sabato 8 maggio 2010

Podestagno, un'ora nella natura

Un angolo del Parco Naturale delel Dolomiti d'Ampezzo nel quale, quando non è ora o non si ha voglia di salire più in alto, amiamo fare un anello breve e tranquillo, è il Castello di Podestagno. Ci piace seguire il "Sentiero Storico“: salire per il tracciato (n. 201) che inizia a N del ponte sul Felizon, e scendere per quello opposto, che passa per il Pra de Castel, varca la profonda forra sotto la Rocca e termina a S del ponte citato. Andiamo su spesso e volentieri, in tutte le stagioni, a goderci la visuale dalla sommità di Podestagno, luogo quieto e riposante, di grande suggestione. Il 18 aprile scorso constatavamo come l'inverno avesse lasciato sul terreno pigne e rami spezzati, un alberello a sbarrare il transito, pietre più o meno ingombranti e il consueto scompiglio primaverile. Ho chiesto al guardaparco competente se fosse in programma la manutenzione del sentiero, e ne sono stato rincuorato. Oggi pomeriggio abbiamo ripercorso l'anello, trovandolo lindo e sicuro, pronto per l'estate: un grazie, dunque, al nostro Parco! Nel segnalare ancora che poco più a valle del Cason de Castel c'è un robusto albero di traverso e più avanti, proprio sull'orlo della forra del Felizon, il sentiero è franato per una decina di metri, sorge ancora un pensiero. C'è da chiedersi se l'erto tracciato a N del ponte, usato fin dal Medioevo per accedere al Castello, malgrado le cure, non sia un po' pericoloso. Sul costone che attraversa, notiamo sempre sassi smossi, anche dai camosci, dall'appicco della Rocca. Franando, il materiale potrebbe raggiungere la strada d'Alemagna, mettendo a rischio il transito nei pressi della “Curva dello specchio“. Magari l'ipotesi è ancora remota, ma prima di lanciare adeguamenti turistici della zona coi fondi promessi per il centenario della Grande Guerra, ci piacerebbe di più un piccolo paramassi fra la Rocca e la strada.

Se non piove, adesso è il momento giusto per andarci!

Quando sopra una certa quota si può fare ancora poco alpinismo, una meta accessibile è senz'altro il Rifugio Casera Ditta, costruito unendo due edifici pastorali sull'unico slargo prativo della selvaggia Val Mesath, a 966 m di quota e a poca distanza dalla frana del Vajont. Da cinque stagioni il rifugio è gestito, in maniera anticonvenzionale, da Guido e Adriano; quest'ultimo vive lassù tutto l'anno e sulla valle e i suoi "orsi" ha scritto anche un bel libro, pubblicato a Pordenone nel 2008. Per salire a Casera Ditta, dove si possono passare alcune ore in un ambiente dolomitico selvaggio e del tutto estraneo alle solite rotte, mangiando abbastanza bene, bisogna portarsi a Pineda. Sono tre case fuori dal mondo, che si raggiungono per strada asfaltata dal culmine della frana del Vajont. Da Pineda alla Casera occorre un'ora e un quarto di cammino: il sentiero, in parte rovinato dal duro inverno 2008-2009. è stato poi ridisegnato lungo un canalone boscoso. Per chi non lo conosce, il Rifugio Casera Ditta, i suoi abitanti e frequentatori, le selvagge cime che gli fanno corona, potranno essere una scoperta. Noi l'abbiamo già fatta quattro volte, e sappiamo che anche alcuni nostri conoscenti da Cortina vi salgono spesso.

giovedì 6 maggio 2010

Il barone magiaro e le figlie: storia di una dinastia di alpinisti.

