giovedì 5 febbraio 2009

Il Sas del Orso Bianco e quattro ragazzi degli anni '70

Nelle nostre menti d’adolescenti, scalare le rocce era quasi un mezzo di “promozione sociale”, e per questo ci davamo da fare.
Nei primi anni '70, nel bosco che lambisce Mortisa, avevamo scoperto un masso, “parente” di quelli di Volpèra, che spunta dal folto degli alberi come un grosso dente.
Complice il parziale e primitivo adattamento fatto in epoca ignota dai ragazzi della zona, vi andavamo spesso, per esercitare - più che le braccia - la nostra smisurata fantasia.
Da uno di noi, il masso era stato battezzato (chissà perché) “Sas del Orso Bianco”: se ricordo bene, esso si articolava in un blocco principale dall’angusta sommità, sul quale si poteva salire per zolle e rocce instabili.
Nel circondario c’erano anche un terrazzo, dove con lamiere e teli di plastica era stato ricavato un prototipo di bivacco, una cengia attrezzata con chiodi, fil di ferro e una scaletta di legno, e altri ammennicoli.
L’unica zona in cui non mettemmo mai il naso era la parete del Sas che guarda Campo di Sotto, non altissima ma verticale e liscia, dove credo sia poi salito in quegli anni lo “Scoiattolo” Carlo Michielli.
Per il nostro Sas, macinavamo un sacco d’idee e di progetti: dall’attrezzare una via ferrata, per collaudare la quale erano già disponibili volonterosi parenti, all’aprire vie “dirette”, “direttissime”, “spigoli” in ogni centimetro libero.
Le difficoltà dei brevi tratti dove era necessario mettere giù le mani per salire toccavano forse il III, ma la roccia era così incerta e mista ad erba e ghiaia, che comunque il masso non sarebbe mai potuto diventare una “palestra” come si deve!
Dentro di me, il mito del Sas s’infranse miseramente il giorno che, dalla strada chje conduce al Lago d’Aial, vedemmo due tizi atletici che salivano la parete di fronte al nostro regno, su roccia senza dubbio migliore e con difficoltà degne del loro nome.
Capocordata era il vicentino Diego Campi, già compagno di Renato Casarotto, che in un pomeriggio di “disperazione” aveva tracciato con tale Scattolin una “diretta” vera, mortificando il nostro piccolo mondo di roccia a favore di una parete seria.
Lungo la quale noi, forse, non saremmo mai riusciti a salire.

mercoledì 4 febbraio 2009

Non è tempo di salire montagne, ma quest'estate si potrebbe pensarci ...

Chi sa dove si trovi il Col Siro? Pochi, presumo: per cui, lasciate che ve lo sveli. E’ un promontorio appartato, dimesso e poco maestoso, che si leva dalla Monte de Faloria a NNE della omonima Forcella. Salendo da Tre Croci verso le forcelle del Ciadin e di Marcoira, salta all’occhio, poiché espone verso il valico una modesta parete rocciosa, alta molto meno di cento metri. Quotato 2300, si raggiung facilmente per pascoli, deviando per poco dal sentiero che attraversa la Monte suddetta e unisce Tre Croci a Faloria. Il Col Siro domina un ambiente incantevole, verde e silenzioso, ma purtroppo anticipa di poco i pesanti sbancamenti turistici perpetrati a Faloria e sui Tondi. Forse a nessuno è mai venuto in mente di sfogarsi sulle rocce che guardano il Passo. Sono certo che qualcuno lo farà, perché gli spazi vergini sui quali sbizzarrirsi si vanno riducendo sempre più, conquistare le cime non è più importante, e anche un'umile "gnocco" erboso, se offre qualche metro quadrato di roccia, può andar bene. L’oronimo del Col Siro è fumoso: forse è legato al nome di qualcuno che in tempi andati ebbe qualcosa a che fare con la zona, oppure potrebbe essere una abbreviazione, contrazione, deformazione di un nome che, ora come ora, non saprei. Pare che in antico si chiamasse Crepo de ra Ola, ovvero Roccionr della padella. In ogni caso, chi passasse di là , lungo il sentiero che collega le due insellature citate con la Forcella Faloria e consente di avvicinarsi al Ciadin del Loudo, la Zesta, la Punta Nera, la Val Orita, ascoltatemi. Se la giornata è bella, soleggiata e v’interessa scattare fotografie da una prospettiva inusuale, spendete un quarto d'ora e salite a curiosare sul Col Siro. Non tante persone vantano nel loro palmarès una “cima” dal nome così strambo, e sfido chiunque - estraneo all'ambiente alpinistico - a posizionare questo colle …

