giovedì 29 luglio 2010

Franz Xaver von Wulfen, chi era costui?

Il primo vero scalatore delle crode dolomitiche, sessant’anni prima della conquista del Pelmo per opera dello scozzese John Ball, potrebbe essere stato uno scienziato: il barone Franz Xaver von Wulfen (1728-1805), botanico e geologo austriaco che scoprì la pianta poi dedicatagli dal collega olandese von Jacquin, la Wulfenia carinthiaca, e il minerale detto wulfenite. Nato a Belgrado, figlio di un feldmaresciallo dell’esercito austriaco, iniziò gli studi nel ginnasio di Kosice e a diciassette anni entrò in un collegio gesuita di Vienna, diventando presto egli stesso insegnante di matematica e fisica. Praticò l'insegnamento in varie città: Vienna, Graz, Neusohl, Gorizia, Lubiana e dal 1764 Klagenfurt, dove visse fino alla fine. Per circa un ventennio si occupò della flora delle Alpi orientali, esplorando le Alpi austriache e soprattutto il massiccio del Grossglockner. Tra le piante scoperte dall’austriaco rientrano la Campanula zoysii e la Primula glutinosa. Nel 1781 pubblicò i risultati delle sue ricerche nell'opera Plantae rariorum Carinthicae, e in seguito intraprese nuove esplorazioni, verso sud fino all’Adriatico e a nord fino ai Paesi Bassi. Nel 1790, trovandosi per motivi scientifici nel circondario dell’allora sconosciuto Lago di Braies, scrisse di aver salito la Croda Rossa, L'affermazione non sembra possibile, a causa delle difficoltà alpinistiche superiori alle capacità del tempo che la montagna presenta, per cui si ritiene che von Wulfen sia salito per primo su una cima non precisata ad oriente della Croda Rossa, che potrebbe essere stata la Kleine Gaisl (Piccola Croda Rossa) o la Gaisele (Crodetta). Tornato in zona nel 1794, quindi già ultrasessantenne, giunse in vetta ad un’altra montagna, che si è creduto di identificare nel panoramico Lungkofel (Monte Lungo di Braies). Nel 1796 fu nominato membro onorario dell'Accademia Reale Svedese delle Scienze: oggi però sulle Dolomiti nessuno più si ricorda di lui, né a Braies né altrove!

martedì 27 luglio 2010

Col Rosà: niente a che fare con la rosa o il colore omonimo

Un oronimo ampezzano che sembrerebbe evidente, ma presuppone invece un'indagine etimologica più “sottile”, è quello di una cima che vedono tutti coloro che percorrono la strada d'Alemagna verso Cimabanche e Dobbiaco: il Col Rosà. Anticamente denominato Crepo del Cetrosa o anche Monte Ola, con toponimi oggi del tutto dimenticati, il Col Rosà potrebbe dovere l'appellativo, che non ha niente a che fare con la rosa o il colore omonimo, alla stessa radice di Monte Rosa, Plateau Rosà, Roisetta, Tète des Roeses ed altri, situati perlopiù in Valle d'Aosta. Nel patois valdostano, “rosa” significava semplicemente ghiaccio! È allora da credere che quest'oronimo sia così antico, da risalire a un epoca in cui nella zona c'erano ancora campi nevosi e ghiacciati perenni? Questa è una suggestione personale, può darsi anche facilmente smentibile. In ogni caso, a me piace l'oronimo di “Monte Ola”, che si ricollega senza alcun dubbio al retrostante Valon de ra Ola, l'erto invaso detritico incuneato fra gli Orte de Tofana e le balze terminali della cresta che scende dalla Tofana di Dentro. In ampezzano “ola” significava pentola, dunque la similitudine sarebbe derivata da un avvallamento rotondeggiante o da qualcosa di simile. Ora lascio altre disquisizioni sul nome: il Col Rosà è una delle prime montagne ampezzane che ho avuto modo di conoscere da ragazzo, salendovi per la prima volta lungo la ferrata “Ettore Bovero” una quarantina di anni fa. Lasciate le ferrate, in quest'ultimo quindicennio ho riscoperto il sentiero n. 447, che collega Pian de ra Spines con la cima, risalendolo “controcorrente”, visto che da esso scendono tutti i ferratisti, per quattro o cinque volte. L'ultima salita, per adesso, è avvenuta in una luminosa, torrida giornata di maggio 2005.