Tre personaggi dell’alpinismo dolomitico erano ungheresi: il barone Roland von Eőtvős e le figlie Rolanda e Ilona.
Roland (1848-1919), fisico e per qualche tempo Ministro dell’Istruzione pubblica magiara (Budapest ha dedicato alla sua figura una vetrinetta nel Museo di Storia nazionale), frequentò le Dolomiti fin degli albori dell’alpinismo, prediligendo i gruppi della Croda dei Toni, Popera e Cadini di Misurina.
Seguendo una prassi usuale tra i pionieri, soleva scegliere in ogni valle le migliori guide e incaricarle di studiare le vie di salita a cime inaccesse, per esservi poi accompagnato nella prima ascensione “ufficiale”.
La sua attività dolomitica iniziò nel 1877, quando si fece condurre da Michele Innerkofler di Sesto (1848-1888) nella prima ascensione del Vecio del Forame, satellite del Cristallo.
L’anno dopo la cordata consolidò la sintonia, salendo due tra le maggiori vette della Pusteria: il 19 luglio la misconosciuta Croda dei Rondoi e il 20 la più nota Croda Rossa di Sesto. Cinque giorni più tardi, il 25 luglio, il barone si aggiudicò la seconda salita della Cima Undici, con Innerkofler e Franz Happacher.
Una sera del luglio 1884, a Carbonin, Eőtvős propose a Michele di tentare la Croda da Lago, ancora inaccessa. Casara racconta che il pusterese accarezzava già da tempo l’idea dell’impresa. Senza pensarci troppo, riempì il sacco e tutto solo, prima dell’alba, raggiunse la base della Croda, per conoscerla e farsela amica.
Nessuno sapeva della partenza; lo si credeva ancora in famiglia a Sesto. Il barone mantenne il segreto e attese ansioso a Schluderbach. Michele giunse a piedi a Fiames, traversò il Boite e s’internò nel bosco. Non voleva essere visto: puntò su Crepa e da lì salì alla base della montagna.
Verso mezzogiorno giunse sulle rive del lago di Federa, e si fermò a scrutare la cima. Ogni ruga, ogni anfratto, nulla poteva sfuggirgli. La sera tornò alla base e si preparò al bivacco. Animato dalla febbre della conquista, dopo poche ore di sonno era già pronto. La luna illuminava le pareti, facendo risaltare ogni sporgenza: Michele salì sullo zoccolo, vagò qua e là, finché intuì il passaggio, nel fianco sinistro della cima, dove una torre si appoggia alla parete formando un enorme diedro.
All’alba il pusterese salì, scese, traversò, entrò in un camino, uscì su un lastrone: probabilmente raggiunse la cima, ma mantenne il segreto per riservare la vittoria al cliente. Tornato a Carbonin, fece capire al barone che aveva in mano la chiave della salita. Il 19 luglio 1884 i due ripartirono e vinsero una delle cime più ambite delle Dolomiti.
La Croda diverrà in breve la montagna più popolare d’Ampezzo, ricercata dai migliori alpinisti di fine ‘800 per la bellezza e l’eleganza della salita, più che per le effettive difficoltà, che peraltro toccano il III.
La carriera di Eőtvős annovera tredici vie nuove, realizzate tra il 1877 e il 1900. Oltre a quelle citate, la Cima Una nelle Dolomiti di Sesto (26/7/1879) e, nella stessa estate, il Cristallino d’Ampezzo da O, entrambe con Innerkofler.
Il 15/9/1900 il nobile magiaro lasciò alle figlie Rolanda e Ilona il compito di continuare le tradizioni della famiglia, chiudendo l’attività esplorativa nelle Dolomiti con la conquista dei Gemelli (Cadini di Misurina). Guidava la comitiva un celebre trio: Giovanni Siorpaes (Jan de Santo, 1869-1909) e Agostino Verzi (Tino Sceco, 1869-1958), ampezzani, e il pusterese Andreas Piller.
Le baronesse, già pratiche di montagna, avevano maturato una buona conoscenza delle Dolomiti. Già nel settembre 1896, infatti, Rolanda e Ilona avevano salito con il padre, Josef Innerkofler jr. e Pietro Siorpaes (Piero de Santo, 1868-1953) il Cimon di Croda Liscia, nei Cadini di Misurina.
Da allora, con le guide più note, compirono veri prodigi “crodaioli”, contribuendo ad infondere la passione della montagna anche a molte rappresentanti del gentil sesso. La storia registra altre dodici prime per le sorelle, che dopo la Grande Guerra – esaurito il periodo esplorativo e calmati gli ardori della prima gioventù – tornarono regolarmente a Cortina per un altro quarto di secolo.
Proseguendo la campagna nei Cadini, nel settembre 1900, le sorelle salirono per prime, con Antonio Dimai Deo (1866-1948) e Giovanni Siorpaes, in vetta a due guglie innominate. A ricordo delle guide, proposero di battezzarle rispettivamente “Cima” e “Campanile Antonio Giovanni”.
Il 18/7/1901 Ilona e Rolanda aprirono la stagione con la conquista della Cima d’Auronzo, nella Croda dei Toni, da Forcella dell'Agnello. Le guidavano Antonio Dimai e Agostino Verzi, che insieme con loro compiranno altre belle imprese.
L’8/8 toccò alla Tofana di Rozes, vinta per la colossale parete S. Con gli agguerriti Dimai, Verzi e Siorpaes, le Eőtvős scrissero una delle pagine più belle dell’alpinismo del XX secolo.
