giovedì 2 luglio 2009

Becco di Mezzodì: il primo caduto in montagna del 2009 a Cortina

Ho provato un particolare senso d'inquietudine, leggendo della caduta di un sessantacinquenne germanico dalla via normale del Becco di Mezzodì, il 30 giugno scorso. L'alpinista è scivolato sulla parte finale della via, precipitando lungo il versante N, che - secondo la stampa - presentava ".. ripidi salti di roccia innevati, a circa 2.300 metri di altitudine, 300 metri sotto la cima. " A parte il marchiano errore altimetrico (l'attacco della normale, sul lato S, si trova già a 2.450 m circa, e trecento metri sotto la cima ci sono ghiaioni su entrambi i versanti, non salti di roccia innevati), al momento dell'incidente l'alpinista percorreva, slegato, con un connazionale la cresta che precede la cima, vicino al pilastro da dove iniziano le calate a corda doppia. Ho scalato la via normale del Becco (che gronda di storia, risalendo al 1872) una decina di volte, l'ultima il 14 luglio 2005, trent'anni dopo la mia prima visita. Di conseguenza, sono passato una decina di volte per la cresta che precede la cima, vicino al pilastro da dove partono le doppie. La cresta non è difficile, ma piuttosto friabile e insidiosa; a mio parere, farla in cordata e piazzarvi anche una buona protezione non è certamente superfluo. Il Becco di Mezzodì, dunque, ha fatto un'altra vittima, dopo il mio professore del liceo Don Luigi Frasson (caduto il 23 luglio 1992). Peccato: è la "mia montagna", il teatro del battesimo in roccia di un diciassettenne che già mangiava le montagne con gli occhi, e mi piange il cuore pensare che lassù, sui quei 150 metri di roccia un po' solida e un po' friabile e ghiaiosa, si possa anche morire. E ringrazio il cielo per la fortuna che mi è sempre stata data: poter godere la breve, non banale scalata con gli amici e giungere in vetta ammirando un panorama d'eccezione, respirare la storia che quelle rocce trasudano e infine tornare a casa contento.

martedì 30 giugno 2009

Torre Inglese, un laboratorio per il futuro

Sabato 27 giugno ho finalmente visto, dal basso, il ricercato sistema satellitare posto nel 2006 in vetta alla Torre Inglese, nel gruppo delle Torri d'Averau. L'apparecchio ha un fine scientifico: controllare il pinnacolo per anticiparne possibili crolli e prevenire un'eventuale fine triste come quella della “sorella” Trephor, schiantatasi d'improvviso al suolo nel maggio 2004. La quinta delle guglie d'Averau visibili da Cortina, caratteristica per la sua forma a corno, è alta 53 metri ed ha una storia succinta ma interessante. Fu conquistata dal lato S.E. da G.W. Wyatt, con le guide Angelo Maioni e Sigismondo Menardi. Era l’estate 1901, e - dopo la Grande - l’Inglese era la seconda guglia d’Averau ad essere salita. Nel 1924 il giovanissimo Severino Casara apportò una variante alla via originaria, salendo la paretina dove di solito si scende a corda doppia. Il 28 giugno 1936 Gino Soldà, di passaggio a Cortina, superava in solitaria lo spigolo E, e durante la guerra, il 23 settembre 1941, M. Borgarello e R. De Toni scalavano la gialla parete O (già scesa a corda doppia nel 1912). Da ultimo, cedette il fotogenico spigolo S, ascritto nel 1960 a Vittorio Fenti e Bepi Pellegrinon. Quest’ultima via però non pare accreditata, poiché esistono testimonianze fotografiche di alpinisti sullo spigolo anteriori al 1960. Oggi la Torre Inglese è molto visitata, per la breve ed elegante salita su roccia solida. Chi scrive vi si cimentò per la prima volta nell'estate 1974, guidato dallo Scoiattolo Luciano Da Pozzo, e il 4.4.1976 vi compì da capocordata la prima di una buona serie di ascensioni, fra le quali anche una solitaria.