venerdì 1 maggio 2009

Quante volte, in natura, c’è capitato di sorprendere, o anche essere sorpresi da animali selvatici?

Quante volte, in natura, c’è capitato di sorprendere, o essere sorpresi da animali? Credo sia successo a tutti; un camoscio, un capriolo, un cervo, una vipera o altri esseri animati hanno sicuramente rallegrato, se non movimentato le nostre passeggiate in montagna. Fin qui niente di strano. Personalmente ricordo vari episodi, uniti dallo stupore destato dall’incontro con la fauna dolomitica. Tanto più in occasioni in cui ero solo ed immerso nei miei pensieri, per cui l’incontro con un selvatico, anche piccolo, poteva causare momenti di apprensione. Oltre alla fulminea discesa di almeno sessanta camosci dalla cupola dei Zuoghe, che mi sorprese mentre iniziavo a salire il costone dopo la radura con la mangiatoia, mi viene in mente un altro episodio, curioso più che spaventevole. Stavo percorrendo, lentamente e intento ad ossigenarmi a pieni polmoni, la strada militare dei Tizoi Storte verso Lerosa. Erano i primi di maggio, non c’era anima viva e varie chiazze di neve disturbavano ancora la progressione. L’idea era quella di salire la Croda de r’Ancona; giunto però ai Ciadis, dovetti arrendermi, perché il versante N della Croda era coperto da una robusta coltre nevosa, che suggeriva di aspettare ancora. Poco prima, fui sorpreso, e mi si gelò quasi il sangue, da un rumore insolito, forte e secco, come di una catasta di legna che si rovescia. Alzando gli occhi, ammirai stupefatto una palla nera con le ali che si allontanava da un folto cespuglio: era un gallo cedrone, animale notoriamente goffo e schivo. Un’occasione piuttosto rara, di vederlo "en plein air"! Giunto a Lerosa, un paesano arrivato prima di me, confermò che, poco prima, aveva fatto lo stesso incontro. Fui lieto di condividere, non dico lo spavento, ma il brusco risveglio dai nostri pensieri per merito di un volatile, non bello ma raro da osservare, tanto più lungo un sentiero battuto.

giovedì 30 aprile 2009

Del Torrione Severino Casara sul Sorapis, ovvero di una pia intenzione giovanile.

Rifugio Lavaredo, 14 agosto 1976. Attendiamo che cessi un improvviso temporale per continuare la nostra gita, quando ho modo di conoscere Severino Casara. Ho diciott’anni e mastico montagna da un pezzo, ho già fatto qualche piccola scalata sulle mie crode e mando a memoria biografie di rocciatori, nomi di cime e salite: è un’emozione inaspettata conoscere e conversare con una figura importante, ma piuttosto discussa dell’alpinismo dolomitico. Nei giorni seguenti lo accompagniamo alle Cascate di Fanes, e si diverte molto. D’inverno ci sentiamo al telefono, e l’anno dopo ci ritroviamo a Cortina; nell'autunno 1977, passo con Cesare a salutarlo a Vicenza, discutendo per ore di cose di montagna, quelle che coltivo da sempre. Il 29 luglio 1978 Casara muore, settantacinquenne. Entusiasti come potevano essere tre ragazzi, con Enrico e Federico progettammo subito di ricordare l'amico. Volevamo dedicargli non solo una via, ma un massiccio torrione che credevamo, e credo ancora inviolato, che si stacca dal piede della Croda Rotta nel gruppo del Sorapis e domina la parte superiore della Val Orita. Da lontano fa una certa mostra di sé, ma - pur avendo lambito diverse volte le sue pendici, l'ultima verso la fine di luglio 2008 - non ho mai capito esattamente quale individualità abbia. In quegli anni mi pareva che facesse la sua porca figura, quindi pensavamo di esplorarlo, provare a salirlo ed in caso di successo dedicarlo al vicentino che aveva descritto così bene le Dolomiti. Avremmo inviato relazioni e fotografie alle riviste del settore e forse ci saremmo guadagnati anche noi un posto nella storia delle crode d’Ampezzo.Come sempre, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare: forse il Torrione era troppo impegnativo, forse la qualità della roccia non meritava i nostri sforzi o forse eravamo ancora poco motivati, fatto sta che alla fine non se ne fece niente. Fu davvero un peccato!

martedì 28 aprile 2009

56 carte per imparare, giocando, con le fiabe e le leggende delle Dolomiti.