lunedì 26 luglio 2010

Era sicuramente più evocativo l'oronimo antico Crepo de ra Ola, che mi suggerì qualche anno fa Alberto, ex guardacaccia, che non quello attuale di Col Siro! Sto parlando del rialzo cupoliforme, erboso sul versante che guarda la Punta Nera e la Zesta del Sorapis e roccioso su quello opposto. Il Col Siro campeggia isolato sulla Monte de Faloria, e si può salire con una facile e gradevole, quanto quasi sconosciuta passeggiata da Forcella Faloria, a sua volta poco distante dal Rifugio Tondi. Ovviamente, non mi pare valga la pena partire da Cortina con l'intenzione di salire soltanto il Col Siro, anche se in fondo è una cima vera e propria, quotata 2300 m e raggiunta sicuramente ab antiquo da cacciatori e pastori. Ho salito l'ultima volta quella sommità il 20 luglio di due anni fa, ritrovando la rozza croce di rami secchi che avevo lasciato cinque anni prima. Accompagnavo amici milanesi, appassionati escursionisti incuriositi da quello strano toponimo; una volta salita e ridiscesa la cima, completammo la giornata scendendo per la Val Orita fino a Fraina. Mentre tornavamo dalla cupola, una famiglia di escursionisti (che intuii essere catalani) guardava incuriosita. Dopo di noi, i quattro si presero la briga di ascendere anche loro il Col Siro, che di suo offre comunque un vasto, bel panorama sulle crode Ampezzane. Così, in un solo giorno di luglio, la cima si sentì calpestata da dieci persone, un primato che penso assoluto per una cima poco significante e quasi sconosciuta ma che ha anch'essa qualcosa da dire.

Sentiero Federico Terschak, un progetto lasciato cadere

Qualche anno fa proposi a chi di competenza l'eventualità d'intestare (senza spese, né interventi manutentori, se non almeno un paio di cartelli segnaletici) un tratto di sentiero nel circondario montuoso d'Ampezzo ad un alpinista, organizzatore sportivo e scrittore che a mio parere poteva meritare un piccolo cenno di riconoscenza dal paese, Federico Terschak detto Fritz (1890-1977). Mi furono prospettate delle perplessità, poiché Terschak non era ampezzano, e così abbandonai l'idea. È indubbio che Fritz, di padre boemo e madre germanica, era nato a Monaco di Baviera ed aveva vissuto l'infanzia in Val Gardena, ma venne a Cortina già all'inizio del ventesimo secolo, a Cortina sposò l'ampezzana Alda Dandrea e visse sino alla morte. Per la nostra comunità fece tante di quelle cose, da distinguersi senz'altro nell'ambito della popolazione ed essere nominato cittadino benemerito, anche se “non era ampezzano”. Il sentiero che avevo individuato è un viottolo senza nome che dalle Cojinates sale lambendo la parete S del ramo centrale del Pomagagnon, fino a incrociare il numero 202 che sale alla Forcella Pomagagnon. Non ci passano proprio tutti, perché si transita più spesso sulla sottostante stradina di guerra che proviene da Fiames; quel viottolo poteva avere un aggancio storico e alpinistico con Terschak, che sulle pareti incombenti tracciò tre prime salite nel 1910, 1913 e 1926, una delle quali di notevole difficoltà per l'epoca. E poi, non è vero che altri sentieri e ferrate di Cortina, magari per motivi meno sentimentali del mio, portano il nome illustre di uomini non nativi della valle?

Giovanni Siorpaes, guida alpina ampezzana

Il 6 aprile 2009 ricorrevano i cento anni della scomparsa di Giovanni Cesare Siorpaes Salvador, un pioniere delle Dolomiti che sarebbe stato sicuramente interprete di belle pagine dell'alpinismo se, per uno strano quanto ineluttabile destino, la morte non lo avesse prematuramente fermato. Quartogenito della guida Santo Siorpaes e della prima moglie Maria Costanza Apollonio, il Nostro - soprannominato fin da giovane “Jan de Santo” per ascendenza paterna - nacque nella vila di Staulin d'Ampezzo il 18/11/1869. Seguendo il genitore e il fratello Pietro, guida già dal 1887, conseguì a ventun anni l'autorizzazione a svolgere la professione di guida alpina. Iniziò da allora una buona attività sui monti, caratterizzata da una ventina di vie nuove, portate a termine coi più forti alpinisti dell'epoca; quasi metà di esse contribuirono all'esplorazione del gruppo dei Cadini di Misurina. Ripeté inoltre numerosi itinerari fra quelli più in voga sulle montagne ampezzane e nei dintorni, spesso guidando i colleghi aspiranti per aiutarli ad impratichirsi del “terreno di gioco” dolomitico.

