Da alpinisti, possiamo considerare il gruppo degli Spalti di Toro come il “gioiello di famiglia” di Domegge. In una selva di formazioni dolomitiche dove il nome “Toro” si affaccia più volte, richiamando gli spalti sui quali dimorava il mitico Dio Thor, emerge un pinnacolo che funge da simbolo ideale del paese cadorino: il Campanile Toro. Non é più elevato, più massiccio o più impegnativo di tante crode circostanti, ma colpisce l'occhio e la fantasia di chi lo avvicina, e da oltre cent'anni seleziona gli aspiranti salitori, ai quali richiede gambe e fiato soltanto per toccarne i piedi. Soprattutto per chi può ammirarlo dal lato ovest, il Campanile si rivela come un piccolo capolavoro di roccia. Alto circa 160 metri e di forme slanciate, è stato “protagonista” di un lungo film, iniziato agli albori del '900 con la prima salita degli austriaci Berger (che nel 1899 aveva salito con Ampferer il Campanile Basso, icona del Brenta) e Hechenbleikner, e interpretato nell'arco di un secolo da attori illustri. Nel 1906, Piaz vi aprì con Trier la sua via più dura, dove lavorò “per la prima volta con mezzi artificiali”; nel 1930 vennero Stösser e Schutt; nel 1940 i Ragni De Polo, Frescura e Tabacchi; nel 1953 i Camosci auronzani Molin, Pais Becher e Pais Tarsilia con il primo sesto grado; in anni recenti ancora gli alpinisti di Pieve di Cadore, con realizzazioni moderne. Su quell'obelisco, forse, un po' di spazio per nuove scoperte comunque c'è ancora: anche e soprattutto per i giovani alpinisti domeggesi di oggi, che volessero tenere alto il particolare legame del loro paese con il Campanile, ormai affrancatosi dalla “sudditanza” rispetto a quello di Val Montanaia e che, a differenza del cugino, non vede ancora le proprie rocce lisciate da migliaia di passi.
Imbevuti fin dall'adolescenza di buone letture alpinistiche, in primis dai testi di Antonio Berti, negli anni scorsi - progettando le nostre uscite in montagna - non potevamo certamente ignorare la lirica presentazione del Campanile che Berti fece per la guida delle Dolomiti Orientali del 1961: “Si leva, meravigliosamente ardito, meravigliosamente bello, dritto come un obelisco, tra Forcella le Corde e Forcella Cadin. La sua cima non è più ampia di un comune tavolo da salotto. Salito dall'O, per quanto interessante, non è così difficile come potrebbe far supporre la vertiginosità della sua forma: l'ultimo tratto richiede attenzione.” Aggiungiamoci anche altre due qualità: dopo il lungo avvicinamento che, in onore ai canoni dell'alpinismo del buon tempo antico, eravamo disposti ad affrontare, il Campanile prometteva mezza dozzina di lunghezze di corda, attestate solo sul II grado della scala Welzenbach, e l'incontro sul culmine con una campana bronzea, forse oscurata dalla squilla del Campanile di Val Montanaia ma storica come quella, e com'essa oggetto di festosi rintocchi per rendere noto il successo dell'ascensione. Detto questo, chi avrebbe potuto trattenerci?
