e Rolanda von Eotvos la parete sud del Teston del Pomagagnon, terza elevazione del settore O dell'omonima dorsale a N di Cortina (650 m. con due lunghezze di V o V+). Dopo quella salita, il Teston fu battezzato "Campanile Dimai", in ricordo della forte guida che per primo ne conquistò la parete, scomparsa a 82 anni nell'autunno 1948 e della quale ritengo non sia stato scritto ancora a sufficienza.

mercoledì 20 agosto 2008

La Punta Nera ha fatto una vittima

La Punta Nera ha fatto una vittima. Una delle cime a me più care, che penso di conoscere ormai abbastanza bene e sulla quale sono salito 25 giorni fa con un nuovo libro di vetta, ha voluto anch'essa una vita. Il 19 agosto Mauro Baldassarini, 56 anni, piccolo imprenditore di Senigallia, è caduto scendendo da solo lungo il tratto iniziale della via comune, non molto difficile ma con una "pecca": il fatto che strapiomba per una quindicina di metri sul sottostante sentiero n. 215, poco lontano dalla Sella di Punta Nera. Non so se questa sia la prima disgrazia sulla via, aperta dalla guida ampezzana Alessandro Lacedelli "Sandro da Meleres" già nel 1876, che - pur richiedendo le debite precauzioni - alla fin fine si risolve in 125 metri friabili di 1° grado. "La montagna non fa sconti", è lo slogan coniato dai soliti soloni per quest'estate funestata da tante, troppe disgrazie sulle rocce. Così, ora anche la solitaria Punta Nera è entrata nella schiera delle montagne che non hanno "fatto lo sconto" ad una distrazione, un attimo di leggerezza, forse alla poca preparazione o alla sfortuna di un solitario. Chissà quanto il povero Baldassarini avrà goduto la salita su quella cima, pilastro solitario che svetta contro il cielo tra Ampezzo e Cadore!

martedì 19 agosto 2008

Due ricorrenze del 19 agosto

19 agosto 1908: Bortolo Barbaria "Zuchin" e Giuseppe Menardi "Berto" scalano per primi, con Francesco Berti e Ludovico Miari, il camino nord del Becco di Mezzodì (IV), che in onore del capocordata si chiamerà "Camino Barbaria". Dopo la prima ripetizione (Ilona e Rolanda von Eotvos con Antonio Dimai "Deo" e Agostino Verzi "Sceco" , 31 luglio 1909), il camino conoscerà momenti di notorietà nell'epoca aurea dell'alpinismo; oggi è praticamente dimenticato. A causa di un probabile errore di trascrizione, fin dalla prima uscita delle guida di Antonio Berti "Dolomiti Orientali" (1928), la conquista del "Camino Barbaria" viene datata al 2 settembre 1908, mentre il libro di vetta del Becco di Mezzodì conferma che avvenne il 19 agosto.
19 agosto 1909: Francesco Jori, guida fassana, e la boema Kathe Broske scalano per primi l'inconfondibile spigolo sud-est della Punta Fiames (V), all'epoca la via più impegnativa d'Ampezzo. Ripetuto per la prima volta soltanto nel 1922 da Angelo Dibona "Pilato" ed Enrico Gaspari "Bechereto" con Giulio Apollonio "Varentin" e Agostino Cancider, lo spigolo è ancora oggi una delle scalate più amate e frequentate delle Dolomiti.