Il 26/7/1902, sempre nei Cadini, la stessa cordata della Tofana salì per roccia, con difficoltà di III, la guglia del “Gobbo”: l’impresa non era fine a se stessa, ma serviva a prepararne un’altra, singolare e ardita.
Il 4/8/1903, infatti, i medesimi alpinisti, dal Gobbo - col lancio di una corda e un’acrobatica traversata - montarono sull’adiacente Torre del Diavolo, scalata direttamente da Dűlfer soltanto nel 1913.
Il metodo usato per la conquista “tout court” non era nuovo nelle Alpi, ma era una novità per le Dolomiti, di una sfacciata provocazione al pensiero degli scalatori. Se non fosse stato Dimai l’autore della “divertente birichinata”, forse le accuse mosse dall’austera cerchia degli alpinisti sarebbero degenerate in una persecuzione morale, ai danni soprattutto delle Eőtvős.
Il 7/9/1904 il gruppo, dal quale mancava Siorpaes, ritornò nella Croda dei Toni, per effettuare la prima ascensione di una cima poi dedicata al pioniere dell’alpinismo Adolf Witzenmann (1872-1943).
Il 22/8/1905, la stessa cordata realizzò la salita più dura dal punto di vista puramente arrampicatorio: la parete S del Teston del Pomagagnon, poi denominato “Campanile Dimai” in onore della guida Antonio. Per l’occasione le baronesse si nascosero dietro lo pseudonimo di “Five”.
La via ha una lunghezza di 650 metri, di cui 70 con difficoltà di V in parete aperta; fu portata a termine senza chiodi e nel 1928 Antonio Berti la stimò di “difficoltà per niente inferiori a qualsiasi salita nei dintorni di Cortina, compreso lo spigolo Punta Fiammes e Campanile Rosà”.
L’11/8/1908, Dimai e Ferdinand Summermatter di Randa accompagnarono le baronesse in Val Gardena, salendo la Punta Grohmann (Sassolungo) per la parete e lo spigolo S: si tratta di una via di IV, ancor oggi frequentata.
Nel settembre 1910, Ilona e Rolanda realizzarono la penultima nuova ascensione, scalando la parete NO della Croda Rotta, nelle Marmarole. Era con loro, oltre ai soliti Dimai e Verzi, anche Serafino Siorpaes de Valbona (1870-1945).
Nelle relazioni si trova citato il nome di una quarta guida a servizio della cordata, identificata in Giovanni Siorpaes. Ritengo sia un errore, ormai ripetuto nei testi da novant’anni: il povero Jan de Santo, infatti, non poteva far parte della squadra essendo deceduto a causa di una polmonite il 6/4/1909, appena trentanovenne.
Alla fine dell’estate 1913 con Antonio Dimai, che aveva quasi cinquant’anni ma arrampicava ancora ai massimi livelli, Ilona e Rolanda salirono lo spigolo S della Cima di Mezzo del Monte Cristallo per una via di oltre 700 metri, a lungo ignorata e ripresa soltanto nel 1966. Per i tre alpinisti si trattò del “canto del cigno” in tema di vie nuove.
Durante la loro carriera, le baronesse conobbero le più belle montagne d’Ampezzo, d’Auronzo e di Sesto, e compirono una nutrita serie di ripetizioni di itinerari di moda, in tutte le Dolomiti: le vie normali del Campanile Basso di Brenta (1909) e del Campanile di Val Montanaia (1910), il Becco di Mezzodì per il Camino Barbaria (II salita, 2/9/1908), la via Heath sulla Punta Fiames, la Corry sul Col Rosà e tante altre.
Fino alla Grande Guerra scelsero sempre come guide Antonio Dimai e Agostino Verzi, alle quali si affezionarono. In seguito, e fino alla metà degli anni Trenta, continuarono a ripetere vie di ottimo livello con Angelo (1900-1986) e Giuseppe (1903-1946) Dimai, figli di Antonio, Celso Degasper Meneguto (1903-1984) e altri.
Ho trovato la firma delle Eőtvős, che viaggiavano quasi sempre in coppia, sul libro di via della Punta Fiames, quasi ogni estate fino agli anni ’30. Rolanda, già quasi sessantenne, il 19/10/1935 salì anche la moderna via “Emmeli” (Casara, 1927) sul Becco di Mezzodì, con Giuseppe Dimai.
Dopo il 1935 probabilmente le baronesse non poterono più soggiornare in Ampezzo. Travolte dalla guerra e dagli sconvolgimenti che interessarono anche la loro patria, caddero in miseria, e per sopravvivere dovettero adattarsi a eseguire traduzioni dal russo e ad altri lavori di piccola entità.
Ilona scomparve nel 1945, durante l’assedio di Budapest, mentre Rolanda, rimasta cieca di guerra di un occhio, le sopravvisse inchiodata a letto dall'atrite e si spense nella capitale magiara nella primavera 1953.
Quando giunse a Cortina l’eco della morte di Rolanda, Agostino Verzi, ormai ultra ottantenne e ultimo superstite della cordata della Tofana, pianse alla triste notizia, soffermandosi a guardare con gli occhi umidi la parete, che con Rolanda e gli altri compagni aveva contribuito a svelare per primo all’alpinismo dolomitico
Oggi ricordano la famiglia ungherese l’omonima Cima, seconda in altezza nel gruppo dei Cadini di Misurina, il vicino Campanile, e la Forcella Eötvös, intaglio che divide la Cròda da Lago dal Campanile Innerkofler.

