Nelle nostre menti d’adolescenti, scalare le rocce era quasi un mezzo di “promozione sociale”, e per questo ci davamo da fare.
Nei primi anni '70, nel bosco che lambisce Mortisa, avevamo scoperto un masso, “parente” di quelli di Volpèra, che spunta dal folto degli alberi come un grosso dente.
Complice il parziale e primitivo adattamento fatto in epoca ignota dai ragazzi della zona, vi andavamo spesso, per esercitare - più che le braccia - la nostra smisurata fantasia.
Da uno di noi, il masso era stato battezzato (chissà perché) “Sas del Orso Bianco”: se ricordo bene, esso si articolava in un blocco principale dall’angusta sommità, sul quale si poteva salire per zolle e rocce instabili.
Nel circondario c’erano anche un terrazzo, dove con lamiere e teli di plastica era stato ricavato un prototipo di bivacco, una cengia attrezzata con chiodi, fil di ferro e una scaletta di legno, e altri ammennicoli.
L’unica zona in cui non mettemmo mai il naso era la parete del Sas che guarda Campo di Sotto, non altissima ma verticale e liscia, dove credo sia poi salito in quegli anni lo “Scoiattolo” Carlo Michielli.
Per il nostro Sas, macinavamo un sacco d’idee e di progetti: dall’attrezzare una via ferrata, per collaudare la quale erano già disponibili volonterosi parenti, all’aprire vie “dirette”, “direttissime”, “spigoli” in ogni centimetro libero.
Le difficoltà dei brevi tratti dove era necessario mettere giù le mani per salire toccavano forse il III, ma la roccia era così incerta e mista ad erba e ghiaia, che comunque il masso non sarebbe mai potuto diventare una “palestra” come si deve!
Dentro di me, il mito del Sas s’infranse miseramente il giorno che, dalla strada chje conduce al Lago d’Aial, vedemmo due tizi atletici che salivano la parete di fronte al nostro regno, su roccia senza dubbio migliore e con difficoltà degne del loro nome.
Capocordata era il vicentino Diego Campi, già compagno di Renato Casarotto, che in un pomeriggio di “disperazione” aveva tracciato con tale Scattolin una “diretta” vera, mortificando il nostro piccolo mondo di roccia a favore di una parete seria.
Lungo la quale noi, forse, non saremmo mai riusciti a salire.
Nei primi anni '70, nel bosco che lambisce Mortisa, avevamo scoperto un masso, “parente” di quelli di Volpèra, che spunta dal folto degli alberi come un grosso dente.
Complice il parziale e primitivo adattamento fatto in epoca ignota dai ragazzi della zona, vi andavamo spesso, per esercitare - più che le braccia - la nostra smisurata fantasia.
Da uno di noi, il masso era stato battezzato (chissà perché) “Sas del Orso Bianco”: se ricordo bene, esso si articolava in un blocco principale dall’angusta sommità, sul quale si poteva salire per zolle e rocce instabili.
Nel circondario c’erano anche un terrazzo, dove con lamiere e teli di plastica era stato ricavato un prototipo di bivacco, una cengia attrezzata con chiodi, fil di ferro e una scaletta di legno, e altri ammennicoli.
L’unica zona in cui non mettemmo mai il naso era la parete del Sas che guarda Campo di Sotto, non altissima ma verticale e liscia, dove credo sia poi salito in quegli anni lo “Scoiattolo” Carlo Michielli.
Per il nostro Sas, macinavamo un sacco d’idee e di progetti: dall’attrezzare una via ferrata, per collaudare la quale erano già disponibili volonterosi parenti, all’aprire vie “dirette”, “direttissime”, “spigoli” in ogni centimetro libero.
Le difficoltà dei brevi tratti dove era necessario mettere giù le mani per salire toccavano forse il III, ma la roccia era così incerta e mista ad erba e ghiaia, che comunque il masso non sarebbe mai potuto diventare una “palestra” come si deve!
Dentro di me, il mito del Sas s’infranse miseramente il giorno che, dalla strada chje conduce al Lago d’Aial, vedemmo due tizi atletici che salivano la parete di fronte al nostro regno, su roccia senza dubbio migliore e con difficoltà degne del loro nome.
Capocordata era il vicentino Diego Campi, già compagno di Renato Casarotto, che in un pomeriggio di “disperazione” aveva tracciato con tale Scattolin una “diretta” vera, mortificando il nostro piccolo mondo di roccia a favore di una parete seria.
Lungo la quale noi, forse, non saremmo mai riusciti a salire.
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