mercoledì 13 agosto 2008

In montagna d'agosto: il cartello di Roberto Belli

«Signori dei funghi, chiedo un po' più di rispetto per la proprietà privata». E’ l'invito che l’amico sanvitese Roberto Belli Codan ha rivolto in modo visibile, con un cartello, a tutti coloro che sui prati e nei boschi delle nostre montagne entrano, calpestano, frugano creando vere e proprie corsie, dove tutto o quasi viene distrutto. Ai bordi di un terreno di sua proprietà non recintato, a Tiera de Sora in quel di Borca, nei giorni scorsi Roberto ha piazzato un cartello, che oltre alle classiche e ormai ignorate prescrizioni ("proprietà privata", "divieto d’accesso"), richiama un'altra questione: «Su questo terreno Madre Natura ha impiegato millenni per creare un ecosistema perfetto, adatto alla crescita dei funghi, delle zolle, delle specie rare di fiori, fragole e lamponi. Il proprietario, che potreste incontrare contravvenendo a questo divieto, gradirebbe non venissero calpestati o raccolti» L'invito, ovviamente, è indirizzato sia ai turisti sia ai residenti, e riguarda l'"assalto" indiscriminato ai frutti della natura, ma in particolare ai funghi. «Qualcuno - dice Roberto - dovrebbe spiegarmi perché la tassa sulla raccolta va solo a vantaggio dei Comuni e della Regione, anziché dei legittimi proprietari dei terreni». C'è poi la questione della sporcizia che lascia chi usa le aree private per pic-nic, giochi e altro. «Per questioni d’estetica e di rispetto, spesso devo raccoglierla io e portarla a valle», ha raccontato Roberto, deluso che le campagne avviate per l'utilizzo corretto dell'ecosistema montano siano spesso impunemente ignorate. «Tanto da costringermi a ricorrere ad un vistoso cartello e alla stampa, per ricordare che la tutela dell'ambiente la garantiamo soprattutto noi proprietari, regolieri e non, con fatica, dispendio di mezzi e di denaro».

(dal "Gazzettino" – edizione di Belluno, 13.8.2008, articolo di Bortolo De Vido. che ringrazio!)

31 anni fa, il camino Casara sulla Torre Toblin

Sull'onda dei ricordi ... Esattamente trentun anni fa, con mio cugino Enrico, salii la Via Casara-Meneghello-Baldi-Rosenberg (aperta il 12 VIII 1923), lungo il camino nord della Torre Toblin, il monolito celebre in guerra, che si eleva alle spalle del Rifugio Locatelli alle Tre Cime. La via ce l’aveva suggerita il primo salitore, al tempo ancora vivente; sono soltanto 100 metri di III grado, su roccia umida e spesso instabile (una “cloaca di corvi”, secondo l'alpinista germanico Richard Goedeke), che sicuramente non fanno storia. Per noi però (19 anni io, 17 Enrico) fu una delle prime vere arrampicate in ambiente; la facemmo in alternata, e nel camino piantai uno dei pochi chiodi della mia carriera. In discesa seguimmo l’avventurosa via di guerra, allora ridotta ad una serie di putride scale di legno e chiodoni di ferro, che due anni dopo divenne il famoso, e faticoso, ”Sentiero delle scalette”. Per venire a capo della nostra impresa impiegammo quasi una giornata, e - avendo perso la corriera - alla fine ci toccò anche scendere a Misurina a piedi … Come non potrei conservare un ricordo indelebile della Via Casara sulla Torre Toblin?

martedì 12 agosto 2008

“150 anni di alpinismo”. Mostra fotografica sugli uomini che hanno segnato la storia alpinistica di San Vito di Cadore