mercoledì 5 maggio 2010

A settant'anni dalla morte di Comici, l'artista della goccia cadente

Nel settantesimo anniversario della morte, avvenuta a Selva di Val Gardena il 19 ottobre 1940, anticipo il mio doveroso omaggio a Emilio Comici, “l’artista della goccia cadente”, uno dei maggiori scalatori italiani del ‘900.
Uomo di mare, nato a Trieste il 21 febbraio 1901, Comici si forma come speleologo nelle grotte carsiche. Conosce le montagne intorno al 1925 e se innamora, aprendovi in una dozzina d'anni un gran numero di vie, solo in parte note e frequentate. Nei primi anni '30 sale a Cortina con l’intenzione, osteggiata dalle guide locali, di esercitarvi il mestiere di guida. Si trasferisce a Misurina, dove alterna l’insegnamento in roccia a quello dello sci, e in seguito si stabilisce in Val Gardena, dove viene accolto e nominato Podestà di Selva e Santa Cristina. Muore nemmeno quarantenne, cadendo durante la discesa in doppia da una parete in Vallunga. La sua figura, sovente idealizzata dai biografi, costituisce una pietra miliare della storia dell’alpinismo, e decine di tracciati, tra cui il più noto rimane la parete N della Cima Grande di Lavaredo, aperta con Angelo e Giuseppe Dimai il 12-14/8/1933, ricordano il suo nome.
Senza voler gareggiare con altri biografi, e tralasciando gli aspetti psicologici della sua vita, m’interessa qui commentare le tappe del percorso alpinistico di Comici nelle Dolomiti, che lo videro all’opera tra il 1928 e il 1939. Dopo aver svolto l'apprendistato nelle Alpi Giulie ed aver aperto due itinerari sulle cime degli Aghi e del Bancon nel Civetta nel 1928, con Domenico Rudatis, alleghese divenuto poi scrittore e pensatore, Comici inizia la sua carriera di “dolomitista” il 9/6/1929.
Quel giorno, infatti, supera col conterraneo Giorgio Brunner, poi spesso legato con lui, il canalone N del Sorapis, una delle rare vie ancora praticabili con piccozza e ramponi nelle Dolomiti Orientali. Dopo aver raggiunto il 16/8 il circo alla base della guglia per una via nuova, il 24 Comici, con il triestino Giordano Bruno Fabjan, conquista per un itinerario di V grado l’inviolato Dito di Dio, che si specchia nel lago del Sorapis. Il giorno seguente, con Fabjan, Casara, Salvadori ed Emmy Hartwich, sale la Croda del Valico, anticima della Punta Nera che guarda i Tondi di Sorapis. Il 26 e 27/8, ancora con Fabjan, compie quella che la storia ricorda come la prima via italiana di VI, da cui si lancia la sua meteora: la parete NO della Sorella di Mezzo, sempre nel Sorapis. Comici e Fabjan chiudono la stagione dolomitica il 31/8 con una prima nel gruppo del Cristallo, salendo il Piz Popena per la parete O dal Passo del Cristallo.
Nel giugno 1930 Comici, che non rimane inerte durante la cattiva stagione, realizzando numerose salite invernali, apre l’annata salendo con Fabjan e Brunner un altro canalone ghiacciato, quello O della Punta dei Tre Scarperi in Pusteria. Due settimane dopo, cercando una prima nel gruppo del Rinaldo in Comelico, con Brunner e Opiglia sale il Campanile Innominato, oggi Campanile Brunner. Il 20/7 Comici torna in zona con Fabjan, Brunner e Opiglia, vincendo il Monte Siera per la parete NE, e il 2/8, ancora con Fabjan e Slocovich, sale la parete O della Cima di Mezzo della Croda dei Toni, poi intitolata ad Antonio Berti. Poco mancò che la salita avesse un epilogo tragico, a causa di un volo di Slocovich poco prima dell’uscita in vetta.
Nel 1931 Comici e Brunner vincono, nelle Pale di San Martino, la Torre Armena da N (giugno), la Torre Nord dell’Alberghetto e la Cima della Beta da O (luglio). Il 4 e 5/8 il triestino si sposta nel Civetta dove con Giulio Benedetti sale la parete NO della vetta più alta per una via di VI, la “risposta italiana” alla diretta Solleder-Lettenbauer sulla stessa parete.
Il 1932, anno in cui Comici lascia la città, dov’era impiegato ai Magazzini Generali, per vivere in montagna, si apre con tre invernali compiute c on Brunner: la Cima Cadin di San Lucano (28/1), il Piz Popena (30/1) e il Cristallino di Misurina (primi di febbraio), forse già salito dagli italiani durante la Grande Guerra. Di queste imprese, che rivestono un certo valore storico e alpinistico, Comici non fece mai menzione nei suoi scritti.
Dopo essere salito in giugno sullo Spiz Piccolo nelle Pale con Brunner, e aver traversato la Torre di Lagunaz e salito l'omonimo Spiz con Brunner e Massimina Cernuschi, il 27/7 Comici vince con Salvadori la parete O della Torre del Diavolo, e il 12 agosto, con Salvadori, Arnaldi e Masotti, supera dal versante NO la Torre Siorpaes, ancora nei Cadini.
La stagione 1933 è la più importante per Comici: per la N della Cima Grande di Lavaredo, salita con i fratelli Dimai, dopo molti tentativi degli ampezzani, tra il 12 e il 14/8, e per lo “Spigolo Giallo” della Cima Piccola di Lavaredo, vinto l’8/9 con Mary Varale e Zanutti.
In quest’anno c’è anche un’altra bella salita: lo spigolo S del Corno d’Angolo nel Cristallo, salito con Sandro del Torso il 20/9 e ripetuto poche volte, a causa della qualità della roccia.