L’Istituto Ladin de la Dolomites di Borca di Cadore ha pubblicato e presentato "Fabulando con il gioco delle 56 carte", di Paola Martello (Tipografia Esca - Vicenza, 2009, € 15,00). Il gioco presenta le leggende delle Dolomiti nell’interpretazione e illustrazione della professoressa Paola Martello, autrice anche della recente versione dedicata con successo al microcosmo dell’Altopiano dei Sette Comuni.
Per l'Istituto, che da un quinquennio si occupa con fervore della promozione e sviluppo della lingua e cultura delle comunità ladine che abitano l’alta Provincia di Belluno, l’iniziativa è una novità.
Una novità che trova però radici in un modello consolidato: la divulgazione fra le giovani generazioni, e magari anche il risveglio in quelle mature, dei ricordi e delle sensazioni evocate dalle leggende, dai miti, dalle storie che i nostri avi tramandavano oralmente di padre in figlio, raccontandole nel tepore delle stalle a schiere di bimbi immagati e confusi tra fate, folletti e orchi, e che l’uomo moderno considera con l’occhio del progresso ma anche, molto spesso, con uno sguardo ammaliato.
In "Fabulando con le 56 carte" fanno capolino credenze ed allegorie animate da donne e uomini buoni ma anche terribili, bestie reali e immaginarie, luoghi solari e cupi, alberi che parlano e rocce che si muovono. Un universo fantastico, che per secoli ha alimentato l’immaginazione, la credulità, i timori dei montanari e oggi si presenta ben strutturato, grazie alla paziente ricucitura delle trame compiuta da studiosi del calibro di Giovanni Battista Alton, Hugo de Rossi, Karl Staudacher, Karl Felix Wolff e, più vicino a noi, Bruna Dal Lago, Giuliano Palmieri, Giovanna Zangrandi e qualche altro.
Le leggende e le credenze popolari fanno ancora parte integrante della nostra vita. Non si può non commuoversi ancora, ad esempio, al cospetto della storia legata alla Porta del Dio Silvano presso Cortina, passando sotto la quale - fino agli inizi del secolo scorso - i contadini si toglievano il cappello e le vecchiette mormoravano qualche giaculatoria! Non si può non immaginare che il cacciatore Matia di Zuel, trovatosi in difficoltà sull’alto campo nevoso del Sorapis che poi prese il suo nome, mentre inseguiva un ungulato (l’omologo dolomitico di Zlatorog, fatato camoscio bianco che domina il suo reame sulle alture del Tricorno, ed è stato eletto simbolo della Slovenia?), sia stato - senza volerlo - un protagonista delle leggende d’Ampezzo!
E poi, chissà se nella “Chiesa di Maria de ‘Sanin” rimangono ancora testimonianze dell’infelice ragazza di Mortisa, che dicono fuggisse a pregare negli umidi recessi di Volpera, per scampare ai soldati che la insidiavano! E chissà se in riva ai nostri laghi, da Federa al Lagoscin, risciacqueranno e stenderanno ancora i panni le Anguane dal piè di capra, figure femminili che campeggiano in tutta la favolistica alpina e si danno alla fuga al minimo manifestarsi di presenze umane!
Quello dei miti o leggende che dir si voglia, è un caleidoscopio ricco di sfaccettature e costituisce ancora un ambìto oggetto di studi, prodigo di sorprese e materiali d’indagine. Con il suo lavoro, Paola Martello affida a piccoli e grandi il mondo incantato delle nostre montagne in forma di gioco, personificandolo in un lavoro che prende le mosse dalla grande mappa di tutta la Ladinia ed oltre, dal Brenta ai monti della Carnia, fin giù alle Prealpi.
I nostri occhi di spettatori si nutrono così di laghi, montagne, figure che riescono a scalfire le nostre rocciose convinzioni con tanti segreti; esse custodiscono storie vive nella memoria o già sbiadite nel ricordo e conservate soltanto nelle anime candide che ancora ci credono e le sanno riportare.
Prima che quest’universo trasversale di conoscenze e credenze popolari stinga nella moderna massificazione, l’autrice ha voluto eternarlo ancora una volta, e lo ha fatto nella forma migliore: un gioco gioioso, che si dipana sui piani sfalsati e coincidenti della scrittura e dell’illustrazione, stimolando l’inventiva e lo stupore.
Attraverso le 56 variopinte carte di “Fabulando” e quanto esse raccontano, scopriamo così insieme (grandi e piccini) luoghi che magari non abbiamo mai sentito nominare, personaggi presenti solo in proverbi e modi di dire, convinzioni che oggi, smaliziati come siamo, possono muoverci soltanto al sorriso.
Eppure i rosati tramonti dei Monti Pallidi, i veli che nascondono e schiudono le Dolomiti, sanno estasiarci come un’eterna fiaba, e lo faranno sempre. Dopo aver giocato con “Fabulando”, se c’incanteremo anche soltanto per un attimo pensando ai tòpoi della mitologia ladina, dal Lago di Carezza al Parlamento delle Marmotte, dalle Grotte di Volpera al Regno d’Aurona, dalle rocce di Falzarego che pietrificano il falso re alla Rocchetta dove riposa la Bella Dormiente, avremo la chiave per carpire qualcuno dei segreti, antichi e sempre rinnovantisi, che si celano fra alberi, rocce e ghiacciai.
Un plauso va all’autrice di questo gioco-favola, perché la sua fantasiosa verve affabulatoria e pittorica ci consegna un “bestiario/ominario” di grande effetto per la nostra cultura e la nostra lingua: quello legato all’universo onirico dei monti e delle valli in cui abitiamo, che dalle cime del Brenta fino alla Carnia racconta, riecheggia, sogna mondi irreali, quadri fascinosi del cuore nascosto delle Alpi.