martedì 3 febbraio 2009

Un sentiero per ricordare

Qualche anno fa un’encomiabile operazione di restauro, attuata dalla squadra della guida alpina Armando Dallago, ha riportato all’attenzione di coloro che camminano nella natura soprattutto per goderne la grandezza, un sentiero che stava cadendo nell’oblio: il n. 443, dal Passo Giau al Rifugio 5 Torri. La sistemazione è stata resa possibile grazie alla magnanima donazione alle Regole d’Ampezzo, disposta per legato da una giovane immaturamente scomparsa, che ha inteso lasciare memoria di sé fra le amate crode ampezzane. E’ nato così il Percorso naturalistico “Cinque Torri Passo Giau” o Sentiero “Francesca Brusarosco”. L’itinerario, articolato in due anelli di lunghezza differente in base all’idoneità e alle esigenze degli utenti, ha trovato poi naturale complemento e divulgazione in un libretto di 80 pagine, ricco d'immagini del recesso in questione, curato da Stefanella Caldara e edito dal Parco Naturale delle Dolomiti d’Ampezzo. Il libretto, compilato a dieci mani da Angela Alberti (storia), Michele Cassol (fauna), Michele Da Pozzo (flora), Cesare Lasen (vegetazione), Chiara Siorpaes (geologia), fornisce un’immagine esaustiva e seducente delle cospicue peculiarità naturalistiche e culturali che emergono, solo ad una più attenta lettura, dal territorio montano. Nel caso di specie, si tratta della plaga, ancora piuttosto integra, che si allunga fra i pascoli di Giau, in Comune di San Vito di Cadore, e la zona di Potor, nota da oltre un secolo a “touristi” e rocciatori per le possibilità di scalate offerte dalle 5 Torri. Grazie ai perspicaci interventi dei collaboratori e alle fotografie, molte delle quali inedite dal punto di vista prospettico, si disegna così, con estrema accuratezza, una porzione d’ambiente dolomitico ricca di peculiarità, sotto e sopra il piano di calpestio. In tanti quarant’anni di vagabondaggi, quante volte abbiamo percorso il sentiero che cinge la misteriosa zona del Forame, in uno o nell’altro verso? Quante volte ci siamo attardati, anche a sera, a spiare le marmotte nei pressi del Ru de Sora? Quante volte siamo saliti sul Bèco de ra Marogna, buttando l’occhio a 360 gradi e chiedendoci come si chiama quella valle o piuttosto quel bosco là? Quante volte ci siamo domandati perché esistono (e ora, anche, tristemente cadono) le Torri d’Averau, teatro degli esercizi giovanili di scalata? Grazie alla generosità di Francesca, ai lavori di Armando e soci e al documentato volumetto illustrativo, ora possiamo dare qualche risposta alle nostre curiosità. Un’unica cosa, salvo il sacro, ci sia permesso di annotare, terminando questo pezzo. Ci dispiacerebbe che, per denaro o meno, in futuro la conca d’Ampezzo brulicasse di sentieri, luoghi od altri frammenti d’ambiente, intitolati a pur emeriti mecenati. Altrimenti, che dovremmo dire di generazioni di “britères”, cacciatori, contadini, guide alpine, legnaioli, pastori e altri che intrisero l’ambiente di sudore, lacrime e sangue, divulgandone la conoscenza in punta di piedi, per consegnarci oggi la stupenda realtà nella quale viviamo?