Nel giugno 1934 Comici compie una campagna esplorativa sui monti dell’Olimpo in Grecia, dove apre alcune vie. Rientrato a Misurina, sale la piccola, dura Guglia G.U.F. (poi dedicata a Giuliana Massaro) che guarda il Lago di Misurina. Sono con lui Fabjan, Cavallini, Pompei e e Cottafavi, che diventerà un apprezzato regista televisivo.
Una settimana dopo scende a Cortina, dove con del Torso e Jane Tutino Steel sale la parete S della Torre Grande di Falzarego: due settimane dopo, la cordata Comici-Varale-del Torso vince lo spigolo S della Torre Piccola di Falzarego, tracciando una delle vie più frequentate della valle d’Ampezzo.
Il 2 agosto, con Pompei e Fabjan, arricchisce le Tre Cime di un’altra via, verticale ed esposta, che negli anni avrà successo: la parete SE della Punta di Frida, sempre ispirata al concetto della “goccia cadente” che caratterizza la maggior parte delle vie del triestino. L'1/9, con del Torso, che aveva già più di cinquant’anni, Comici realizza un’altro itinerario che oggi è molto frequentato: la parete S della Punta Col de Varda, comoda perché una seggiovia porta fin quasi all’attacco.
Nel 1935 Comici continua ad arrampicare, ma non apre vie sulle “sue” montagne. Unico episodio rilevante è il tentativo di salire la parete N della Cima Ovest di Lavaredo, soffiatagli, a fine agosto, da Cassin e Ratti.
L’anno seguente, dopo una campagna alpinistica in Egitto con Anna Escher e altri, Comici sale il 13/7 con del Torso e Zanutti, il Torrione Val di Guerra, nelle Alpi Carniche, da E. Oggi quel Torrione, con altre due cime e due rifugi delle Dolomiti, è dedicato alla sua memoria. Il 17 e 18/8, con la guida Piero Mazzorana, bellunese trapiantato in Auronzo e gestore per un quarto di secolo del Rifugio Auronzo alle Tre Cime, Comici supera lo spigolo NO della Cima Piccola di Lavaredo, un VI+ che mise a dura prova molti ripetitori. L’8 e 9/9, con un imprevisto e gelido bivacco, Comici, Mazzorana e il cinquantatreenne del Torso tornano sul Dito di Dio per la parete N, di VI.
Le nuove salite di Comici nel 1937 sono tre, e ad esse va aggiunta un’impresa ritenuta, per l’epoca, strabiliante: la prima solitaria della parete N della Cima Grande di Lavaredo, seguendo la via da lui stesso aperta nel 1933, realizzata il 2/9 in tre ore e tre quarti. Il 28/6, con Casara, supera la parete S della Cima d’Auronzo, nel Gruppo della Croda dei Toni: quattrocento metri di VI grado saliti in giornata. Il 14/8, con Cottafavi e Pompei, il triestino scova un’altra via in Tre Cime, superando lo spigolo SE del Mulo, a O delle Cime: il 4/9 infine, ancora con Pompei, Comici si rilasa con una breve e difficile prima sulla parete N della Guglia G.U.F., di fronte al Lago e all’abitato di Misurina.
Nel 1938 risalta il tentativo, interrotto per il maltempo, di salire con Casara la strapiombante parete E del Campanile di Val Montanaia, nelle Carniche, risolta diciassette anni dopo da Dalla Porta Xydias e Cetin.
L’anno seguente, quasi presago del destino che l’attende, Comici porta a termine solo la prima salita della parete NE del Campanile II di Popera, con Dalmartello, Nel 1940, quaranta giorni prima della morte, conclude il ciclo alpinistico con la prima della parete N del “Salame” del Sassolungo, oggi Campanile Comici, realizzata ancora con Casara.
Fiumi di parole sono stati spesi per illustrare la malinconica figura dell’uomo e dell’alpinista Emilio Comici, e rimando alla bibliografia in materia chi volesse saperne di più. Mi interessa concludere rimarcando che dal 1928 al 1940 il triestino ha compiuto, soprattutto nelle Dolomiti ma anche nelle “sue” Giulie, una vasta serie di scalate che risaltano ancora oggi per la concezione moderna e l’invidiabile purezza di stile.
Il suo modo di arrampicare, documentato nelle immagini che corredano le opere di Casara, rimane insuperato: importandole dalle palestre di roccia, Comici introdusse le scarpe da pallacanestro, che anticiparono le odierne scarpette; ma oggi, nonostante il progresso, chi salirebbe la Cima d’Auronzo o il Corno d’Angolo con le attrezzature di allora?
Purtroppo, poche vie di Comici sono state avvicinabili per gli alpinisti di livello amatoriale come chi scrive, che comunque ha avuto l’onore di calcare le orme del triestino almeno sulla Punta Col de Varda e sulla Torre Piccola di Falzarego. Non sarà gran cosa, ma l’idea di “calpestare la storia” è un vezzo che, per chi s’interessa di storia dell’alpinismo, è stimolante e difficilmente rimovibile.
Comici fu un innovatore nella tecnica e nella mentalità alpinistica: negli itinerari che riuscì ad aprire, cercò sempre un tracciato logico, esteticamente attraente, e sostenne sempre lo studio della linea di salita più diretta. La sua filosofia alpinistica si riassume nella frase: “Vorrei tracciare una via che corrisponda a quella che percorrerebbe una goccia d’acqua lasciata cadere dalla cima”. Questo concetto, e l’idea dell’arrampicata come bellezza del gesto e ricerca della perfezione, sono sicuramente idee inimitate che servono a ricordare la figura di Emilio Comici, grande alpinista triste.