Intorno a Ferragosto, quindi, partivamo di buon'ora alla volta del Rifugio Padova. Le nostre cordate erano state stabilite la sera avanti: Tomaso con me, Carlo con mio fratello Federico. Nel fresco del mattino, spartitaci equamente sulle spalle l'usuale ferraglia, ci addentrammo nella silenziosa Val Cadin, che dopo una sottile fascia boscosa non lesinò nulla di quanto poteva offrirci: una lunga fiumana di detriti, circondata da una schiera di guglie e torri d'ogni forma e dimensione. Nei valloni di ghiaie, stando sul lato sinistro come indicava Berti e dovendo bilanciare il respiro, le gambe e l'equilibrio, non avanzava tempo per guardare le nuvole: più volte, il circo di pinnacoli che ci attorniava distrasse comunque i nostri pensieri. Accostata la terrazza sotto Forcella Le Corde con un po' di fiatone, dovuto a mille metri di salita su macereti dove decenni di approcci al Campanile non erano bastati a scolpire tracce sicure, uno sbiadito bollo di vernice aiutò noi, come tanti altri, a non sbagliare la mira. Già paghi dell'eccezionale visione, in breve fummo vestiti, calzati e pronti alla salita che, per quanto breve, ci stimolava. Caminetti e paretine di onesta dolomia ci condussero ad una cengia quasi pianeggiante, e come da istruzioni c’inoltrammo verso destra, aggirando uno spigolo. Venne quindi il clou della via: tre camini quasi inastati uno sull'altro, solidi e impegnativi quanto bastava, lungo i quali potemmo porre in opera le raffinatezze opportune. Dall'ultimo obliquo e divertente camino uscimmo sul varco fra le due esili puntine del Campanile. Una clessidra intorno alla quale era annodato uno stinto cordone, insolita finestra sulle Dolomiti d'Oltrepiave, ci offrì un colpo d’occhio quantomeno originale: ormai ci sentivamo la salita in tasca.
Memori comunque del consiglio di Berti, non diminuimmo la soglia d'attenzione: una cordata obliqua lungo una lastra alquanto esposta, un canalino di qualche metro fino ad una spalla, e l'ultimo salto, a due passi dalla cima. Iniziava il pomeriggio di un caldo giorno d'agosto quando, primo dei quattro, calcavo la vetta facendo risuonare con il cuore pieno di gioia la campanella che dal 10 agosto 1952 accoglie i salitori del Campanile. I compagni mi seguirono rapidi ma, in virtù del fatto che la vetta è proprio estesa come un tavolo da salotto (penso però che nei salotti di un tempo i tavoli fossero più grandi di quelli odierni…), la seconda cordata dovette adattarsi a sedere ai piedi dell'ultimo salto, cosicché l'immancabile ”Berg Heil” fu soltanto vocale. Il panorama dal culmine di quella colonna posata in mezzo a cime, forcelle, valloni si mostrò superbo. Vedevamo il Rifugio Padova, disteso oltre un chilometro sotto di noi nella radura di Pra di Toro, del quale emergeva il minuscolo tetto rosso, e poi decine di rilievi degli Spalti e Monfalconi ai quali non sapevamo assegnare un nome, e via via montagne sempre più lontane, in un avvicendarsi di piani e d’orizzonti intercalati da sole e da nuvole ed acquerellati d’azzurro, bianco, grigio e verde.
Solitamente sulle cime dove salivamo, una volta concluse le fatiche e tempo permettendo, era usuale un lungo momento di rilassamento; sul Campanile però lo spazio è quello che è, e più di uno anelava già ad una birra fresca in Rifugio. Dopo aver affidato con soddisfazione i nostri nomi al libro di vetta, apprestammo quindi le tre o quattro calate in doppia, che ci permisero di tornare velocemente e senza intoppi alla base di quella che ritengo fra le guglie più interessanti su cui sono salito. Nessuno lo diceva apertamente, ma sicuramente tutti e quattro eravamo entusiasti di aver fatto conoscenza col Campanile Toro, che ci aveva regalato un'ascensione facile ma splendida.
Ci buttammo veloci lungo i polverosi detriti della Val Cadin, che la forza di gravità ci rese quasi piacevoli e, una volta riguadagnato il punto di partenza, festeggiammo a dovere la nostra modesta impresa alpinistica. Il rientro non ebbe storia: la storia venne dopo, quando commentavamo con gusto i momenti topici della giornata, ricordavamo il luogo superbo ed avviavamo altri progetti per i giorni a venire. Dieci mesi più tardi, incuriositi dal fatto che, in fondo, andavo magnificando soltanto una via normale, due amici mi chiesero di tornare sulla guglia, dove – anche se ormai avevo perso il gusto della scoperta – riprovai ancora molta soddisfazione. Sfogliando il quaderno della cima lessi che, dopo di noi, lassù si era spinto un unico altro alpinista, un friulano solitario. Questo per dire la scarsa frequentazione del Campanile in quegli ultimi anni del secolo, accresciutasi successivamente per merito dei festeggiamenti del centenario, che ricorse nel 2003.