1893: il 27 giugno (il 17 luglio, secondo Terschak) Giovanni scortò il collega Mansueto Barbaria Zuprian e il barone tedesco Theodor von Wundt alla scoperta della torre ancora inaccessa che s'impone nel ramo dei Cadini detto “dei Toce”, e da quella località si nota distintamente. La torre, che gli auronzani chiamavano Popena Piciol, riceverà in seguito il nome del primo salitore; la via normale, che raggiunge la vetta da E con difficoltà di II, oggi viene seguita quasi solo in discesa. “... Giovanni Siorpaes, detto “Giàn de Santo” è figlio della vecchia gloria Santo Siorpaes; scalatore di alta classe, “Giàn” farà ancora parlare di sé durante la sua breve vita.” (Terschak, 29).

Un aneddoto storico datato 1893, che riguarda Giovanni. In “Wanderungen in den Dolomiten” di Wundt, ripubblicato dalla Cooperativa di Cortina come “Sulle Dolomiti d’Ampezzo”, una fotografia nel capitolo sul Rauhkofel ritrae uno strapiombo con un alpinista che scende sulla corda, mentre un altro lo osserva. L'immagine è al centro di un equivoco. Alcuni autori, che fraintesero il testo tedesco, identificarono l’alpinista a destra in Mansueto Barbaria, mentre in quello che scende videro Santo Siorpaes. Wundt però non cita mai Santo, ma solo il “Santobua”. “Bua”, casato ampezzano estinto, è la corruzione di “Bube” (“ragazzo, moccioso”), e nel testo la voce è stata tradotta in “il giovane Santo”. All'epoca del Rauhkofel, Santo aveva 61 anni e si era ritirato dall'alpinismo attivo, perciò “il giovane” potrebbe essere uno dei figli: Pietro o Giovanni. Lungi da noi voler defraudare Siorpaes di un'eventuale ultima impresa, che integrerebbe quelle del periodo migliore. Va rilevato invece che spesso nelle ricerche storiche, un termine frainteso può stravolgere fatti di ampio rilievo. La traversata del Rauhkofel non ha mai avuto molti seguaci, anche se l’ambiente è attraente. Fu suggerita da Eckerth nel suo “Il Gruppo del Monte Cristallo” del 1891: Wundt raccolse la sfida e la compì, ma uno dei suoi compagni forse non era Santo, come - equivocando sul tedesco - si è finora creduto.

1894: il 26 agosto, Siorpaes si addentrava ancora una volta fra i Cadini con i fratelli Adolf e Emil Witzenmann di Dresda. Con loro, la guida scalò la parete occidentale della Cima Cadin di San Lucano, la più alta del gruppo, conquistata in solitaria dalla guida auronzana Luigi Zandegiacomo Orsolina, e poi salita in prima “turistica” dall'oste di Schluderbach Georg Ploner, con lo stesso Orsolina, nel 1870. L'itinerario, il terzo aperto sulla Cima, consentì di raggiungerla rimanendo sempre su roccia ed evitando il canalone nevoso della via originaria. In quel periodo, Witzenmann iniziò una minuziosa esplorazione alpinistica dei Cadini, condensata nella prima monografia ufficiale del gruppo.

1895:dopo la prima alpinistica (31/5/1867, Francis Fox Tuckett, Melchior e Jakob Anderegg con Simeone de Silvestro Piovanel di Pecol, già salito in vetta tempo prima), ad attirare i migliori alpinisti era la parete nord-ovest della Civetta, giudicata inscalabile. Il 24/8/1895 Arthur Guy Sanders Raynor e John Swinnerton Phillimore l'affrontarono con Antonio Dimai e Siorpaes, ideando un percorso tortuoso e impegnativo, detto“via degli inglesi”. La via, cui seguirono nel 1906 quella “degli agordini” di Tomè e nel 1907 la “Stewart”, anticipava la direttissima aperta nel 1925 da Solleder e Lettenbauer, la prima via di VI e per anni la più difficile scalata delle Dolomiti.