lunedì 3 maggio 2010

Ancora Punta Nera

30 agosto 1987, 7 luglio 1990, 29 ottobre 1995, 17 agosto 2001, 3 agosto 2003, 26 luglio 2004, 26 luglio 2008: date che alla maggior parte dei lettori diranno poco ma per me hanno un significato ben preciso. Se le ho annotate tutte con precisione, sono le giornate nelle quali ho calcato la cima della Punta Nera, di cui ho parlato nel post precedente. Sette salite, tre delle quali in solitaria, più un tentativo terminato all'attacco delle rocce perché il compagno non era in grado di proseguire e la sua guida ritenne saggio tornare indietro. Fino ad oggi sette tappe di un percorso (dai 29 ai 50 anni), altrettante salite ad una cima di grande significato, che spero non si siano esaurite, anche se si fa sempre più fatica a risalire quel malefico ghiaione!

Punta Nera, fra escursionismo e alpinismo facile

Oggi suggerisco un'escursione al confine con l'alpinismo facile, per la quale i meno sicuri faranno bene a ricorrere a compagni esperti o a una guida: la via normale da N alla Punta Nera (2847 m).
La Punta è l'elevazione più alta e robusta del cosiddetto “ramo ampezzano” del gruppo del Sorapis, che inizia al Valico sora la Cengia del Banco, e prima di concludersi verso il Passo Tre Croci, presenta diverse cime, panoramiche e poco visitate: la Croda Rotta, la Zesta, le Cime del Laudo, le Cime di Marcoira, l’Anticima di Marcoira.
Conquistata dalla guida Alessandro Lacedelli ”da Meleres”, da solo, prima del 1877, la Punta Nera offre un'ascensione di impegno medio, piacevole e panoramica ma da non sottovalutare, soprattutto in caso di cambiamento del tempo, perché la cima attira i fulmini.
Per arrivarci, da Cortina saliamo in funivia al Rifugio Faloria. Ovviamente potremmo anche raggiungerlo a piedi, partendo dal Ristorante Rio Gere o da Mandres.
Da Faloria imbocchiamo il sentiero numero 213, sistemato di recente, che sale per le piste di sci, aggira il dosso della Capanna Tondi e attraverso la cresta rocciosa delle Crepedeles scende alla verde Forcella Faloria (2309 m.), all'inizio della Val Orita.
Sulla forcella, armatici di pazienza, imbocchiamo il ripido e franoso sentiero numero 215, e rimontiamo il vallone ghiaioso che scende dalla Punta Nera, dove non è raro scorgere camosci, fino a intravedere la stretta Sella di Punta Nera (2738 m), che separa i Tondi di Faloria dai Tondi di Sorapis.
Non occorre però salirvi: 15 m prima, poco sotto una rientranza a destra del sentiero, notiamo una paretina inclinata, con appigli piccoli ma sicuri. La superiamo in diagonale verso destra per 10 m (1°, esposto), portandoci su una prima cengia con un ometto e un vecchio chiodo, che entra verso sinistra in un canale di sfasciumi. Seguendo il canale saliamo sul filo della cresta, presso uno spuntone (ometto), evitando così il primo difficile tratto di cresta tra la Sella e lo spuntone stesso. Per la cresta, ora più facile, giungiamo ad una terrazza ghiaiosa. Seguendo sempre le tracce e qualche altro ometto, miriamo ad un canale sulla sinistra (1°). Per roccette gradinate ma friabili, brevi cenge e tracce con ometti, dopo una buona mezz'ora dall'attacco (2,30 ore circa da Faloria), lasciandoci alle spalle 750 metri di dislivello, giungeremo all’esiguo spiazzo della cima, dove troveremo il contenitore col libro per le firme.
Il 26/7/2008, il nuovo libretto è stato collocato da chi scrive, in compagnia degli amici trevigiani Adriano Cason, Paola Cesco Frare, Mario Crespan e Mirco Gasparetto, in sostituzione del precedente portato lassù dall'amico Giulio Lancedelli il 9/9/2000, ma danneggiato dal maltempo o dalla superficialità di qualche salitore.
La nostra salita della via è stata purtroppo frustrata dal maltempo. Lungo la discesa, infatti, si scatenò uno dei tanti diluvi di queste ultime pazze estati, che comunque ci consentì di rientrare alla base senza problemi.
Anche in questa occasione la Punta Nera, sulla quale salivo per la settima volta, mi ha dato una grande soddisfazione, e soprattutto la gioia di condividere l'itinerario con alcuni amici che ancora non lo conoscevano. La speranza, come sempre, è quella di rifarlo ancora.

