Scrivo queste righe trentatrè anni dopo il 14 agosto 1977, quando - elettrizzati dai suggerimenti offerti dall’alpinista Severino Casara che avevamo conosciuto esattamente un anno prima - ripercorremmo la Via Casara-Baldi-Rosenberg per camino N alla Torre Toblin, alle spalle del Rifugio Locatelli. Avevamo trentasei anni in due, diciassette Enrico e io due di più; due settimane dopo una guida ci avrebbe condotto sulla Via Miriam alla Torre Grande d’Averau (per ambedue il “battesimo del fuoco”), e la Torre Toblin ci sembrò un bell’esordio. Mi chiedo che cosa avessimo trovato in quella “cloaca di corvi”, come l’ha descritta Richard Goedeke nella sua guida delle Dolomiti di Sesto del 1983. Ricordo vagamente un cunicolo stretto e buio, di roccia sporca e friabile, dove con lo zaino si passava a stento e il gusto della salita era sopraffatto dal tormento di uscire senza danno da quel putridume. Forse la cordata di ragazzi vicentini che l’aveva scoperto oltre mezzo secolo prima, l’aveva giudicato interessante: a noi piacque assai di più l’audace ritorno a corde doppie su chiodi residuati dalla Grande Guerra, dove due estati dopo sarebbe stata inaugurata una via ferrata che - sfruttando le memorie belliche - ha fatto conoscere la Torre ai ferratisti. Ricordo le fotografie che eseguimmo e mandammo a Vicenza al vecchio Casara, contento che qualcuno si ricordasse di lui: noi due, carichi di roba su una vetta importante per la guerra ma non certo per l'alpinismo, che sembravamo reduci da chissà che impresa. Oggi, in tempi che rifiutano quel genere di salite, non sarebbe proponibile ricalcare le nostre orme: la ferrata sul versante opposto della Torre è certamente più sicura e panoramica. Se qualcuno però salisse il Camino Casara, gli chiederei di verificare se sia ancora lassù il primo dei due chiodi che piantai nella mia carriera alpinistica, per sostare in sicurezza lungo un tubo ghiaioso senza luce né qualità!
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