Allì'inizio della scorsa stagione estiva provai un particolare senso di inquietudine, leggendo della caduta di un sessantacinquenne germanico dalla normale del Becco di Mezzodì. L'alpinista scivolò sulla parte finale della via, precipitando lungo il versante N, che - secondo le informazioni propinate dalla stampa - presentava "... ripidi salti di roccia innevati, a circa 2.300 metri di altitudine, 300 metri sotto la cima. " A parte il marchiano errore altimetrico, giacché l'attacco della normale, sul lato S, si trova a 2.450 metri circa, e trecento metri sotto la cima ci sono ghiaioni su entrambi i versanti, non salti di roccia innevati, al momento dell'incidente l'alpinista percorreva, slegato, con un connazionale la cresta che precede la cima, vicino al pilastro da dove iniziano le calate a corda doppia. Ho salito il Becco per la via normale, che gronda di storia, risalendo al 1872, almeno mezza dozzina di volte: l'ultima volta era il 14 luglio 2005, esattamente trent'anni dopo la prima visita. Di conseguenza, sono passato sei volte o forse più sulla cresta che precede la cima, vicino al pilastro da dove partono le doppie. La cresta non è difficile, ma friabile e un po' insidiosa; a mio parere, legarsi in cordata e piazzare anche una buona protezione non è certamente superfluo. Il Becco di Mezzodì, dunque, ha fatto un'altra vittima, dopo il mio professore di liceo Don Luigi "Pippo" Frasson (caduto il 23.VII.1992). Peccato: quella è proprio la "mia montagna", il teatro del battesimo in roccia di un sedicenne che già mangiava la dolomia con gli occhi, e mi piange il cuore pensare che lassù, sui quei centocinquanta metri di roccia un po' solida e pulita e un po' friabile e ghiaiosa, si possa anche morire. Ringrazio il cielo per la fortuna che mi è sempre stata data: poter godere la breve e divertente scalata con gli amici, e giungere sulla spianata della vetta per ammirare una visuale d'eccezione, respirando la storia che le rocce trasudano e infine tornare a casa contento.
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