Dal Passo Giau al Rifugio Cinque Torri, fra natura e ricordo

Nel 2006, un’encomiabile operazione di restauro attuata dalla squadra della guida alpina Armando Dallago, riportava all’attenzione di coloro che camminano nella natura soprattutto per goderne la grandezza, un sentiero che ultimamente sembrava cadere nell’oblio: il n. 443, dal Passo Giau al Rifugio Cinque Torri. La sistemazione fu resa possibile grazie alla magnanima donazione alle Regole d’Ampezzo, disposta per legato da una giovane immaturamente scomparsa, che ha inteso lasciare memoria di sé fra le amate crode ampezzane. E’ nato così il Percorso naturalistico “Cinque Torri Passo Giau” o Sentiero “Francesca Brusarosco”. L’itinerario, articolato in due anelli di lunghezza differente in base all’idoneità e alle esigenze degli utenti, ha trovato poi naturale complemento e divulgazione in un ottimo fascicolo di 80 pagine, ricco d’incantevoli immagini del recesso in questione, curato da Stefanella Caldara e edito dal Parco Naturale delle Dolomiti d’Ampezzo per i tipi della Tipografia Print House. Il libretto, compilato a dieci mani, ognuno per quanto di competenza, da Angela Alberti (storia), Michele Cassol (fauna), Michele Da Pozzo (flora), Cesare Lasen (vegetazione), Chiara Siorpaes (geologia), fornisce un’immagine esaustiva e seducente delle cospicue peculiarità naturalistiche e culturali che emergono, solo ad una più attenta lettura, dal territorio montano. Nel caso di specie, si tratta della plaga, ancora piuttosto integra, che si allunga fra i pascoli di Giau, in Comune di San Vito di Cadore, e la zona di Potor e Naerou, nota da più di un secolo a “touristi” e rocciatori per le innumeri possibilità di scalate offerte dalle bizzarre Cinque Torri. Grazie ai perspicaci interventi dei collaboratori e alle fotografie, molte delle quali assolutamente inedite dal punto di vista prospettico, si disegna così, con estrema accuratezza, una porzione d’ambiente dolomitico ricca di peculiarità, sotto e sopra il piano di calpestio. In anni di vagabondaggi, quante volte abbiamo percorso il sentiero che cinge la misteriosa zona del Forame, in uno o nell’altro verso? Quante volte ci siamo attardati, anche a sera, a spiare le marmotte nei pressi del Ru de Sora? Quante volte siamo saliti sul friabile Bèco de ra Marogna, buttando l’occhio a 360 gradi e chiedendoci come si chiama quella valle o piuttosto quel bosco? Quante volte ci siamo domandati perché esistono (e oggi, anche, tristemente cadono) le Torri d’Averau, teatro di tanti esercizi giovanili di scalata? Grazie alla generosità di Francesca Brusarosco, ai superbi lavori di Armando e soci e a questo ben documentato volumetto, che abbiamo scorso con soddisfazione, potremo dare qualche risposta alle nostre curiosità. Un’unica cosa, salvo il sacro, ci sia permesso di annotare, terminando quest’anomala recensione. Non vorremmo che, per denaro o meno, nel prossimo futuro la conca d’Ampezzo brulicasse di sentieri, luoghi od altri frammenti d’ambiente, intitolati a pur emeriti mecenati. Altrimenti, che dovremmo dire delle generazioni di “britères”, cacciatori, contadini, guide alpine, legnaioli, pastori e tanti altri che intrisero l’ambiente di sudore, lacrime e sangue, divulgandone la conoscenza in punta di piedi, per consegnarci oggi la stupenda realtà nella quale viviamo?

domenica 2 maggio 2010

Punta della Croce, chi ti ha dato quel nome?