Il CAI di San Vito di Cadore ha ideato la mostra (curata da Ernesto Majoni, Alberto Bonafede e Aldo Menegus e con allestimento e grafica di Giuseppe Ghedina), a seguito delle ricerche svolte per la stesura del volume “Da John Ball al 7° grado” di Ernesto Majoni, edito nel 2007 per il 150° anniversario della prima salita ufficiale del Pelmo. L’occasione ha permesso di individuare numerosi personaggi ed episodi legati a quella parte della storia sanvitese che concerne l’alpinismo. Le Dolomiti conseguirono fama internazionale grazie a studiosi ed esploratori provenienti in gran parte d’Oltralpe, da Ball a Grohmann e altri, che al rientro dai loro viaggi documentavano con fotografie, relazioni e schizzi le esplorazioni compiute. Furono quindi gli stranieri ad avviare la scoperta e la conquista delle Dolomiti; certo è che, accanto a loro, anche in Oltrechiusa compaiono preziose guide locali, che conoscevano a menadito ogni cengia, forcella, passaggio delle loro montagne. Costoro scoprirono che le cime – giudicate di scarso interesse dai valligiani, poiché prive di vegetazione e ricche soltanto di rocce e ghiaioni - potevano rivestire un ruolo nuovo, che migliorò l’economia e le condizioni di vita dei paesi dando inizio al turismo alpino.
Con la mostra si è voluto riscoprire e riordinare - per quanto possibile - questi personaggi ed eventi, in modo semplice e chiaro, rivalutando il ruolo d’ogni pioniere nell’ambito paesano, con l’intenzione di far conoscere i protagonisti dell’alpinismo sanvitese, di parte dei quali purtroppo sta svanendo la memoria. I pionieri erano perlopiù boscaioli e cacciatori, esperti del territorio in cui vivevano. Molti si valsero delle proprie conoscenze intraprendendo il nuovo mestiere di guida alpina, ben più vantaggioso delle professioni fino allora esercitate, legate in prevalenza a campi, boschi e pascoli. Intorno al 1860, a San Vito alcuni valligiani iniziarono a guidare turisti sull’Antelao e sul Pelmo, e poi manmano su vette sempre più difficili, spingendosi anche nelle valli limitrofe, dove strinsero amicizia e collaborazione con i colleghi locali. Da Matteo Ossi, cacciatore che toccò l’Antelao già nel 1851, a con Giobatta Giacin “Sgrinfa”, che nel 1857 condusse Ball alla conquista del Pelmo, e poi Luigi Cesaletti, Giobatta Zanucco, Giuseppe e Arcangelo Pordon, le guide di San Vito richiamarono alpinisti italiani e stranieri, che si servirono della loro esperienza e audacia per imprese di rilievo. Fino al termine della fase “storica”, San Vito ha dato i natali a una ventina di guide e portatori, che hanno felicemente contribuito alla redazione del “libro d’oro” dell’alpinismo dolomitico. Uomini e imprese sono stati catalogati con un approfondito lavoro di ricerca; si tratta perlopiù di nomi ignoti al vasto pubblico, che si prestarono come portatori e guide senza clamori, favorendo comunque l’esplorazione e la conoscenza della valle del Boite. Con questo lavoro, il CAI intende rivalutare e ufficializzare il ruolo che le guide e i portatori locali meritano, definendoli “pionieri dell’alpinismo sanvitese”. La ricostruzione storica è stata compiuta con la speranza di non aver tralasciato alcuno degli antesignani, sinora forse mai considerati e studiati nella dovuta maniera, che rivestono un ruolo importante nelle vicende della valle.