domenica 26 aprile 2009

Carlo, Ernesto, Ivo, Luciano e la Lusy. Frammenti di una lontana domenica di primavera.

Ho già scritto altrove della mia prima arrampicata, che ebbe per teatro la via normale del Becco di Mezzodì, il 14 luglio 1975. Forse non ho mai scritto nulla, invece, della seconda, che fu anche la prima effettiva in cordata, la via normale della Torre Lusy sulle celeberrime Cinque Torri. Me ne sono accorto per caso soltanto recentemente: in quella ascensione ricorse per quattro volte il numero quattro. Era il 4 di aprile, eravamo in quattro, il nostro inseparabile “Berti” classifica (a mio parere un po’ abbondando) la salita di IV grado. Io con Ivo, e Luciano con Carlo, dopo essere giunti con mezzi di fortuna a Bai de Dones ed aver risalito la pista di sci ancora innevata (la seggiovia era chiusa, e comunque non avremmo avuto i soldi per i biglietti), con l’assistenza al “campo base” di Giacomo, che era ancora piccolo per progetti di roccia, scalammo insieme i centoventicinque metri della Torre, che in seguito avrei ripercorso ancora tante volte. Finita questa, incasinatici in discesa con le due corde che avevamo, mentre Ivo e Carlo – più fegatosi di noi - affrontavano con baldanza la vicina parete N della Torre del Barancio (quella sì di IV e anche IV+, per salire la quale attesi fino al 1979), Luciano e io ci cimentammo sulle vie normali delle torri Quarta Bassa e Inglese. Scesi da quest’ultima, gli altri due amici erano ancora appesi in parete e il pomeriggio avanzava veloce: che cosa potevamo fare, per evitare il buio? Niente! Accoccolati sui massi sgombri dalla neve sotto le pareti nord, aspettammo nervosi finché rimisero piede sulla terraferma e poi giù di corsa sulla neve fradicia, fino a Bai de Dones. Là ci aspettava il papà di Luciano, che prima appioppò un sonoro manrovescio al figlio, poi ammonì severamente anche noi tre, ed infine ci riportò tutti quanti a Cortina. Il tutto succedeva trentatrè anni orsono.