La Punta della Croce, seconda delle tre sommità che formano la porzione più a O della dorsale del Pomagagnon, fino all'ultimo decennio del XIX secolo non si chiamava sicuramente così. Il nome, infatti, deriva da una croce di legno, portata in vetta dalla guida Giuseppe Ghedina Tomasc, poi misteriosamente caduto dalla vetta del Nuvolau il giorno dell'apertura del rifugio omonimo, 11 agosto 1883. Non si sa però quando e perché Ghedina abbia portato una croce su questo poco rilevante rialzo della cresta: poco rilevante, peraltro, solo se lo si guarda dal lato N, dove si adagia con uno schienale detritico cosparso di zolle erbose sui suggestivi Prati del Pomagagnon. Sul versante opposto, verso la valle d'Ampezzo, la Punta dispiega una parete rocciosa, spaccata a metà da una grande fessura, che - per quanto non tutta verticale - raggiunge la considerevole altezza di seicento metri. Pur contando su alcune vie alpinistiche, fra le quali la "Classica" del 1900, la Punta non ha mai avuto grande rinomanza, al pari delle sue vicine Punta Fiames e Campanile Dimai. Anche la salita più facile, che richiede meno di mezz'ora da Forcella Pomagagnon e non presenta eccessivi problemi, non creda riscuota eccessivi entusiasmi negli alpinisti. Perché dovrebbe piacermi? Perché, una volta giunto in vetta, mi basta guardare la prospiciente Punta Fiames, in genere popolata di ferratisti e scalatori dalla primavera all'autunno avanzato, per rendermi conto del fatto che la Punta della Croce è disertata, ma tranquilla.

Una cima ... tutta per noi

Un paio di estati fa, per rievocare l'epoca delle arrampicate, ho voluto tornare su una cima che ho frequentato, dove a piedi salgono in pochi e che intendo suggerire per una gita interessante: il Monte Popena o Popena Basso (2225 m), panettone di magro pascolo che sovrasta il Lago di Misurina e la Val Popena Alta ed è la storica palestra di roccia di Misurina, inaugurata dal vicentino Severino Casara ed oggi cosparsa di itinerari d’ogni livello di difficoltà.
La via normale, in pratica, è una bella passeggiata lungo una mulattiera militare ben conservata di poco meno di 500 m di dislivello, che richiede circa un'ora e mezzo e si può salire con profitto anche in autunno avanzato, quando i larici si fanno gialli, l'aria è frizzante e la natura si prepara al sonno invernale.
Presso il nuovo Grand Hotel Misurina si sale ad un piccolo parcheggio, ormai inerbito. Da qui, un sentiero senza indicazioni risale a larghe svolte il soprastante, accidentato bosco e poi traversa ai piedi di un ghiaione. Il sentiero si fa più erto e in un breve tratto anche un po' franoso, lambisce la parete del monte, fiancheggia l'ardita Guglia Giuliana e per un canalino erboso esce sulla dorsale della cima.
Qualche ometto aiuta ad orientarsi fra i fitti mughi e a guadagnare il culmine del Popena, che dischiude un vasto e suggestivo panorama sulle montagne che l’attorniano, dalle Tre Cime di Lavaredo ai Cadini, al Sorapis, al Piz Popena. Sopra tutte svetta, possente, il Cristallino di Misurina.
Penso che questa cima non venga salita da molti escursionisti, poiché tutte le vie di scalata si arrestano sull’orlo della parete, e in genere a chi le frequenta interessa ripiegare le corde e scendere presto a valle, più che soffermarsi in cima. Su questa, comunque, ampia e ben soleggiata nelle belle giornate, c’è un ometto di pietre e un morbido tappeto verde, sospeso fra il cielo e e le montagne, che non può non invitare all'ozio.
Lungo la facile dorsale del Popena, i cacciatori e i pastori salirono sicuramente fin da epoca remota, seguendo camosci o qualche pecora sbrancata. Sorprende invece che la parete S, alta fino a 200 m, sia stata scoperta solo nell'estate 1926 dal vulcanico Casara, che vinse il camino all’estrema sinistra. Da allora e fino agli anni ’70, vi si sono sbizzarriti Mazzorana, Zanutti e i lecchesi, gli Scoiattoli Alverà, Apollonio, Lacedelli e Lorenzi, Molin. Di recente, i climbers odierni hanno quasi azzerato lo spazio per altre scoperte.
Quando arrivammo su per l'ultima volta, in un pomeriggio di settembre dal cielo incerto, due chiassose cordate stavano uscendo dalla classica via Mazzorana, il cosiddetto “diedro a sinistra degli strapiombi gialli”. Dietro a loro, però, non c’era più nessuno, e così per un’oretta ci tenemmo la cima tutta per noi.