La seconda parte della mostra descrive l’evoluzione dell’andar per montagne a San Vito dopo la 2^ Guerra Mondiale. Si è ritenuto di far coincidere l’avvio dell’alpinismo moderno col secondo dopoguerra poiché, dopo l’uscita di scena degli ultimi pionieri, nel 1947 San Vito fu scosso da una novità. Sull’esempio degli Scoiattoli ampezzani, dei Ragni di Lecco e Pieve di Cadore, dei Pell e Oss di Monza, sorse, infatti, l’Associazione Caprioli, che ancora oggi personifica l'attività sportiva locale. Nata da un sodalizio fra compaesani ("… i più giovani avevano appena 15 anni, e il più vecchio 25 e si era appena rimesso da un tremendo congelamento che lo aveva colpito nella ritirata dalla Russia …"), l’associazione – in cui, all’inizio, si praticavano soltanto la scalata e lo sci - è cresciuta coltivando numerosi sport e facendo crescere l'intero paese. Fra i soci fondatori, dai quali sono usciti ottimi scalatori, risaltano Marcellino Fiori, per anni responsabile della stazione locale del Soccorso Alpino; Gianni Bonafede, guida con numerose vie all’attivo; Nicolò De Sandre, che nel 1997 - con Bortolo De Vido - dedicò ai “Caprioli” un volume celebrativo; Angelo Galeazzi, Giulio e Tomaso Menegus, Gianni Palatini, Giulio De Lucia e “Gigi” Colli, prima guida patentata a San Vito nel dopoguerra, scomparso appena trentenne. Dalla fine degli anni ’50, fra chi arrampica a San Vito s’impongono due ragazzi molto dotati. Natalino Menegus, che ci ha lasciato lo scorso 3 maggio, realizzò numerosi itinerari di grande difficoltà, sia sui monti di casa che altrove; fu fra i protagonisti della prima invernale della Via Solleder sulla parete N.O. della Civetta, guida alpina e pioniere dell’elisoccorso. Marcello Bonafede, rocciatore altrettanto forte ed umile, compagno dell’ampezzano Ivano Dibona in varie imprese ed oggi ancora attivo, ha ripetuto – molto spesso in cordata con Menegus - le maggiori vie dolomitiche e alpine, aprendone molte di nuove. Vanno poi ricordati almeno Emilio Menegus “Longo”, spesso in cordata con Natalino e Marcello, Marino Ossi, guida alpina e gestore da un ventennio del Rifugio San Marco, Arnaldo Pordon, Gianluigi De Sandre, Ivo Pordon.
Oggi l’alpinismo si è notevolmente modernizzato, dal vestiario ai materiali, dai metodi di preparazione alla scelta di cime, pareti e vie su cui divertirsi. Sono state scoperte ed attrezzate palestre di roccia per l’allenamento, sulle cui difficoltà si destreggiano giovani sanvitesi, che iniziano a scalare ben oltre il limite con il quale la precedente generazione spesso ha coronato la carriera. Negli anni ’80 è rinato il Gruppo Rocciatori Caprioli, per merito di valenti appassionati che hanno riportato il nome del paese alla ribalta dell’alpinismo: fra loro risaltano Mauro Olivotto, Alberto Bonafede e la scrittrice Antonella Fornari. Numerosi giovani abbracciano l’arrampicata libera, spesso con risultati d’alto livello (qui vanno citati soprattutto Michele Ossi e Alessandro Fiori), e – dopo sporadiche, quasi pionieristiche esperienze - ha preso piede anche in Oltrechiusa la voglia di cimentarsi sulle cime più alte ed impegnative del pianeta. Di recente, soprattutto con Marco Sala, il nome di San Vito è salito sul Cho Oyu, sullo Shisha Pangma, sull’Everest, e poi in Africa, sulle Ande, sull’Himalaya, in Karakorum; dovunque ci siano terreni da scoprire e sui quali l’uomo possa confrontarsi con la natura.
Quale futuro si può immaginare ora, per l’alpinismo di San Vito? Senza dubbio, quello comune a tante zone alpine: finché ci saranno montagne e uomini che le abitano, qualcuno avrà sempre voglia di salire più in alto, sfidare le difficoltà, misurarsi sulla roccia, sul ghiaccio, nel sole e nel vento, divertirsi sui sassi a fondovalle così come dare il massimo sulle cime più alte. È quanto il CAI di San Vito auspica, con l’aiuto della mostra: un godimento della montagna duraturo, appassionato e rispettoso dei valori storici e delle ricchezze che rendono le Dolomiti un “unicum” irripetibile.
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“150 anni di alpinismo”. Mostra fotografica sugli uomini che hanno segnato la storia alpinistica sanvitese, da Matteo Ossi al Gruppo Rocciatori Caprioli. San Vito di Cadore, Sala esposizioni dell’Asilio Vecchio, 8 agosto - 21 settembre 2008. Aperta tutti i giorni dalle ore 18.00 alle ore 21.00, ingresso libero.