1896: nell'estate, Jan realizzava quattro prime salite. Il 18 agosto, con Emil Witzenmann e il collega di Sesto Pusteria Johann Innerkofler, salì sul Cristallo dal versante NE: mezzo chilometro di parete con neve, ghiaccio e roccia. Sei giorni dopo la cordata, alla quale si era aggiunto Adolf Witzenmann, conquistò da NE la Torre Sud-Ovest di Popena; a tutt'oggi la via pare sia l'unica tracciata sulla torre. Il 29 agosto le cordate, alle quali partecipava anche l'aspirante Agostino Verzi Sceco, avviato ad un grande futuro, individuavano e salivano un altro campanile vergine dei Cadini, che verrà battezzato Torre Siorpaes. La loro via attacca dalla forcelletta dedicata alla guida; quasi quarant'anni dopo sarà affiancata da itinerari di alpinisti famosi, Ettore Castiglioni ed Emilio Comici. Il 31 agosto, Giovanni concluse la stagione ancora una volta fra i “suoi” Cadini, salendo in prima assoluta la Cima Cadin di Misurina, nell'omonimo ramo che domina il Lago. Con lui c'erano il fratello Pietro, ancora Johann Innerkofler e poi un terzetto illustre: il barone magiaro Lorànd von Eötvös, conquistatore nel 1884 con Michel Innerkofler della Croda da Lago, e le figlie Ilona e Rolanda, che sulle crode d'Ampezzo torneranno, raccogliendo molti successi, fino agli anni '30 del 20° secolo.

1897: l'11 agosto Giovanni risolse un interessante problema alpinistico, la parete NE della Croda dei Toni, una delle cime più imponenti ed eleganti delle Dolomiti. Sono settecento metri di dislivello in vista della Zsigmondyhütte; l'arrampicata si rivelò molto impegnativa, su roccia spesso ombrosa, umida e con tratti ghiacciati, in ambiente severo. Con Jan c'erano di nuovo i fratelli Witzenmann; le guide di supporto erano Arcangelo Siorpaes de Valbona e “O. Dimai”, che non poteva essere Antonio, impegnato proprio quel giorno con Phillimore, Raynor e Giuseppe Colli Paor (guida dal 1884) sulla “Via Inglese” da SW alla Tofana di Mezzo.

1899: è l'anno di tre vie nuove, diverse tra loro e piuttosto impegnative dal punto di vista puramente tecnico. Il 12 agosto Jan ritrovava i Witzenmann. Capitanato da Antonio Dimai Deo (guida dal 1888), il gruppo salì il camino di destra dei due che tagliano la parete sud del Sas de Stria, cima isolata fra il Passo Falzarego e il Valparola. Il camino, dedicato a Dimai, seppure breve, presentò un “tratto liscio, svasato, strapiombante a destra e in fuori” valutato di V, che poco dopo la prima salita sarà munito di un “moncone di corda ferro, sporgente dalla strozzatura superiore”. Il 24 agosto, Giovanni si unì a Pietro Dimai Deo per tornare sulla Croda dei Toni a salirne la gola N con i fratelli russi Arno e Nelly Kirschten. La nuova via si svolge in un ambiente tetro, presentò roccia friabile e molti tratti ghiacciati. Negli anni seguenti i settecento metri della via, che richiesero al quartetto sette ore di scalata, avranno ben poche visite. Il 9 settembre, infine, Giovanni con Dimai, Verzi e i tre fratelli Kirschsten, tracciarono la “variante ampezzano-russa” da SW alla via che, passando per la forcelletta dedicata alle tre guide, giunge in vetta alla Cima Undici nel Popera. L'ascensione richiese in totale cinque ore di arrampicata.