Oggi conservo la salita del Campanile Toro nella “directory” dei ricordi alpinistici più nitidi e cari. In mezzo a decine di altre belle giornate dolomitiche, l'occasione di rivedere ancora quel luogo non si è più ripetuta, e ormai i tempi non sono più quelli. In ogni modo mi lusinga pensare che, polmoni e garretti permettendo, qualora se ne presentasse l'occasione, non mi sottrarrei all'idea di rivivere le emozioni d'allora, e ascoltare di nuovo il richiamo della bronzea squilla sul “tavolo da salotto” nel cuore degli Spalti di Toro, che per noi segnò il culmine di una memorabile giornata.
Imbevuti fin dall'adolescenza di buone letture alpinistiche, in primis dai testi di Antonio Berti, negli anni scorsi - progettando le nostre uscite in montagna - non potevamo certamente ignorare la lirica presentazione del Campanile che Berti fece per la guida delle Dolomiti Orientali del 1961: “Si leva, meravigliosamente ardito, meravigliosamente bello, dritto come un obelisco, tra Forcella le Corde e Forcella Cadin. La sua cima non è più ampia di un comune tavolo da salotto. Salito dall'O, per quanto interessante, non è così difficile come potrebbe far supporre la vertiginosità della sua forma: l'ultimo tratto richiede attenzione.” Aggiungiamoci anche altre due qualità: dopo il lungo avvicinamento che, in onore ai canoni dell'alpinismo del buon tempo antico, eravamo disposti ad affrontare, il Campanile prometteva mezza dozzina di lunghezze di corda, attestate solo sul II grado della scala Welzenbach, e l'incontro sul culmine con una campana bronzea, forse oscurata dalla squilla del Campanile di Val Montanaia ma storica come quella, e com'essa oggetto di festosi rintocchi per rendere noto il successo dell'ascensione. Detto questo, chi avrebbe potuto trattenerci?
Intorno a Ferragosto, quindi, partivamo di buon'ora alla volta del Rifugio Padova. Le nostre cordate erano state stabilite la sera avanti: Tomaso con me, Carlo con mio fratello Federico. Nel fresco del mattino, spartitaci equamente sulle spalle l'usuale ferraglia, ci addentrammo nella silenziosa Val Cadin, che dopo una sottile fascia boscosa non lesinò nulla di quanto poteva offrirci: una lunga fiumana di detriti, circondata da una schiera di guglie e torri d'ogni forma e dimensione. Nei valloni di ghiaie, stando sul lato sinistro come indicava Berti e dovendo bilanciare il respiro, le gambe e l'equilibrio, non avanzava tempo per guardare le nuvole: più volte, il circo di pinnacoli che ci attorniava distrasse comunque i nostri pensieri. Accostata la terrazza sotto Forcella Le Corde con un po' di fiatone, dovuto a mille metri di salita su macereti dove decenni di approcci al Campanile non erano bastati a scolpire tracce sicure, uno sbiadito bollo di vernice aiutò noi, come tanti altri, a non sbagliare la mira. Già paghi dell'eccezionale visione, in breve fummo vestiti, calzati e pronti alla salita che, per quanto breve, ci stimolava. Caminetti e paretine di onesta dolomia ci condussero ad una cengia quasi pianeggiante, e come da istruzioni c’inoltrammo verso destra, aggirando uno spigolo. Venne quindi il clou della via: tre camini quasi inastati uno sull'altro, solidi e impegnativi quanto bastava, lungo i quali potemmo porre in opera le raffinatezze opportune. Dall'ultimo obliquo e divertente camino uscimmo sul varco fra le due esili puntine del Campanile. Una clessidra intorno alla quale era annodato uno stinto cordone, insolita finestra sulle Dolomiti d'Oltrepiave, ci offrì un colpo d’occhio quantomeno originale: ormai ci sentivamo la salita in tasca.