venerdì 8 agosto 2008

Ivano Dibona 1943 - 1968

Oggi, 8 agosto, ricorre il 4o° anniversario della caduta dallo "spigolo Dibona" della Cima Grande di Lavaredo, dove stava salendo con un cliente, di Ivano Dibona, Scoiattolo, guida ed esponente di punta dell'alpinismo dolomitico nei primi anni '60. Nipote di Angelo, simbolo delle guide alpine ampezzane, Ivano era nato il 1° giugno 1943, era guida da cinque anni; in quel lustro aveva ripetuto innumerevoli vie sulle Dolomiti, e tracciato nuovi itinerari di grande difficoltà, sia in libera che con l'uso massiccio di chiodi (Cima Belprà, Taburlo, Torrione Salvella, Cima Piccola di Lavaredo, Torre Romana, Col Rosà, Taé, Tofana di Mezzo, Punta Giovannina), Si era distinto in numerose operazioni di soccorso alpino, ed aveva espresso il desiderio di ripetere tutte le 70 vie aperte dal nonno. Il suo nome non è stato dimenticato dai compaesani, che gli hanno dedicato dapprima la "Direttissima" sulla Cima Scotoni (Diego Valleferro, Franz Dallago e Bruno Menardi, 10-13.3.1969), e nel 1970 il sentiero che segue il percorso di arroccamento utilizzato durante la Grande Guerra delle truppe italiane sul Cristallo, da Forcella Grande al Col dei Stonbe. Percorso ancora oggi da migliaia di persone, il "Sentiero Dibona" è ritenuto uno dei più begli itinerari escursionistici delle Dolomiti.

giovedì 7 agosto 2008

Una via ferrata sulla Croda Rossa d'Ampezzo?

Ha destato un certo stupore la proposta di un noto Accademico del CAI, di progettare l'installazione di una via ferrata sulla Croda Rossa d'Ampezzo, lungo la cresta incombente su Forcella Colfiedo, salita il 4.8.1913 da F. Terschak e H. Kees e ripetuta forse un'unica volta in quasi un secolo (400 m, III/IV secondo Berti, roccia molto friabile). La proposta si reggerebbe sul fatto che la Croda Rossa è una montagna che meriterebbe maggiore frequentazione; la cima potrebbe essere svelata anche al "ferratista"; attrezzandola, si "riqualificherebbe" la sconosciuta via Terschak; una ferrata consentirebbe ai salitori di altre vie un rientro più veloce a valle. A parte il problema della qualità della roccia lungo la cresta, ben visibile dal Passo Cimabanche; a parte la profanazione irrimediabile di una cima maestosa e severa, che dal 1870 seleziona i visitatori con itinerari di livello e di grande interesse alpinistico ed ambientale, nutriamo molte perplessità. Avrebbe senso una nuova via ferrata in un gruppo montuoso ancora vergine da tali iniziative e perdipiù nel cuore di un Parco Naturale? La ferrata richiederebbe circa tre ore e mezzo soltanto per l'avvicinamento, lungo un ghiaione privo di tracce e per più di 1000 metri complessivi di dislivello. Una volta eventualmente realizzata, chi si assumerebbe la manutenzione di tale ferrata? Ci auguriamo che l'idea rimanga confinata nella telefonata ricevuta dal CAI, e la Croda Rossa resti immune da un'iniziativa abnorme e assolutamente inopportuna, continuando a selezionare gli
alpinisti che ne toccano la cima con preparazione e rispetto.

mercoledì 6 agosto 2008

Severino Casara, poeta della montagna (1903-1978)

Nel vortice delle ricorrenze di questo periodo, sarebbe rientrato anche il trentennale della morte di Severino Casara, alpinista, scrittore e regista che tanto ha dato alla storia dolomitica. Casara scomparve a 75 anni, alla fine di luglio del 1978. Lo avevamo conosciuto alle Tre Cime di Lavaredo, la vigilia di Ferragosto di due anni prima, e ci incontrammo per l'ultima volta nella sua casa, nell'ottobre 1977. Di Casara conservo la memoria di una escursione in compagnia alle Cascate di Fanes, numerosi aneddoti delle sue esperienze alpinistiche, le copie di gran parte dei libri che scrisse ed una cartolina del Rifugio Staulanza, giuntami per il suo ultimo Natale. Con noi non parlò mai della discussa questione degli "Strapiombi Nord" del Montanaia, che gli rovinò la vita. Ci portò invece a visitare il piccolo camposanto di San Vito di Braies, dominato dalla Torre del Signore, sulla quale aveva tracciato una via nuova nel 1943. Proprio là annunciò che avrebbe voluto esservi sepolto, vicino ad un grande pioniere della montagna, Viktor Wolf von Glanvell. Il suo desiderio è stato esaudito, e così oggi per noi è facile fargli una visita e rivolgergli un grato pensiero.