1900: il 24 agosto Siorpaes coinvolse il collega Verzi, per guidare il cliente Felix Pott sulla parete S della Punta della Croce, che affianca a destra la più nota Punta Fiames. La “via originaria” inizia dal ciuffo di mughi detto “i barance del banco” e sale a sinistra della grande fenditura centrale per venti lunghezze, sei delle quali di discreto impegno. Ebbe molto credito negli anni d’oro dell’alpinismo, perché veniva salita spesso dagli aspiranti, guidati dai colleghi più anziani, per imparare le vie classiche, e ebbe le visite di Orazio De Falkner, del Re dei Belgi e di molti altri altri. Il 15 settembre Giovanni si aggirava ancora una volta fra le guglie dei Cadini di Misurina, dove aveva trovato il terreno giusto per esprimere la sua passione e dove tornerà ancora. Con il fidato Verzi, il collega Andreas Piller di Sesto, il barone von Eötvös e le figlie, salì per primo sulla Cima Nord dei Gemelli, nel ramo di San Lucano. Nello stesso mese, sempre nel gruppo dove ormai era di casa, con Antonio Dimai e con le Eötvös Siorpaes conquistava altre due vette nel ramo della Neve, oggi dimenticate dalla storia e dagli uomini. Esse ricordano insieme le valenti guide ampezzane che vi condussero la cordata vittoriosa: sono il Campanile e la Cima Antonio Giovanni.

1901: in agosto (forse l'8), con Dimai, Verzi e le Eötvös, Jan de Santo saliva la parete sud della Tofana de Rozes. La via supera in modo indiretto ma incuneandosi astutamente fra grandi strapiombi, la grande parete che incombe sulla strada di Falzarego. Il tracciato, destinato a diventare un classico che ha migliaia di ripetizioni, si sviluppa per quasi mille metri e richiede grande rispetto anche ai nostri giorni. Cinquant'anni dopo, il 18/1/1953, sarà salito d'inverno in nove ore da tre agguerriti Scoiattoli di Cortina: Lino Lacedelli, Guido Lorenzi e Albino Michielli, e nel 2001, per ricordare il centenario della prima salita, verrà interamente illuminata di notte con le torce.

1902: Jan continuava le sue conquiste. Per la prima delle due vie nuove della stagione tornò nei Cadini. Il 26 luglio, la cordata della Tofana di Rozes, vinse il Gobbo, una piccola e sghemba torre di fronte alla Torre del Diavolo. “E certamente nacque allora l'idea, messa in pratica un anno dopo, di vincere con mezzi artificiali quella superba cima che aveva sfidato l'abilità dei miglior scalatori dell'epoca.” (Terschak, 40). Un mese dopo, Siorpaes e Dimai guidarono un giovane poeta ungherese, Marcel de Jankovics, su un grosso pilastro che balza dal ghiacciaio del Meduce. Era da poco caduto il Campanile di San Marco a Venezia e l'ungherese, con pensiero squisito, volle battezzare la cima con l'augusto nome.

1903: Giovanni bazzicava ancora fra i suoi amati Cadini, per risalire sulla Torre Wundt, che lui stesso aveva conquistato esattamente dieci anni prima. Questa volta toccò al grande camino W, un budello scuro e tortuoso oggi praticamente sconosciuto. Lungo il camino Giovanni condusse il cliente A. Schubert. La via riveste un piccolo rilievo per la storia alpinistica, in quanto ad essa è associato per la prima volta il nome di Angelo Dibona Pilato, che con Siorpaes aveva già effettuato diverse ascensioni e stava compiendo il tirocinio in attesa di ottenere l'abilitazione a guida, conseguita nel 1907. Il 4 agosto, per traversata aerea mediante il getto di una corda dall'antistante Gobbo, Siorpaes giunse con Dimai, Verzi e le baronesse von Eötvös in vetta all'aguzza Torre del Diavolo. L'impresa fu definita da qualcuno “una divertente birichinata”, ma nel mondo alpinistico suscitò una valanga di polemiche, perché si trattava di una conquista ad ogni costo e il metodo usato, se non per le Alpi, era una novità assoluta per le Dolomiti, anzi un'aperta provocazione all'ideologia degli scalatori dell'epoca. Ed una provocazione resterà fino al 1913, quando Hans Dülfer e Willy von Bernuth spuntarono in vetta alla Torre dalla spaccatura che la separa dalla Torre Leo.

1905: il 22 agosto, Giovanni portava a termine l'ultima delle sue vie nuove. Con l'ormai affezionato Adolf Witzenmann e Sepp Innerkofler, caduto dieci anni dopo sulla vetta del Paterno, raggiunse, infatti, la Cima Undici salendo dal Passo della Sentinella lungo la cresta N. La nuova via si svolge a destra del grande canale nevoso lungo il quale, il 16/4/1916, scenderà il Capitano Giovanni Sala con i suoi 38 “Mascabroni”, per occupare rapidamente lo strategico Passo sottostante. Jan de Santo aveva 36 anni, era guida da quindici, nel pieno della maturità e della vitalità alpinistica; purtroppo la sua parabola sarebbe durata ancora per poco tempo.

