mercoledì 10 febbraio 2010

I misteri del Beco d'Aial

Qualche anno fa la scrittrice milanese Lorenza Russo, autrice di un saggio sulla toponomastica ampezzana applicata all'escursionismo e legata alla zona di Fedèra e ai suoi misteri, insieme con altri luoghi del circondario, ha raccontato il Becco d'Aial in un libretto in italiano e ampezzano, il “Bestiario d'Aiàl”. La romantica storia che riguarda la nostra cima si svolge lungo la “seconda via”, ossia il sentiero CAI 431. “... All'inizio, presso la sponda orientale del lago de Fedèra il sentiero era largo e ben tracciato, una stradetta erbosa con il fondo di lastre di roccia bianca, levigata dai passi. E sembrava proprio un sentiero come gli altri, appeso a un albero c'era pure il cartello con il segnavia e l'indicazione per il fondovalle, ma prima di arrivare laggiù in paese, dove diceva, mi avrebbe portato dove voleva lui. Per una decina di minuti se ne scese lento, un po' perplesso, quasi avesse voluto lasciarmi il tempo di decidere, la possibilità di tornare indietro … Tagliava un bosco rado, in leggera pendenza, e tra quegli alberi nodosi e ritorti, cresciuti da quei sassi che poi erano rimasti imprigionati nelle radici – arrivava la luce chiara e fredda della Val Negra: sembrava che là sopra stesse albeggiando, ma sotto di me, verso Cortina, i colori si stavano mescolando fondendosi in un grigio indistinto. Era uno di quei pomeriggi di ottobre in cui il sole tramonta senza preavviso, avvolto da un velo di caligine. Ancora un'ora di luce, pensai, poi dovrò accendere la torcia. Tutt'a un tratto il sentiero piegò bruscamente a destra e poi con una curva secca si riportò a sinistra, verso il vuoto: mi trovai in bilico su di un poggio roccioso, da cui si vedevano bene Cortina e le montagne che la proteggono dall'aria del N. Cento metri più in basso, in una conca infuocata di larici, delle figurine scure e esili saltellavano qua e là, senza toccare il terreno., in una danza frenetica ma non fastidiosa: erano le Aiàls, le ninfe del Bèco d'Aiàl. Non ero stupita di vederle, quanto di averle incontrate in quella stagione fredda, loro che amano crogiolarsi al primo sole di giugno, distese tra le primule. Scendendo per il sentiero, in realtà sicuro e protetto da una siepe di mughi, mi avvicinavo a loro e le sentivo ridere: spostavano massi come fossero state piume, ne coprivano altri con rami e frasche, e continuavano a ridere, in uno stato di euforia a cui difficilmente potevo rimanere estranea. Poi il sentiero mi condusse ad una piccola radura e scomparve: a destra c'era una strada sterrata con la terra smossa, ma capii che, per quanto la giornata non fosse prima di stranezze, il mio sentiero non poteva essersi trasformato così tanto. Un attimo di smarrimento, uno sguardo alla cartina e facendo qualche passo verso occidente, in leggera salita, arrivai in un'altra radura dove c'era un casón diroccato. Sul tronco di un abete ricomparve, inaspettato e familiare, il segno bianco e rosso e capii cos'era successo: lo scherzo delle Aials, che in un delirio beffardo, un ultimo sprazzo di entusiasmo autunnale, avevano sconvolto la segnaletica. Forse però non l'avevano fatto apposta, non contro di me … Preferii pensare così e tra il divertimento e il timore seguii il sentiero, che ormai era sempre più stretto, un corridoio tortuoso in un bosco tetro, fosco per alberi alti e neri anfratti di roccia umida e scivolosa. Sulla sinistra mille guglie di pietra e una piramide con le facce muschiate: il Bèco d'Aiàl, la casa delle ninfe dispettose. Il sole stava tramontando - ma in un bosco così non c'è luce neanche nella giornata più radiosa di agosto – e la pendenza del terreno aumentava passo dopo passo. Quando alle conifere si mescolano le latifoglie, cambiano i colori e l'odore nell'aria: l'atmosfera si faceva meno cupa e anche gli alberi, sentendosi più tranquilli, si allontanavano l'uno dall'altro, permettendo allo sguardo di penetrare più in profondità. I solchi di una slitta da carico (lióşa) correvano sul tratturo, in questo tratto fangoso e molle, e per evitare di scivolare salii sulle alte sponde di terra, da cui mi apparve subito il prato con la Crosc e il casón del Macaron: il sentiero lo attraversava tranquillo e, mi sembrò, quasi con una punta di fierezza per essere arrivato e avermi condotto fin lì. ...”

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