Un salto di buona roccia di 7-8 metri, sul quale, durante la Grande Guerra, forse era posata una scaletta, schiude l’accesso ad una cima ampezzana particolare, il Taburlo. Quotato 2268 metri, quasi schiacciato fra il retrostante, imponente Taé e il prospiciente, poco rilevato Col Rosà, questa cima dal toponimo arcano domina Pian de Loa con una parete rossastra di alta difficoltà, salita il 16 giugno 1963 da Ivano Dibona e Marcello Bonafede, che l’avevano tentata senza successo nel novembre dell’anno prima. Il libro di vetta, posto lassù all’inizio degli anni Novanta da una compagnia d’appassionati ampezzani - due dei quali, Claudio e Alfonso, non sono più con noi già da tempo - e ultimamente danneggiato dal maltempo, documentava la scarsa frequentazione di una cima malagevole e non ricercata. Salito per la prima volta da austriaci nel 1906, il Taburlo è una croda “all’antica”, scomoda ma appagante, e suscita da sempre le brame di pochi appassionati, scaltriti e impazienti di uscire dal recinto delle mete più famose, comode e à la page. La salita postula un buon impegno; dopo aver toccato la cima per cinque volte, una delle quali fra l’altro da solo, devo dire che mi sono sempre sentito realmente soddisfatto nel guadagnare l’inaspettata piattaforma più alta, ampia, sparsa di erba e mughi e difesa su ogni lato da pareti, canaloni e tracce esposte che serpeggiano fra rocce non proprio elementari. Ricordo soprattutto le sensazioni provate nel 1995, mentre attendevo – standomene buono in fila – che i miei compagni superassero l’ultimo ostacolo, un buon 1° grado superiore. In un momento mi vidi a pensare che la montagna dove mi stavo arrampicando, disturbata da poche presenze umane, aspra e al contempo dolce, era una meta ideale. Voglio tornarvi ancora, per gustare l’atmosfera che da sempre la mantiene così com’è!
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