1909: merita di essere raccontata la beffarda fine della guida, che alla fine del secolo aveva raccolto l'eredità del padre, succedendogli come Imperial Regio Maestro Stradale al Passo Cimabanche; in un certo senso la scomparsa di Giovanni equivalse anche al declino della zona come punto di riferimento per il turismo alpino. Con i risparmi derivanti perlopiù dalla professione e mediante un prestito di 40.000 corone, Siorpaes era riuscito a edificare un elegante albergo sulla Strada d’Alemagna, al cospetto della Croda Rossa. Per merito della guida e del lavoro suo e della moglie Giuditta, l’esercizio acquisì buona fama. Nell’autunno 1908, Giovanni stava guidando un carro a due cavalli vicino all'albergo, quando i quadrupedi, impauriti dall’apparizione di una delle prime automobili circolanti in Ampezzo, s’imbizzarrirono. La guida fu trascinata lungo la strada dal carro impazzito: soccorsa e curata, parve migliorare. Gli strascichi dell’incidente però non tardarono a manifestarsi: nell'inverno Jan si ammalò di polmonite e il in aprile morì, a quarant'anni e con figli ancora piccoli. Il 26/5/1915, due giorni dopo l'inizio della Grande Guerra, pochi e ben piazzati colpi di cannone del Regio Esercito Italiano rasero al suolo l’albergo, che aveva la disgrazia di trovarsi in prima linea; esso non fu più ricostruito. La vedova della valente e sfortunata guida si trasferì a Cortina, dove gestì per molti anni l’Hotel Venezia. La dinastia delle guide Siorpaes Salvador-da Sorabances e la loro epoca, purtroppo, erano giunte al tramonto.

1910: un riferimento bibliografico errato, che si perpetua da ottant'anni, vede Giovanni partecipe di un'ulteriore prima ascensione: quella della parete BW della Croda Rotta, elevazione minore delle Marmarole. La scalata fu compiuta in settembre dalle sorelle von Eötvös; capocordata era, anche questa volta, Antonio Dimai. Secondo le fonti, completavano il gruppo tre guide ampezzane, Agostino Verzi e due Siorpaes. Di costoro, uno era suo cugino Serafino de Valbona; l'altro, citato come “G.”, non poteva essere il Nostro, che purtroppo già da un anno e mezzo dimorava nel mondo dei più.

Sant'Hubertus, la villa scomparsa

La villa di caccia Sant'Hubertus, nei pressi del "Tornichè" di Podestagno, fu edificata sullo scorcio dell'Ottocento per volere di due donne, la contessa Emilia Howard Bury e l’americana Anna Powers Potts, La costruzione dell'edificio o, per lo meno, i progetti e le richieste alla Regola di Lareto proprietaria del terreno, per acquistare un appezzamento sui prati “de Castel”, erano iniziate nel 1896. Le signore avrebbero voluto acquistare 3-4.000 mq di terra, una quantità impensabile per i regolieri, che diedero risposta negativa. Esse allora si rivolsero al Comune, proprietario dei boschi da una decina d'anni, ed ottennero con facilità il permesso di costruire sul rialzo a fianco del tornante, a sinistra della strada che sale a Ra Stua, la villa tanto desiderata. Ai regolieri ampezzani non rimase altro che chiedere il compenso per il mancato diritto di utilizzo dell'erba sui 5200 mq ceduti alle nobili, pretendere il ripristino dei luoghi da cui stata estratta la ghiaia per la costruzione, sulla parte destra della strada, e dei danni subiti dal pascolo. Nel 1898 le nobili ottennero dal Comune anche la concessione per cacciare in tutta la zona N della valle, che mantennero fino al 1908. La casa fu splendidamente arredata e abitata dalla fine del secolo, ma non ebbe fortuna. Dopo una quindicina d'anni venne a trovarsi a cavallo dei due fronti, e i soldati di entrambe le linee la depredarono e la cannoneggiarono senza ritegno, finché non ne rimasero che i ruderi, alcuni dei quali sono ancora tristemente visibili sulla collinetta.

