Ho provato un particolare senso d'inquietudine, leggendo della caduta di un sessantacinquenne germanico dalla via normale del Becco di Mezzodì, il 30 giugno scorso. L'alpinista è scivolato sulla parte finale della via, precipitando lungo il versante N, che - secondo la stampa - presentava ".. ripidi salti di roccia innevati, a circa 2.300 metri di altitudine, 300 metri sotto la cima. " A parte il marchiano errore altimetrico (l'attacco della normale, sul lato S, si trova già a 2.450 m circa, e trecento metri sotto la cima ci sono ghiaioni su entrambi i versanti, non salti di roccia innevati), al momento dell'incidente l'alpinista percorreva, slegato, con un connazionale la cresta che precede la cima, vicino al pilastro da dove iniziano le calate a corda doppia. Ho scalato la via normale del Becco (che gronda di storia, risalendo al 1872) una decina di volte, l'ultima il 14 luglio 2005, trent'anni dopo la mia prima visita. Di conseguenza, sono passato una decina di volte per la cresta che precede la cima, vicino al pilastro da dove partono le doppie. La cresta non è difficile, ma piuttosto friabile e insidiosa; a mio parere, farla in cordata e piazzarvi anche una buona protezione non è certamente superfluo. Il Becco di Mezzodì, dunque, ha fatto un'altra vittima, dopo il mio professore del liceo Don Luigi Frasson (caduto il 23 luglio 1992). Peccato: è la "mia montagna", il teatro del battesimo in roccia di un diciassettenne che già mangiava le montagne con gli occhi, e mi piange il cuore pensare che lassù, sui quei 150 metri di roccia un po' solida e un po' friabile e ghiaiosa, si possa anche morire. E ringrazio il cielo per la fortuna che mi è sempre stata data: poter godere la breve, non banale scalata con gli amici e giungere in vetta ammirando un panorama d'eccezione, respirare la storia che quelle rocce trasudano e infine tornare a casa contento.
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