Quest'inverno, in occasione del consueto raduno di soci e amici del CAI Cortina al Rifugio Dibona, tenni banco per mezz'oretta con una mezza dozzina di fatterelli di montagna un po' “fuori dalle righe”. Un po' piccanti ma non volgari, diversi dal solito e tutti rigorosamente accaduti. Uno di questi riguardava due guide particolarmente ricercate negli anni '30. Una bella domenica d'estate, una di esse portò una cliente a scalare la via normale della Cima Piccola di Lavaredo, una via interessante per gli amanti dell'alpinismo classico che ho potuto salire per tre volte. Giunti in vetta, la guida intraprendente e la cliente ben disposta non persero tempo e si incontrarono focosamente. Si noti che la sommità della Piccola di Lavaredo è formata da una serie di blocchi accatastati, piatti ma non certamente ampi ed esposti su almeno 300 metri di vuoto da ogni lato. Ebbene, l'incontro fra i due non era ancora terminato quando, dal verticale camino Zsigmondy della normale, che sbuca proprio in vetta, si affacciò un'altra guida con un cliente. Fin dal penultimo tiro di corda la guida doveva aver sentito un rumorio inequivocabile; emersa a mezzo busto sulla piattaforma sommitale, diede una rapida occhiata, riconobbe il collega che aveva smesso i panni dello scalatore e non ritenendo il caso di disturbare o spaventare, fece sosta quindici metri sotto la vetta, all'interno del camino. Recuperò il cliente e cavallerescamente volle concludere a pochi passi dalla sommità la sua giornata.
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