Becco Muraglia, silenzio e solitudine

Un sabato pomeriggio gonfio di pioggia (puntualmente scatenatasi due minuti prima che giungessimo all’automobile), salimmo una cima dolomitica senza importanza, interessante dal punto di vista degli studi storici: il Becco Muraglia, o Beco de ra Marogna. Si tratta del cono roccioso isolato ai piedi del Nuvolao, visibile dalla strada del Passo Giau nei pressi dell'omonima Casera, oppure dal Rifugio Cinque Torri, al quale sta proprio di fronte. Il Bèco è storicamente importante perché costituisce il caposaldo iniziale della Marògna de Jou, la muraglia costruita in due mesi nell'estate 1753 per dividere i pascoli di San Vito di Cadore da quelli ampezzani. Salirlo non è cosa lunga né troppo difficile, anche se la roccia non brilla per compattezza, e la breve gita rimane riservata a chi sia un po’ pratico di terreni impervi. Seguendo le tracce dei selvatici che popolano il bosco sovrastante la SS 638 e internandosi fra i mughi, dopo aver sorpreso una famigliola di caprioli, in 45 minuti dal parcheggio uscimmo sul panoramico colletto erboso che sostiene il versante nord del Becco. La paretina finale (50 m, valutabili di I) è composta di roccia gradinata, ghiaiosa e un po’ friabile ma ugualmente piacevole da salire. Sulla stretta cima coperta di blocchi, dopo 25 anni dalla prima delle mie cinque visite, ritrovai la misera asta di legno con due tabelle di significato poco chiaro, che funge da croce di vetta Il Becco, sulla cui parete E salgono due brevi vie aperte dalla guida Franz Dallago, non ha comunque un grande interesse alpinistico, e la guida “Berti” non lo cita nemmeno. Mi sento di suggerirne ugualmente la salita a chi, volendo spostarsi soltanto per mezza giornata da destinazioni più note e battute, cerchi un angolo lontano dalla “bagarre” turistica agostana, in una zona facilmente accessibile ma poco frequentata e che riserva un silenzio e una solitudine godibilissimi.

Pra della Vacca: brutto nome, bella cima

Nell’estate 2003, girellando tra i monti attorno al Lago di Braies, scoprimmo una cima da consigliare a chi cerca una gita d’impegno limitato in un ambiente riposante: la Kűhwiesenkopf, in italiano Cima Pra della Vacca. Detta anche Franzjosefshőhe in onore dell’Imperatore Francesco Giuseppe, cui in passato era dedicata la croce di vetta, e quotata 2140 m, è l’ultima elevazione verso oriente della dorsale dei Colli Alti, fra Monguelfo e Valdaora. Punto panoramico di prim’ordine sulla conca di Braies e sulle vette che la cingono, fino ai Monti di Casies e alle Dolomiti, ha anche interesse scientifico, poiché vi sono stati effettuati importanti studi geologici. Per salirla, s'imbocca una strada forestale che dal Lago di Braies s’inoltra nel bosco, lambisce l’isolato Riedlhof e si esaurisce in uno slargo, ai piedi di un vasto smottamento. Proseguendo lungo un costone e superando un erto ghiaione, si sale a zigzag ad una sella con antichi fienili, in parte diroccati, sul bordo dell’Alpe Pra della Vacca. Continuando per il pascolo, si taglia verso destra la testata di una valletta e per i ripidi tornanti che da sud s’inerpicano in cresta (sui quali, improvvisamente, ricordo nel 2003 che ci si parò davanti un … ciclista, che scendeva con il suo mezzo su una traccia non più larga di venti centimetri), dopo 650 m di dislivello si tocca la cima, sulla quale campeggia un’artistica croce e da dove si gode una vista amplissima. Per scendere, si può scegliere l’erta traccia che divalla sul versante opposto, lungo il crinale fra la Cima e l’antistante Burgstallereck (Monte Castello di Braies), fino ad un valico erboso. Lungo uno scosceso ed un po’ malagevole vallone alberato, ci si porta alla bella Wöggenalm (Maso di Castello, rustico ristoro) e per strada forestale, sentiero e da ultimo sull’asfalto, dopo circa cinque ore di marcia si rientra al Lago. Sarà stata la solatia giornata d’agosto, l’atmosfera sospesa della zona, o qualcos’altro: il fatto è che il tranquillo anello della Kűhwiesenkopf ci offrì una gita davvero meritevole, che in seguito ripetemmo altre volte.