Memori comunque del consiglio di Berti, non diminuimmo la soglia d'attenzione: una cordata obliqua lungo una lastra alquanto esposta, un canalino di qualche metro fino ad una spalla, e l'ultimo salto, a due passi dalla cima. Iniziava il pomeriggio di un caldo giorno d'agosto quando, primo dei quattro, calcavo la vetta facendo risuonare con il cuore pieno di gioia la campanella che dal 10 agosto 1952 accoglie i salitori del Campanile. I compagni mi seguirono rapidi ma, in virtù del fatto che la vetta è proprio estesa come un tavolo da salotto (penso però che nei salotti di un tempo i tavoli fossero più grandi di quelli odierni…), la seconda cordata dovette adattarsi a sedere ai piedi dell'ultimo salto, cosicché l'immancabile ”Berg Heil” fu soltanto vocale. Il panorama dal culmine di quella colonna posata in mezzo a cime, forcelle, valloni si mostrò superbo. Vedevamo il Rifugio Padova, disteso oltre un chilometro sotto di noi nella radura di Pra di Toro, del quale emergeva il minuscolo tetto rosso, e poi decine di rilievi degli Spalti e Monfalconi ai quali non sapevamo assegnare un nome, e via via montagne sempre più lontane, in un avvicendarsi di piani e d’orizzonti intercalati da sole e da nuvole ed acquerellati d’azzurro, bianco, grigio e verde.
Solitamente sulle cime dove salivamo, una volta concluse le fatiche e tempo permettendo, era usuale un lungo momento di rilassamento; sul Campanile però lo spazio è quello che è, e più di uno anelava già ad una birra fresca in Rifugio. Dopo aver affidato con soddisfazione i nostri nomi al libro di vetta, apprestammo quindi le tre o quattro calate in doppia, che ci permisero di tornare velocemente e senza intoppi alla base di quella che ritengo fra le guglie più interessanti su cui sono salito. Nessuno lo diceva apertamente, ma sicuramente tutti e quattro eravamo entusiasti di aver fatto conoscenza col Campanile Toro, che ci aveva regalato un'ascensione facile ma splendida.
Ci buttammo veloci lungo i polverosi detriti della Val Cadin, che la forza di gravità ci rese quasi piacevoli e, una volta riguadagnato il punto di partenza, festeggiammo a dovere la nostra modesta impresa alpinistica. Il rientro non ebbe storia: la storia venne dopo, quando commentavamo con gusto i momenti topici della giornata, ricordavamo il luogo superbo ed avviavamo altri progetti per i giorni a venire. Dieci mesi più tardi, incuriositi dal fatto che, in fondo, andavo magnificando soltanto una via normale, due amici mi chiesero di tornare sulla guglia, dove – anche se ormai avevo perso il gusto della scoperta – riprovai ancora molta soddisfazione. Sfogliando il quaderno della cima lessi che, dopo di noi, lassù si era spinto un unico altro alpinista, un friulano solitario. Questo per dire la scarsa frequentazione del Campanile in quegli ultimi anni del secolo, accresciutasi successivamente per merito dei festeggiamenti del centenario, che ricorse nel 2003.
Oggi conservo la salita del Campanile Toro nella “directory” dei ricordi alpinistici più nitidi e cari. In mezzo a decine di altre belle giornate dolomitiche, l'occasione di rivedere ancora quel luogo non si è più ripetuta, e ormai i tempi non sono più quelli. In ogni modo mi lusinga pensare che, polmoni e garretti permettendo, qualora se ne presentasse l'occasione, non mi sottrarrei all'idea di rivivere le emozioni d'allora, e ascoltare di nuovo il richiamo della bronzea squilla sul “tavolo da salotto” nel cuore degli Spalti di Toro, che per noi segnò il culmine di una memorabile giornata.
1 commento:
Ernesto, una narrazione intensa ed avvincente, direi anche più del solito! Saluti.
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